Molto è stato detto sul ruolo della Repubblica popolare cinese (Rpc) nel commercio internazionale, specialmente in seguito all’adesione all’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc) nel 2001. L’ascesa della Rpc è stata favorita da un forte processo di globalizzazione della produzione internazionale, adesso fortemente frammentata in fasi dislocate nelle diverse aree del pianeta. In questo contesto, la Rpc è riuscita ad occupare un ruolo centrale nel processo produttivo del settore manifatturiero, considerando che la gran parte delle merci presenti sui mercati sono prodotte nel paese (“Made in China”). Da un punto di vista contabile, ciò sta a significare che il valore totale del prodotto uscito da una fabbrica cinese viene imputato come flusso di esportazione dalla Rpc verso il paese di destinazione. È in base a questo criterio che, nel corso degli anni, il deficit commerciale dei paesi avanzati (specialmente degli Stati Uniti) con la Rpc è cresciuto in modo esponenziale.
È tuttavia risaputo che la gran parte di questi prodotti sono in realtà solo assemblati nella Rpc e che una parte consistente delle componenti del bene vengono a loro volta importate dalla Rpc da paesi terzi. Il risultato di questo processo produttivo altamente frammentato è che la quota del valore del prodotto finito effettivamente attribuibile alla Rpc è solo una frazione, spesso minima, di quello che risulta essere il valore esportato. L’esempio della produzione di un prodotto a marchio Apple è spesso citato per spiegare questo intreccio. Il contributo cinese in termini di valore aggiunto sul prezzo del prodotto all’uscita dalla Foxconn riguarda sostanzialmente la manodopera ed è quindi marginale (pesando tra il 2 e il 3% del totale), mentre la quota più sostanziale va divisa tra i componenti a più elevato valore aggiunto importati da paesi terzi tra cui Corea, Giappone, Stati Uniti e Germania (si veda la Tabella 1 per alcuni esempi).
Ciò ha conseguenze rilevanti in termini di policy. Conoscere in modo sistematico quanta parte dell’export di un paese può essere imputabile ai fattori produttivi locali o a terze parti ha implicazioni per le politiche di competitività da un lato e per meglio comprendere gli effetti sulla crescita e sull’occupazione dall’altro. Un nuovo progetto a cura dell’Omc e dell’OCSE, chiamato “Made in the World”, mette per la prima volta a disposizione una banca dati che raccoglie statistiche dettagliate sul commercio in valore aggiunto basate su tabelle input/output armonizzate per un gran numero di paesi e settori. Le informazioni raccolte da questa nuova banca dati ci consentono, tra l’altro, di desumere un quadro più chiaro del ruolo della Rpc come fulcro del commercio internazionale.
Per prima cosa, questi nuovi dati ci danno un’idea precisa sul peso del valore aggiunto attribuibile a componenti di origine “estera” sul valore totale dell’export dalla Rpc (Figura 1). La quota parte del valore prodotto all’estero prima di essere lavorato nella Rpc ammonta intorno al 30% del valore aggiunto totale dell’export cinese, un dato che sale intorno al 40% per alcuni settori quali l’elettronica di consumo e le risorse naturali. Inoltre, i dati mostrano quanto ben inserita sia la Rpc all’interno delle catene globali del valore. La quota di input intermedi importati che vengono utilizzati nella produzione di beni per i mercati esteri o per il mercato interno è in media il 48% (in diminuzione rispetto alla metà degli anni duemila) ed è estremamente elevata per settori caratterizzati da processi produttivi altamente frammentati quali il tessile e l’elettronica (Figura 2).
Uno degli obiettivi dichiarati di queste nuove statistiche è quello di contribuire a spiegare meglio le origini dei forti squilibri commerciali di alcuni paesi, orientando con una base informativa più dettagliata le misure adottate per ridurli. Se è vero ad esempio che il deficit commerciale degli Stati Uniti è cresciuto enormemente negli ultimi anni e rappresenta una minaccia alla stabilità economica del paese, è da rilevare che i lavori che hanno cercato di stimarlo alla luce del commercio in valore aggiunto hanno fortemente ridimensionato il ruolo della Rpc, il cui peso risulta inferiore al 40% di quello stimato con dati ordinari. La figura 3 mostra la differenza tra il saldo commerciale calcolato con il metodo del valore aggiunto e il dato “lordo”. I dati mostrano una differenza di circa 45 miliardi di dollari per quel che riguarda il deficit commerciale degli Stati Uniti verso la Rpc, nonché figure rilevanti anche nel caso dei deficit dell’Unione europea nel suo insieme o del Regno Unito. D’altra parte, i dati mostrano una riduzione dei surplus che alcuni paesi vantano nei confronti della Rpc. Tra questi spiccano produttori manifatturieri quali Germania, Corea e Giappone. Gli ultimi due casi sono interessanti, perché mostrano ad esempio che, utilizzando il metodo del valore aggiunto, la differenza è tale che il saldo commerciale tra Rpc e Giappone da negativo risulti sostanzialmente in pareggio. La Corea infine, che usando i dati “lordi” è il secondo maggior esportatore verso la Rpc, riduce la sua quota in modo sostanziale se si tiene conto del commercio di parti e componenti a causa delle forte integrazione tra i due paesi all’interno delle catene del valore regionali.
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