Nero come il carbone: energia e inquinamento in Cina

Nello scorso mese di gennaio, l’aria irrespirabile di Pechino è salita agli onori della cronaca mondiale. I livelli delle PM 2,5, le polveri sottili più pericolose per la salute umana, hanno raggiunto livelli record, mai toccati da quando se ne effettuano le rilevazioni, tanto che nei media occidentali è comparsa la parola “apocalisse dell’aria” [airpocalypse]. La stazione di monitoraggio dell’ambasciata americana, per cui in passato si rischiò la crisi diplomatica, è arrivata a registrare un livello di 993 microgrammi per metro cubo, mentre l’Organizzazione mondiale per la sanità raccomanda di non esporsi a un valore superiore ai 25 microgrammi. Valori superiori a 300, o anche a 500, hanno rappresentato la norma per tutto l’arco del mese. L’inquinamento dell’aria ha raggiunto una tale soglia di allerta che le autorità hanno dovuto consigliare alla popolazione di non uscire di casa. La visibilità è scesa sotto i 100 metri; decine di voli sono stati cancellati; vi è stato un aumento dei ricoveri ospedalieri per difficoltà respiratorie.

Anche se tra le cause di questo disastro ambientale vi è sicuramente un inverno particolarmente rigido e privo di precipitazioni, la scarsa qualità dell’aria a Pechino è un problema che viene da lontano, e che da anni, almeno nella retorica, è tra le principali preoccupazioni della dirigenza. Per arginare il fenomeno, il governo ha ridotto del 30% la propria flotta di automobili in circolazione, e ha sospeso la produzione di molte fabbriche inquinanti; alcune multinazionali hanno distribuito ai propri dipendenti le mascherine anti-inquinamento. Già durante le Olimpiadi del 2008 il governo aveva adottato misure simili, ma il loro effetto si sarebbe presto rivelato temporaneo: un anno dopo, si era al punto di partenza, e misure pure in vigore quale quella delle targhe alterne si sono rivelate avere l’effetto simile allo “svuotare l’acqua con un cucchiaino da tè da una portaerei che sta affondando”.

Benché diversi fattori concorrano all’alto inquinamento dell’aria pechinese (la sfortunata posizione geografica, l’incremento esponenziale del traffico automobilistico, la presenza di fabbriche inquinanti e di innumerevoli cantieri edilizi), la questione cruciale è rappresentata dal continuo ricorso in modo massiccio all’utilizzo del carbone come fonte di energia, sia in termini assoluti sia in termini relativi: se dal 2000 la domanda globale di carbone è aumentata di 2,9 miliardi di tonnellate, l’82% (2,3 miliardi di tonnellate) è ascrivibile alla richiesta cinese. Tra il 1980 e il 2010, la domanda di carbone in Cina è cresciuta di quasi cinque volte. E non sembra esserci alcuna inversione di tendenza: secondo i dati della US Energy Information Administration, il consumo di carbone in Cina è cresciuto del 9% nel 2011, per il dodicesimo anno consecutivo, e ora la Cina consuma tanto carbone quanto quasi il resto del mondo (47% del consumo globale). Non stupisce quindi che nel 2010 la Cina fosse diventato ormai il primo paese per emissioni di CO2 (8.320,96 milioni di tonnellate). Inoltre, come noto, la fame di energia per foraggiare lo sviluppo ha spinto Pechino a ricercare fonti di approvvigionamento sui mercati internazionali: pur possedendo le terze maggiori riserve mondiali di carbone, nel 2009, per la prima volta in 20 anni, la Cina è diventata un importatore netto di carbone.

Malgrado il governo cinese abbia compiuto significativi sforzi verso un maggiore utilizzo dell’energia non derivante da combustibile fossile (il dodicesimo piano quinquennale si è posto l’obiettivo che queste fonti rappresentino entro il 2015 l’11,5% del consumo totale di energia), il carbone rappresenta ancora il 70% del mix energetico del paese. Il futuro non è peraltro roseo: se è vero che le proiezioni della stessa agenzia statunitense prevedono che, grazie a un aumento dell’efficienza energetica, la quota del carbone passerà al 59% entro il 2035, la stessa fonte ricorda che in questo periodo il consumo di carbone totale raddoppierà, a causa della voracità con cui il paese (che ha in corso un processo di urbanizzazione senza precedenti nella storia contemporanea) divorerà energia.

In effetti, il dodicesimo piano quinquennale stabilisce come obiettivi primari la riduzione del consumo di energia per unità di Pil del 16% entro il 2015 (rispetto ai dati del 2010), la riduzione delle emissioni di diossido di carbonio per unità di Pil del 17%, e l’incremento del 30% delle centrali di produzione da combustibile non-fossile. Effettivamente, questo trend è già in corso, come ricordato anche nel Libro bianco sull’energia, pubblicato lo scorso ottobre: la Cina è il primo produttore di energia idroelettrica, e di energia eolica; nel 2011 hanno iniziato l’attività undici nuove centrali nucleari, e altre 26 sono in costruzione, potenzialmente proiettando così la Cina ai vertici mondiali per l’utilizzo civile dell’energia atomica. A titolo sperimentale, il Libro bianco prevede la rapida creazione di 200 contee “a energia verde” e 1.000 villaggi che useranno diffusamente l’energia solare.

La gravità della situazione è tale che è lecito aspettarsi, stavolta, la realizzazione delle promesse contenute nel Libro bianco. Il primo amministratore per le politiche ambientali (dal 1987 al 1993), Qu Geping, ha dichiarato al South China Morning Post che già nel 1983 il Consiglio di Stato emise un documento che sanciva la sincronizzazione tra sviluppo e tutela dell’ambiente: esso, evidentemente, rimase lettera morta. Oggi la pressione dell’opinione pubblica è molto maggiore di allora (non foss’altro perché i pechinesi nel 2008 si resero conto della possibilità di respirare un’aria più pulita), e ciò obbliga la leadership ad agire, anche se ci vorranno decenni prima di tornare a una situazione di normalità.

Se il cielo delle città cinesi continuerà quindi a essere grigio, l’unica buona notizia è che il mercato dei purificatori d’aria (che la leadership fa installare nei palazzi del potere) e delle mascherine è estremamente florido: ad esempio, secondo quanto riportato dal Financial Times, una nota multinazionale olandese ha registrato un aumento delle vendite di questi apparecchi del 300%. Insomma, c’è sempre chi guadagna dalle disgrazie altrui: la saggezza degli adagi popolari non cessa mai di stupire.

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