Con l’attesa nomina a Primo Ministro di Li Keqiang, l’Assemblea nazionale del popolo che si è tenuta a Pechino lo scorso marzo ha provveduto anche a ratificare le scelte della dirigenza del Partito comunista cinese in merito agli uomini che guideranno le politiche economiche della Cina nei prossimi anni. Malgrado le personalità indicate presentino credenziali riformiste, c’è una forte linea di continuità con il governo precedente, e la transizione appare mettere in rilievo diversi accenti e sfumature, piuttosto che radicali cambiamenti di policy.
Innanzitutto, Zhou Xiaochuan è stato confermato (con 2.753 sì, 158 no e 41 astensioni) al comando della banca centrale, che presiede da dieci anni. Nel suo ruolo, Zhou ha contribuito a istituire la commissione nazionale di supervisione del sistema finanziario, e a incentivare le quattro grandi banche di Stato a operare con criteri più commerciali e meno politici. Soprattutto, però, Zhou ha operato per rendere il renminbi una moneta utilizzata e scambiata in maniera crescente sui mercati internazionali, giungendo a predire la piena convertibilità della valuta cinese entro il 2015 (dopo avere nel 2009 in modo provocatorio avanzato l’idea della trasformazione dei “diritti speciali di prelievo” del Fondo monetario internazionale in una valuta mondiale). La scelta della conferma di Zhou, malgrado il raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età – l’età del pensionamento per i funzionari – indica continuità nella politica monetaria, come è lecito attendersi in un periodo di forte instabilità finanziaria globale. Oltre al nodo della convertibilità, Zhou dovrà affrontare anche la questione della liberalizzazione dei tassi di interesse, il cui controllo ha finora premiato gli interessi degli investitori a scapito di un’adeguata remunerazione del risparmio.
Il nuovo ministro delle finanze è invece Lou Jiwei, che fino a oggi ha presieduto China Investment Corporation, il fondo sovrano cinese. Lou è ricordato soprattutto per le cruciali riforme fiscali del 1993-1994, ed egli ora dovrà occuparsi proprio della revisione del sistema fiscale, necessaria per riequilibrare le disuguaglianze e l’asimmetria di potere tra centro e periferie. Un altro compito del ministro sarà quello di continuare la promozione e l’esecuzione di politiche che favoriscano l’aumento dei consumi interni.
Per la direzione della National Development and Reform Commission, l’organo che si occupa della pianificazione economica, è stato scelto Xu Shaoshi, già ministro della terra e delle risorse naturali. Criticato in passato per non avere compiuto sufficienti sforzi per arginare il fenomeno della corruzione e dei soprusi legati alla concessione di permessi per l’uso della terra a fini edilizi, egli avrà anche un ruolo di supervisione di vari ministeri, puntando a migliorare l’efficienza dell’apparato burocratico centrale della Rpc. Il nuovo ministro del commercio è Gao Hucheng, già vice-ministro con lo stesso portafoglio, e noto a livello internazionale per avere partecipato a molti negoziati commerciali: anche in questo caso, un elemento di certezza in un momento di tensioni commerciali, di stallo dei negoziati di Doha all’interno del WTO, e di moltiplicazione di nuove iniziative commerciali regionali, non tutte all’apparenza amichevoli nei confronti della Cina. Xiao Gang, presidente di Bank of China, guiderà la China Securities Regulatory Commission, sostituendo Guo Shuqing, che dopo 18 mesi alla guida di quest’organo viene inviato a governare la provincia dello Shandong. Completano la squadra i vice-premier Zhang Gaoli (membro del Comitato permanente del Politburo del Partito comunista cinese), Ma Kai e Wang Yang (già segretario del partito della provincia del Guangdong, assurto alle cronache per avere sostenuto un modello di sviluppo basato sull’impresa privata, in contrapposizione al “Chongqing model” ai tempi in cui Bo Xilai reggeva le sorti della megalopoli della Cina centrale).
Il nuovo team economico dovrà confrontarsi quindi con una serie di interessi costituiti, contro i quali si è espresso Li Keqiang in conferenza stampa: imprese esportatrici, aziende di Stato e governi locali sono portatori di forti istanze che possono minacciare la capacità del governo centrale di perseguire una politica di rebalancing e di liberalizzazione dell’economia. Alcuni commentatori hanno osservato come Zhou, Lou e lo stesso vice-primo ministro Ma Kai abbiano collaborato negli anni ’90 -all’interno della commissione di Stato per la ristrutturazione dell’economia- con l’allora primo ministro Zhu Rongji, ricordato per avere portato la Cina nel WTO e per avere abbandonato al proprio destino molte aziende di stato piccole e inefficienti, facendo sopportare all’economia il costo della crescente disoccupazione. Per questo motivo, c’è chi intravede nelle scelte del partito l’alba di una nuova stagione liberista, dopo il moderato populismo statalista di Wen Jiabao: Paul Markowski, un consulente finanziario delle autorità cinesi, ha dichiarato all’agenzia Reuters che “la Cina sta per adottare le riforme strutturali che alla fine ridurranno in cenere le vecchie aziende di Stato”. Piuttosto che considerare quest’orientamento come la ripartenza di un nuovo ciclo liberale nella storia economica della Repubblica popolare cinese (Rpc) (caratterizzata appunto dall’alternarsi di fasi di espansione del mercato e di momenti di consolidamento della presa statale sull’economia), è forse più utile ricordare che la nuova dirigenza velocizzerà riforme che sono in cantiere da anni: Ting Lu, capo economista di Bank of America/Merrill Lynch a Hong Kong, citato dalla stessa Reuters, ricorda che la conferma di Zhou alla banca centrale è un forte segnale in questa direzione, avendo lo stesso Zhou contribuito in questi anni alla parziale liberalizzazione del mercato finanziario e alla promozione dell’internazionalizzazione del renminbi.
Peraltro, la nomina di Zhou suscita perplessità di altro tipo. Secondo fonti interne citate dal Wall Street Journal, la promozione di Zhou a vice-presidente della Conferenza consultiva (che ha consentito di aggirare le regole sul pensionamento per limiti di età dei funzionari) è stata possibile grazie al sostegno di Zhu Rongji e dell’ottantaseienne Jiang Zemin (vero king-maker dell’ultimo congresso del Pcc), rendendo evidente quanto nel contesto istituzionale della Rpc i legami personali tra leader contino più del rispetto delle norme. Lo stesso quotidiano finanziario cita un commento di Minxin Pei, noto China watcher e accademico statunitense, che considera la conferma di Zhou “positiva nel senso che la nuova leadership è assennata nel confermare qualcuno che è capace e rispettato, ma negativa perché dimostra che le regole non contano molto”.
Molto probabilmente, la Rpc diventerà – durante l’atteso decennio di governo della leadership Xi-Li – la prima economia mondiale in valori assoluti, ed è confortante sapere che la politica economica di Pechino sarà gestita da professionisti. Il rilievo di Minxin Pei sembra presumere che la manipolazione (a diversi livelli e gradi) delle regole per accontentare ambizioni politiche personali rappresenti un’eccezione cinese (e un pericolo, considerata la storia politica della Rpc), mentre ciò avviene in qualsiasi sistema politico. Altro invece è chiedersi se i rodati meccanismi di selezione della classe dirigente nella Cina post-Deng riescano a fare emergere leader che, oltre ad essere competenti, possano godere del sostegno e del coraggio politici necessari per contrastare quegli “interessi costituiti” indicati da Li Keqiang come nemici da combattere per vincere le sfide di un’economia che sta per affrontare la prova di maturità.
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