ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.
Quando questo articolo verrà pubblicato, la Cina, vista da Occidente, avrà cambiato volto. Se le correnti liberiste – favorevoli al ridimensionamento dell’ipertrofica presenza dello Stato cinese nell’economia – avranno avuto la meglio al Terzo Plenum, il nome di Xi Jinping verrà ripetutamente accostato a quello di Deng Xiaoping e la parola “riforma” diventerà per qualche giorno sinonimo di rivoluzione. Se, al contrario, i liberisti – e gran parte dell’Occidente insieme a loro – non riusciranno a debellare la “cancrena” statalista alimentata dai soliti “gruppi di interesse”, allora un nuovo vento conservatore tornerà a soffiare sulle pagine dei giornali come chiave interpretativa della mancata svolta. Xi si ritroverà negli abiti del Presidente Mao e carri armati e portaerei sfileranno sugli schermi delle televisioni. In entrambi i casi si tratterà della solita illusione ottica. Le criticità del sistema cinese derivano dalle sue specificità, ha spiegato il prof. Tao Ran (Peking University) al pubblico di ThinkINChina. Secondo Tao Ran, le dinamiche della crescita degli ultimi due decenni sono da ricondurre soprattutto ai meccanismi interni ai governi locali, piuttosto che ai disegni del governo centrale.
Nel 1994 infatti il governo centrale ha varato una riforma volta alla ri-centralizzazione del sistema fiscale, per cui le tasse sul consumo sono state assegnate al governo centrale e le business tax e le tasse sul reddito alle amministrazioni locali, mentre l’imposta sul valore aggiunto (IVA) è stata attribuita per il 75% al centro e per il 25% ai governi locali. Questa manovra è stata accompagnata da una contemporanea decentralizzazione della spesa pubblica che ha posto i governi locali sotto un’enorme pressione, forzandoli a perseguire uno sviluppo economico rapido e aggressivo. La combinazione di questa dinamica di centralizzazione/de-centralizzazione ha contribuito all’emergere di quello che Tao Ran chiama un modello “estremo” di sviluppo, vicino alle esperienze delle cosiddette Tigri asiatiche ma trainato non tanto dal centro (come suggerisce la maggior parte della letteratura) quanto dalla competizione tra i governi locali.
C’è poi una seconda ipotesi che sta alla base di molte analisi sulla bolla immobiliare e che invece il prof. Tao tende a smentire, vale a dire la relazione causale stabilita troppo frequentemente tra i milioni di lavoratori migranti che negli ultimi vent’anni si sono trasferiti dalle campagne alle città e la crescita vertiginosa dei prezzi degli immobili nelle aree urbane. Secondo i dati raccolti da Tao, solo l’1% dei migranti interni può permettersi un alloggio permanente nelle aeree urbane, mentre il resto è costretto a vivere precariamente in dormitori o seminterrati ai margini di quartieri residenziali. In più, il sistema del hukou rende tuttora molto complesso il trasferimento in via definitiva nelle città, tanto che molto spesso le madri e i figli in età scolastica tornano nelle campagne, dove hanno diritto ai servizi e la possibilità di trovare un alloggio a prezzi accessibili.
Il filo rosso che lega questo “sviluppismo estremo” locale alla bolla immobiliare e alle gravi questioni poste dal fenomeno della migrazione interna e dell’urbanizzazione è per Tao Ran proprio la terra. In linea con la tradizione del socialismo cinese la terra appartiene formalmente allo Stato e i governi locali hanno il monopolio de facto sull’offerta della terra sotto la loro giurisdizione, nonché l’autorità per requisirla e destinarla a usi diversi da quello agricolo, cioè a quelli residenziale/commerciale e industriale. In questo contesto, la riforma del 1994 ha innescato una pericolosa distorsione: i governi locali, a cui è improvvisamente rimasto solo il 25% delle entrate dall’imposta sul valore aggiunto (IVA), si sono trovati a intraprendere tra di loro una feroce competizione per attrarre investitori, provenienti soprattutto dall’industria per l’esportazione. Per fare ciò le autorità locali hanno requisito la terra ai contadini (in cambio di compensazioni modestissime) per poi convertirla a uso industriale, dotarla di moderne infrastrutture e infine venderla a prezzi stracciati agli investitori. Ciò ha però scatenato una reazione a catena: per comprare e attrezzare la terra i governi locali si sono pesantemente indebitati con banche di proprietà statale a bassissimi tassi di interesse. La vendita della terra agli investitori non è stata sufficiente a saldare i debiti con le banche, e quindi i governi locali hanno mirato a massimizzare i profitti derivanti dalla concessione delle terre a uso residenziale e commerciale. Così, mentre l’industria manifatturiera in espansione produceva rapidamente i suoi spillover (prima di tutto in termini di crescita della domanda di servizi e immobili), i governi locali tenevano artificialmente bassa l’offerta di terra destinata alla costruzione di immobili, in modo da farne arrivare i prezzi alle stelle e, complici la speculazione e la corruzione, fare profitti immensi.
Questo modello di “estremo sviluppismo locale”, che specialmente negli anni Duemila ha consentito alla Cina di crescere a ritmi vertiginosi, ha raggiunto secondo Tao Ran il suo apice in seguito alla crisi finanziaria del 2008. Allora le capacità di investimento e compravendita della maggior parte dei paesi sono drammaticamente diminuite, causando enormi danni alle esportazioni cinesi, tanto che, per sostenere la crescita, il governo di Pechino ha varato un colossale pacchetto di stimolo da 4 mila miliardi di renminbi (pari a circa 580 miliardi di dollari USA). Una tale immissione di liquidità nel sistema ha reso il mercato immobiliare ancora più ipertrofico e ha dato vita a una vera e propria bolla. Intanto, i governi locali, sotto l’illusione di una maggiore disponibilità di denaro, hanno continuato a prendere in prestito dalle banche (statali) e a investire in centinaia di parchi industriali per compensare il calo delle esportazioni, certi del fatto che in caso di default lo Stato sarebbe per forza dovuto correre in loro soccorso. Se al moral hazard delle autorità locali si aggiunge il devastante impatto sull’ambiente e sulla società – sopratutto in termini di disuguaglianza di condizioni di vita e diritti per i lavoratori migranti – ne emerge un quadro che secondo Tao Ran si avvicina rapidamente a un punto di rottura completa.
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