Il 12 maggio scorso il Parlamento europeo ha votato a larghissima maggioranza (546 voti a favore, 28 contrari e 77 astenuti) una risoluzione che chiede alla Commissione europea di non concedere alla Cina lo status di economia di mercato (Market economy status, Mes). Pur trattandosi di una risoluzione non vincolante, le sue implicazioni politiche sono molto chiare. I paesi europei e le loro imprese chiedono, se non protezione, almeno di poter giocare ad armi pari con le imprese cinesi. Il voto non è un fatto isolato: negli ultimi tempi è venuta crescendo l’opposizione agli accordi commerciali internazionali. La Trans-pacific partnership (Tpp), un importante accordo di libero scambio, è stato firmato dai principali paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, Cina esclusa, ma deve ancora essere ratificata dal Congresso degli Stati Uniti e l’esito è tutt’altro che scontato. La Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), analogo accordo tra Europa e Stati Uniti, sta incontrando resistenze forse ancora più forti.
In linea di principio, non c’è alcun dubbio che la relazione commerciale tra Europa e Cina sia vantaggiosa per entrambe: gli esportatori cinesi hanno bisogno del ricco mercato dell’Ue, e molte aziende europee guardano alla crescente classe media cinese come parte integrante delle proprie strategie commerciali. Negli ultimi dodici anni, l’Ue è stata il primo partner commerciale della Cina, e la Cina il secondo partner commerciale dell’Ue. Nell’era delle catene globali del valore, la presenza sul mercato cinese consente di partecipare anche alla crescente regionalizzazione della produzione in Asia orientale, con tutti i relativi vantaggi in termini di ricavi, profitti, occupazione. Una recente ricerca di Banca d’Italia evidenzia che il 22% del valore aggiunto estero assorbito dalla domanda finale cinese è generato dagli stati membri dell’Ue. Sempre secondo lo stesso studio, un terzo del valore aggiunto italiano che raggiunge il gigante asiatico è incorporato nelle esportazioni tedesche.
Tuttavia, la relazione commerciale Cina-Ue – fondamentale per gli equilibri economici globali – non è mai stata facile. Le politiche commerciali e industriali di Pechino hanno sempre destato preoccupazioni in Europa. In particolare, le imprese cinesi sono favorite dall’accesso privilegiato a sussidi governativi di ogni sorta e al credito a buon mercato. Ad avvantaggiarsene sono soprattutto le imprese di Stato, che godono di una posizione dominante.
Il pesante intervento del governo cinese nell’economia crea spesso distorsioni commerciali che minano la competitività delle imprese europee nei confronti della Cina. Alcuni governi europei ritengono che Pechino non abbia alcun interesse a cambiare lo status quo, perché è già in grado di approfittare dell’apertura del mercato unico per beni, servizi e investimenti. Mentre l’Ue non può apertamente convertirsi al protezionismo – in effetti, il Trattato di Lisbona include l’impegno alla liberalizzazione dei commerci su scala globale – ma allo stesso tempo non può rimanere indifferente alle norme e alle prassi che impongono condizionamenti all’ingresso nel mercato cinese, e al largo ricorso ai sussidi, con conseguente sovracapacità produttiva, che può generare, a sua volta, pratiche di dumping. È questa asimmetria – l’assenza di un level playing field – che preoccupa l’Ue. Lo Stato interviene nei processi economici in veste di arbitro e giocatore allo stesso tempo: le imprese cinesi sono concorrenti agguerriti anche grazie a questi benefici sistemici. Negli ultimi documenti prodotti dalla Camera di commercio dell’Unione europea in Cina (Eccc), dall’annuale position paper, alle Business confidence surveys, appare chiara l’insoddisfazione delle imprese europee. Esse si trovano oggi in una posizione molto diversa e più debole di dieci-quindici anni fa quando avevano cominciato ad investire in Cina dopo la sua entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Contemporaneamente va detto che le imprese cinesi sono sempre più competitive nei mercati terzi, non solo grazie a prezzi più competitivi, ma anche per una qualità dei prodotti sempre più elevata. La concessione del Mes è quindi l’unica leva negoziale oggi a disposizione dell’Ue. Il rischio è che l’euroburocrazia produca documenti sulla partnership con la Cina grondanti retorica cooperativa, quando la realtà va nella direzione opposta.
Nel settore degli investimenti, ad esempio, nonostante le priorità dell’Unione europea siano chiare – nel 2010 il Consiglio Ue indicò come priorità l’accesso al mercato e la protezione degli investimenti, la difesa della proprietà intellettuale e la partecipazione alle gare d’appalto pubbliche – la pressione dell’Ue su Pechino non ha ancora prodotto i risultati sperati. Il commercio e gli investimenti sono due facce della stessa medaglia: se le aziende europee vogliono rifornire in maniera competitiva un mercato in rapida espansione come quello cinese, devono essere in grado di produrre in Cina i beni richiesti dai consumatori cinesi. Per questa ragione, i negoziati sul trattato Ue-Cina sugli investimenti sono un passaggio obbligato – e insieme un test case – in vista di un eventuale – in un futuro non immediato – accordo di libero scambio. I negoziati sono ora entrati in una fase cruciale; il loro andamento dipenderà anche dall’evoluzione della situazione economica cinese: le speranze di conclusione dell’accordo entro un anno devono infatti fare i conti con le sfide che la dirigenza del Partito comunista si trova ad affrontare a causa del rallentamento dell’economia. Nel frattempo è in corso a Ginevra anche un negoziato sull’adesione della Cina all’accordo Omc che regolamenta il settore degli appalti pubblici, ma non sembra destinato a concludersi in tempi brevi.
La Cina si attende che lo status di economia di mercato – che renderebbe più difficile nella sostanza applicare dazi antidumping nei confronti di Pechino – sia concesso automaticamente alla fine del 2016, quindici anni dopo l’entrata in vigore del Protocollo di accesso alla Omc, ai sensi dell’art. 15 dello stesso. In realtà, l’unico automatismo è l’impossibilità, a partire da dicembre, di ricorrere al metodo dei “paesi surrogati” (sfavorevole alla Cina) nelle procedure di antidumping, ma ciò non necessariamente comporta la concessione del Mes – concessione, che secondo l’art. 15 (d) del Protocollo si basa sulla definizione di economia di mercato secondo le norme del paese importatore (in questo caso, dell’Ue). Per Pechino, la concessione del Mes è in larga parte una questione di status e di prestigio, indipendente dalle caratteristiche effettive del suo sistema economico. Si noti peraltro che già più di 80 paesi hanno definito ufficialmente la Cina un paese ad economia di mercato.
Non è questa la sede per valutare se la Cina soddisfi o meno i criteri per essere considerata un’economia di mercato. Va sottolineato però che uno dei criteri prevede che la Cina abbia un settore privato che non sia eccessivamente guidato dal governo, e questo può dirsi in gran parte soddisfatto, mentre non si può dire che la Cina abbia un mercato finanziario indipendente dallo Stato. La prolungata crisi economica ha reso più difensiva la politica commerciale estera di molti Stati membri – Italia inclusa – a tutela dei posti di lavoro, anche in industrie a basso contenuto tecnologico. Non a caso, la decisione del governo italiano di opporsi alla concessione automatica del Mes è stata sostenuta dal mondo industriale.
Il punto è che le imprese europee vedono nella Cina oggi più una minaccia che un’ opportunità. Alle preoccupazioni che potremmo definire storiche, legate alla scarsa qualità dei prodotti cinesi, al non rispetto delle regole a tutela del lavoro e dell’ambiente, alle falsificazioni dei prodotti, si è aggiunto il timore che i mercati europei (ma anche i mercati dove le imprese europee esportano) siano utilizzati come valvola di sfogo per gli eccessi di capacità produttiva di molte industrie cinesi. Un recente rapporto, sempre della Eccc, ha evidenziato come gli eccessi di capacità produttiva in moltissimi settori, dall’acciaio all’alluminio, dal cemento ai prodotti chimici siano una delle cause principali delle tensioni commerciali tra Europa e Cina. L’acciaio è un caso emblematico in cui la Cina, secondo i dati dell’Economist, ha un eccesso di capacità produttiva superiore alla produzione di Giappone, Stati Uniti e Germania messe insieme. La tentazione di scaricare parte di questi eccessi in Europa è molto forte ed è comprensibile la dura reazione del Parlamento europeo, se si tiene conto non solo della strategicità del settore ma anche degli sforzi fatti dall’Unione europea per rendere il settore efficiente – sforzi non solo finanziari ma che hanno anche comportato una dolorosa riduzione di posti di lavoro. Tali preoccupazioni sono peraltro condivise dali Usa. Jacob Lew, segretario al Tesoro, in occasione del China-US strategic and economic dialogue svoltosi lo scorso giugno, ha ricordato l’enorme impatto che l’eccesso di capacità cinese ha sui mercati globali. Per quanto riguarda l’acciaio gli Stati Uniti stanno reagendo con forza imponendo dazi molto elevati (con punte di oltre il 500%) sull’acciaio cinese. L’Europa ha adottato dazi di entità molto più ridotta lo scorso 4 agosto (dal 19% al 22%). I produttori europei sono quindi protetti da barriere molto meno efficaci.
Il problema vero è che l’eccesso di capacità produttiva non è una politica deliberata del governo cinese ma il risultato, da un lato, della reazione cinese alla crisi del 2008, che si è sostanziata in un enorme aiuto all’economia pari a 586 miliardi di dollari in due anni (equivalenti al 13% del Pil), e, dall’altro, dell’incapacità cinese di cambiare un modello di sviluppo che si è basato per più di trent’anni su investimenti ed esportazioni.
Qualche commentatore ha voluto vedere anche la cosiddetta “Nuova via della seta” – in inglese One belt one road initiative (Obor, o in cinese sichou zhi lu jingji dai he ershiyi shiji haishang sichou zhi lu, 丝绸之路经济带和21世纪海上丝绸之路) – come un tentativo non solo di rimettere la Cina al centro della diplomazia economica globale (come reazione agli accordi Ttp e Ttip che escludono la Cina), ma anche di costituire una valvola di sfogo per gli eccessi di capacità produttiva cinesi. È probabile che la Obor possa aiutare qualche impresa cinese, ma è difficile che possa anche solo alleviare i problemi sistemici di sovracapacità produttiva. In primo luogo le risorse messe a disposizione dal governo cinese (inclusa la costituzione della Asian infrastructure investment bank e del New silk road fund, la creazione di apposite linee di credito, ecc.) non sembrano in grado di mobilitare investimenti infrastrutturali tali da assorbire gli eccessi di produzione cinesi. Inoltre, prodotti come l’acciaio o il cemento difficilmente possono essere venduti in paesi molto lontani (a prezzi di mercato) dai luoghi di produzione, vista l’incidenza dei costi di trasporto.
Gli eccessi di capacità produttiva possono essere, in sostanza, risolti solo dal governo cinese. Non possiamo dire che manchi la volontà politica, perché diverse iniziative sono state prese in questo senso. Negli ultimi anni, molte acciaierie e impianti produttivi per l’alluminio o la produzione di carta poco efficienti e particolarmente inquinanti sono stati chiusi; purtroppo, però, altrettanti ne sono stati aperti, spesso più che compensando le capacità produttive eliminate. È il modello di sviluppo che, grazie a sussidi pubblici più o meno nascosti e ad un accesso al credito estremamente favorevole per le imprese, in particolare per quelle pubbliche, che operano spesso nei settori ad alta intensità di capitale, continua a incentivare gli investimenti rispetto ai consumi.
L’Europa ha il dovere di proteggere le proprie imprese e fare in modo che esse possano competere in un mercato globale, che non può non includere la Cina, in condizioni di parità rispetto ai concorrenti di altri paesi. Questo non può però risolversi solamente nella costruzione di barriere protettive, anche a fronte di comportamenti non in linea con gli accordi Omc da parte di altri paesi. L’Europa ha anche un ruolo propositivo da svolgere. La questione del Mes, ma anche gli investimenti legati alla Obor, possono costituire un’occasione in tal senso. Non è però semplice: tipicamente negli accordi commerciali (la concessione del Mes non è tecnicamente un accordo commerciale, ma ha effetti simili) le parti coinvolte rinunciano a qualcosa in termini di protezione della produzione interna, di standard, ecc. per ottenere altri vantaggi, ma in questo contesto i cambiamenti richiesti sono molto più radicali e coinvolgono il modello di sviluppo cinese. L’Europa ha già permesso ampiamente alle esportazioni cinesi l’accesso al proprio mercato interno, e – nelle attuali condizioni di crisi economica – non c’è molto altro che possa concedere. La Cina può invece fare molto di più.
Alla fine, è plausibile che la questione del Mes si risolverà con un approccio cosiddetto mix-and-match: l’Ue valuterà caso per caso, riconoscendo che in alcuni settori le imprese operano in condizioni di economia di mercato, in altri no. Non sarà comunque semplice, perché gli eccessi di capacità produttiva in settori come quelli sopra descritti influenzano anche i costi di produzione di settori potenzialmente più competitivi, ma che usano i suddetti prodotti come input. Pur non potendo più ricorrere al metodo del “paese surrogato”, non è detto che l’Ue debba applicare a tutti i settori dell’economia cinese la disciplina antidumping prevista per le economie di mercato. È possibile immaginare un approccio che premi le filiere cinesi ormai integrate nei mercati globali e che ne seguono le regole – a patto che, ovviamente, le medesime regole valgano anche per il mercato interno cinese. Certamente le imprese europee avrebbero molto da guadagnare da una Cina che cambia modello di sviluppo a vantaggio dei consumi interni e di una produzione industriale che migliora in qualità. Di per sé, un modello di sviluppo più equilibrato limiterebbe gli eccessi di capacità produttiva che vediamo oggi; si creerebbero inoltre molte opportunità sul mercato interno cinese. La tentazione di dire no al Mes è molto forte, ma sarebbe molto più utile concentrare gli sforzi su come rendere questo passaggio utile per le imprese europee. Ci sono moltissimi temi in discussione oltre al Mes quali, ad esempio, gli standard in diverse industrie a partire dalle Tlc: una posizione coordinata anche con la Cina potrebbe comportare benefici per tutti.
La questione del Mes può rappresentare in realtà l’occasione per apprendere una duplice lezione. Da un lato, in una relazione così approfondita e ricca di mutui benefici, va valutato se sia nell’interesse della Cina continuare a insistere – alle condizioni attuali – sul suo status di economia di mercato ai sensi della vigente normativa europea (che, beninteso, nella prospettiva di Pechino può sempre essere modificata), poiché molti settori, e svariate imprese operano sotto la guida e le direttive dello Stato, incluse le amministrazioni locali. D’altro canto, ci si potrebbe chiedere se abbia senso nel lungo periodo per l’Italia e altri Stati membri continuare a difendere settori a basso valore aggiunto, con poche speranze di sopravvivere nella competizione globale del XXI secolo, e se non sia invece il caso di collaborare a tutti i livelli (governi, camere di commercio, imprese, ecc.) con i paesi emergenti – la Cina in primis – nei settori caratterizzati da un alto tasso di innovazione. Si contribuirebbe così a rendere il sistema economico europeo e quello cinese sempre più complementari, e si favorirebbero in Cina le riforme necessarie per una sua piena trasformazione in un’economia di mercato a pieno titolo: questa è in realtà la vera sfida, al di là delle legittime preoccupazioni dell’opinione pubblica e dei governi europei.
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