Fra le vaste trasformazioni che hanno investito il Myanmar nel corso dell’ultimo decennio, la rapidissima diffusione di Internet e degli strumenti propri dell’Information and Communication Technology (ICT) svetta come un fenomeno estremamente significativo e carico di implicazioni per il futuro del fragile Paese del Sud-Est asiatico, in particolar modo per quanto attiene alla dialettica fra la società civile e la classe dirigente birmana. Prima dell’avvio del processo di metamorfosi politica durante la presidenza Thein Sein, infatti, la tecnologia Internet era pressoché inesistente all’interno di uno scenario recluso e isolato come quello del Myanmar: nel 2008, ad esempio, il numero di netizens birmani superava di poco le 100 mila unità (lo 0.2% della popolazione) e le tariffe mensili per una tessera SIM in grado di accedere alla rete o per una postazione domestica raggiungevano i 2.500 dollari, ovvero quasi il triplo del PIL pro capite annuo a disposizione del cittadino medio[1]. La fruizione del web rappresentava, pertanto, un lusso concesso solamente all’élite politica e militare del regime, che si era spesa per plasmare una legislazione estremamente rigida in materia. Con l’introduzione nel 1996 della Computer Science Development Law, non a caso, si era provveduto a punire con pene che raggiungevano i 15 anni di reclusione il possesso non autorizzato dal governo di computer e altri apparati digitali, mentre la temutissima Press Scrutiny and Registration Division (PSRD) esercitava una ferrea censura contro ogni voce dissenziente, oscurando contenuti e pagine web creati da blogger e attivisti operanti perlopiù all’estero. In aggiunta, l’accesso a Internet risultava fortemente limitato da continui malfunzionamenti alle embrionali infrastrutture ICT presenti nel Paese, sul quale gravava anche la posizione di monopolio nel mercato dei provider detenuta dalle forze armate birmane, per mezzo dei due conglomerati Myanmar Posts and Telecommunications (MPT) e Yatanarpon.
In un contesto così arretrato in termini tecnologici e legislativi, tuttavia, il sentiero di progressiva liberalizzazione politica ed economica imboccato dal Paese fra il 2010 ed il 2015 con l’elezione del primo esecutivo d’ascendenza civile, dopo quasi mezzo secolo di dominio diretto da parte dei militari, ha investito il settore dell’ICT con grande vigore, cambiandone rapidamente i connotati. In tale ottica, la prima svolta degna di nota è occorsa nel 2011 a seguito della dissoluzione della PSRD operata dalla presidenza Thein Sein, che ha permesso ad oltre 30.000 siti internet e piattaforme social (fra cui YouTube, Facebook, Twitter e Radio Free Asia) di essere finalmente accessibili dal territorio birmano[2]. Nel corso del 2013 si è poi raggiunta un’altra importante pietra miliare nella trasformazione dell’ecosistema digitale birmano, attraverso il varo di una nuova legge sulle telecomunicazioni che ha contribuito a liberalizzare il comparto dei provider attirando cospicui investimenti dall’estero, anche grazie alla creazione di un meccanismo di appalti aperti a operatori stranieri che ha posto un argine al monopolio dei conglomerati pubblici locali, aprendo altresì le porte del Paese ad attori quali la norvegese Telenor e i qatarioti di Ooredoo. La draconiana Computer Science Development Law, invece, è stata di fatto rimpiazzata dalla Electronic Transactions Law, il cui ultimo emendamento risale al 2013. La norma ha semplificato notevolmente le procedure volte all’acquisto di apparati digitali, salvaguardando, però, una serie di condizionalità politiche nella fruizione di Internet che hanno prestato il fianco a numerose critiche in ambito internazionale. La più controversa, infatti, contempla pene fra i sette e i 15 anni di prigione per ogni scambio, transazione o comunicazione digitale capace di causare “detrimento all’unità e alla stabilità del Paese”[3].
Al netto di questi limiti, l’impatto delle suddette misure è stato assolutamente epocale e impetuoso. Dall’avvio del percorso di riforma, più in dettaglio, la penetrazione degli smartphone fra la popolazione è più raddoppiata, così come per i volumi e la velocità media del traffico Internet del Myanmar, mentre il numero complessivo di “netizens” ha recentemente superato i 18 milioni di utenti, pari al 34% della popolazione (Kanale 2018)[4]. Al contempo, il territorio nazionale appare oggi solcato da migliaia di chilometri di cavi a fibra ottica e da numerosi ripetitori Wi-fi, sebbene sussistano ancora profonde deficienze infrastrutturali che si ripercuotono fortemente sull’accesso alla rete, in special modo nelle zone più rurali. Ciò nondimeno, i consumatori possono finalmente beneficiare della crescente competizione fra i vari operatori presenti sul mercato birmano, che oggi offrono le proprie tessere SIM dotate di traffico Internet per meno di due dollari. Il boom del traffico digitale, inoltre, risulta largamente trainato dal vettore degli smartphone e dalla fruizione dei social network, che discende dall’enorme popolarità di cui gode Facebook fra la popolazione locale. Le connessioni installate all’interno delle abitazioni, non a caso, si attestano ancora a livelli molto inferiori (0,2 ogni 100 abitanti) rispetto a quelli dell’Asia-Pacifico (11,3 ogni 100 abitanti) e solo un quarto dei netizens birmani utilizza computer o laptop come strumenti principali per accedere al web[5]. Analogamente, il dominio di Facebook in Myanmar si poggia su un bacino complessivo che è recentemente lievitato sino a 20 milioni di utenti, i quali guardano al social network ideato da Mark Zuckerberg in una triplice veste: quale opzione più pratica di instant-messaging, come canale di riferimento per informarsi e anche in qualità di “megafono” per esprimere le proprie opinioni e istanze politiche.
La demografia dell’utenza di Facebook in Myanmar, più nello specifico, si concentra al 90% nelle aree urbane del Paese ed è massimamente composta di netizens nella fascia d’età 18-44, con un netto squilibrio di genere a favore degli uomini[6]. Secondo alcuni studi, peraltro, i principali fruitori di Internet in territorio birmano denotano una profonda carenza in termini di alfabetizzazione digitale, che pone rilevanti ostacoli all’assolvimento di operazioni basilari come l’attivazione di caselle e-mail o la selezione di browser Internet, riverberandosi altresì in una scarsissima capacità di discernere fra le fonti d’informazione verificate e autorevoli e le cosiddette “fake news”[7]. Stanti queste caratteristiche, è quindi lecito ritenere che, come già avvenuto altrove, anche in Myanmar il dominio di Internet e dei social network rappresenti oggi un’arena cruciale per il rapporto fra politica e società, sia in chiave top-down nell’attrazione e mobilitazione di nuovi elettori, sia in ottica bottom-up come cassa di risonanza per passare al vaglio ed eventualmente sanzionare l’operato del governo. Conscio del valore centrale del web per la propaganda e la gestione del consenso, l’establishment politico birmano ha perciò optato per il consolidamento di forme più sottili e sofisticate di controllo della rete rispetto ai meccanismi draconiani in voga sino al 2010, contemperando le aperture e le riforme elencate in precedenza con l’attuazione di una strategia che abbraccia sia strumenti reattivi e sanzionatori, sia degli sforzi più proattivi nella promozione di una precisa narrativa, fondata su di un’ideologia di Stato marcatamente nazionalista. Tali sviluppi inerenti alla politicizzazione di Internet in Myanmar, peraltro, sono particolarmente visibili nel quadro della recente escalation della questione Rohingya, infiammata in varie circostanze dalle campagne di odio e disinformazione sviluppatesi sui social network.
La reazione dell’establishment birmano alla diffusione di Internet
Come accaduto più in generale per il cammino di parziale “democratizzazione dall’alto” sperimentato nel Paese, il processo di apertura verso l’ICT è stato centellinato e circoscritto dalle autorità birmane con grande attenzione e prudenza, così da non dare libero sfogo alle voci del dissenso che avrebbero potuto monopolizzare il dibattito sul web e minacciare l’agenda politica del governo. Per evitare simili ripercussioni, l’establishment politico locale si è dunque dotato di nuovi espedienti repressivi atti a silenziare le critiche più feroci, così come di protocolli d’azione e modus operandi volti a influenzare attivamente l’opinione pubblica birmana che si confronta sul web. Nella faretra degli strumenti più marcatamente reattivi rientra, in primis, la salvaguardia di una vaga e mal definita “clausola anti-diffamazione” che è presente nel dettato della già ricordata legge sulle telecomunicazioni del 2013. La “Sezione 66/d” del dispositivo normativo, infatti, prevede pene fino a tre anni di reclusione per coloro colti “diffamare o minacciare” qualsiasi cittadino birmano per mezzo delle reti Internet, in ossequio a una logica utilizzata anche nella nuova legge sui media promulgata nel 2014, che proibisce la pubblicazione di contenuti online “lesivi della reputazione di una persona o di un’organizzazione”[8].
Come prevedibile, la permanenza all’interno della nuova legislazione sull’ICT di clausole così fumose e arbitrarie nella definizione dei confini fra libertà di espressione e condotte criminose è stata prontamente sfruttata dalle autorità, al fine di sanzionare e ridurre al silenzio una serie di voci scomode. Questo trend è divenuto particolarmente visibile a partire dal 2016, in concomitanza con il passaggio di consegne fra l’amministrazione di Thein Sein e il nuovo esecutivo guidato dalla National League for Democracy (NLD) di Aung San Suu Kyi. Prima di questo momento spartiacque, infatti, gli esponenti politici birmani avevano fatto ricorso alla sezione 66/d della legge sulle telecomunicazioni soltanto in sette circostanze, a cui erano seguite cinque pronunce di colpevolezza da parte dei tribunali locali[9]. Fra il novembre 2015 e la fine del 2017, di contro, si è assistito a una preoccupante proliferazione di procedimenti giudiziari attivati sulla base del disposto proprio della sezione 66/d, testimoniata dall’avvio di ben 106 processi a danno di giornalisti, blogger e attivisti che avevano espresso su Internet dei giudizi negativi circa il governo o le forze armate del Paese[10]. Uno dei casi più paradigmatici dell’utilizzo della sezione 66/d come strumento di persecuzione degli avversari politici ha riguardato il giornalista Ko Swe Win, arrestato all’inizio del 2017 per il crimine di diffamazione dopo aver condiviso sul web una serie di critiche a danno dell’organizzazione buddhista e nazionalista Ma Ba Tha. L’odissea giudiziaria che ne è scaturita, caratterizzata da oltre cinquanta udienze e vari ritardi, ha severamente impattato sul benessere psico-fisico e sulle finanze del giornalista birmano, che è stato finalmente scagionato nel luglio del 2019[11]. Ad oggi, tuttavia, il numero di processi in atto ai sensi della sezione 66/d ha raggiunto quota 185, nonostante una serie di emendamenti apportati alla legge nel 2017 che hanno lievemente circoscritto l’applicabilità della norma.
Per quanto concerne, invece, gli strumenti di manipolazione attiva del dibattito politico che corre sul web, le autorità birmane hanno progressivamente acquisito competenze e modus operandi alquanto sofisticati. Accanto alle pratiche atte a screditare i fautori del dissenso, se ne sono quindi aggiunte altre volte a promuovere una particolare narrativa politica e a mobilitare una certa base elettorale, mediante campagne di propaganda e controinformazione. Come già anticipato, peraltro, l’ideologia di fondo che ha animato simili sforzi si è imperniata su un discorso marcatamente etno-nazionalista, teso a giustificare la condotta del governo e dell’esercito del Myanmar nel quadro del dramma umanitario patito dalla minoranza musulmana dei Rohingya. Di conseguenza, nelle sue sempre più frequenti sortite sul web l’establishment politico-militare birmano ha rilanciato tre temi ricorrenti: la creazione di un capro espiatorio interno identificato nei Rohingya, come valvola di sfogo per le promesse infrante dalla pseudo-democratizzazione birmana; la continua celebrazione dell’esercito come argine contro la frammentazione del Paese lungo linee di faglia etnico-confessionali; e, infine, la legittimazione del primato della maggioranza bamar e buddista della popolazione[12]. Le modalità di propagazione di questi messaggi hanno contemplato, ad esempio, il ricorso a bot e falsi profili di internauti, volti a “sommergere” (dall’inglese flooding) i social network locali con campagne di controinformazione e disinformazione fondate molto spesso su fake news, che raccontavano di presunti stupri, massacri e altri supposti orrori compiuti dai Rohingya contro la popolazione birmana[13]. In virtù della sua natura di propaganda nascosta e maliziosa, la pratica del flooding ha perciò fatto leva sui già citati problemi di alfabetizzazione digitale della popolazione, spingendo numerosi cittadini ad avallare la condotta durissima dell’esercito birmano nei riguardi dei Rohingya sulla scorta di informazioni totalmente artefatte, acquisite in primis su Facebook grazie al propagarsi di contenuti manipolati da utenti nascosti dietro profili falsi.
Secondo un’inchiesta del New York Times, gli apparati di sicurezza birmani avrebbero approntato a questo scopo un vero e proprio “cyber-esercito”, basato su circa 700 hacker operanti in basi segrete alla periferia di Naypyidaw in ossequio a un’agenda precisa di issue da manipolare in una certa ottica[14]. Nello specifico, le azioni più frequenti attuate da queste cellule di hacker e troll informatici riguarderebbero la creazione e condivisione di post atti a creare panico, sdegno e tensione fra la popolazione, ad esempio mediante la diffusione di fotografie di cadaveri mutilati dai supposti terroristi Rohingya, oppure tramite la propagazione di falsi allarmi e notizie tendenziose che alimentano la retorica governativa del “noi contro di loro”. Indubbiamente, parte del loro successo è da ricondurre anche alle deficienze mostrate da Facebook nel reagire a questa sfida inedita, mettendo in campo sistemi di filtraggio dei contenuti provenienti dal Myanmar capaci di bloccare sia le fake news sia il cosiddetto hate speech, ovvero i post contenenti discriminazioni razziali e religiose. Di conseguenza, l’arena online ha giocato un ruolo primario nel processo di demonizzazione dell’altro che ha condotto gran parte della popolazione non solo a sostenere i misfatti e gli abusi dell’esercito contro la popolazione Rohingya, ma anche a prendere parte a vari tentativi di pogrom antimusulmani innescati e pianificati proprio sui social network birmani.
Il ruolo dei social network nell’escalation della crisi Rohingya
Nel corso degli ultimi anni, alla crescente diffusione di Internet fra la popolazione locale e alla sempre maggiore sofisticazione degli apparati centrali nel manipolare a fini politici le potenzialità del web, si è aggiunta anche un’altra tendenza assai significativa, relativa alla de-umanizzazione dei Rohingya quale gruppo alieno rispetto all’idea di popolazione e cittadinanza birmana. Tale deriva è stata scandita da una serie di episodi altamente paradigmatici, nei quali le campagne di odio innescate sui social network sono rapidamente trascese in moti di violenza collettiva nei confronti della suddetta minoranza.
Il primo esempio di questo tipo risale all’ottobre 2012, quando una serie di account Facebook riconducibili a Ma Ba Tha sparse la notizia (poi rivelatasi falsa) che una donna buddhista dello stato Rakhine era stata stuprata da un gruppo di tre pregiudicati di religione musulmana. Nel corso di poche ore la violenza verbale che si era impadronita del dibattito sui social circa l’episodio deflagrò anche per le strade, portando alla distruzione di numerose proprietà dei Rohingya in svariati villaggi della regione.
Nel giugno 2014, invece, il copione si è ripetuto pressoché identico nell’area urbana di Mandalay, allorché iniziò a circolare su Facebook un rumour riguardante lo stupro di una ragazzina da parte di un cosiddetto “bengalese”, ovvero il termine dispregiativo che identifica i Rohingya nel gergo locale. I post che rimbalzarono la notizia contenevano anche i nominativi e il relativo domicilio dei due sospetti violentatori, che venne immediatamente assalito da una folla inferocita. I disordini nel quartiere musulmano che ne seguirono provocarono due morti e vasti danneggiamenti, spingendo peraltro il governo a bloccare temporaneamente l’accesso a Internet nell’area di Mandalay[15]. Pochi giorni dopo, il presunto episodio di stupro da cui erano divampate le violenze fu descritto come privo di qualsivoglia fondamento dalle principali agenzie di stampa birmane, ma né le autorità nazionali né Facebook presero alcun provvedimento contro gli utenti che avevano creato e diffuso simili bufale.
Analogamente, nel settembre del 2017 si è registrato un ulteriore tentativo di fomentare l’odio interetnico all’interno del Myanmar facendo leva sulla cassa di risonanza dei social network. In questo caso la campagna di fake news è coincisa con l’anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001, prendendo di mira migliaia di account Facebook fra la popolazione musulmana e buddista dello stato Rakhine mediante catene di messaggi, che annunciavano l’imminenza di un’azione terroristica ad opera della controparte. Al contempo, le già richiamate immagini dei supposti abusi compiuti dalla formazione armata Rohingya dell’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) contro vittime civili hanno continuato a inondare i social network birmani per svariati mesi, alimentando un clima di liceità per la “campagna punitiva” orchestrata dall’esercito del Myanmar nello stato Rakhine a partire dall’estate del 2017. Non a caso, secondo l’investigazione delle Nazioni Unite (ONU) che ha accusato i vertici birmani di un vero e proprio intento genocida a danno dei Rohingya, Facebook ha offerto una arena cruciale per alimentare una retorica de-umanizzante nei riguardi di questa minoranza, propagando odio, discriminazioni e pregiudizi su base etnico-confessionale[16]. Nell’agosto del 2018 Facebook ha finalmente annunciato un programma di misure per la propria community di utenti birmani, potenziando i filtri anti fake news nella lingua locale e sospendendo gli account di numerosi esponenti di alto rango delle forze armate, che avevano alimentato le succitate campagne di manipolazione dell’audience digitale del Myanmar. Tuttavia, l’aura di impunità per coloro che si macchiano di simili crimini, tanto fra i cittadini ordinari quanto fra gli esponenti più in vista dell’establishment, non sembra affatto scalfita, anche a causa di una legislazione interna incapace di tenere il passo con la rapidissima diffusione di Internet entro i confini nazionali.
Un frutto avvelenato?
Come emerso già in numerosi contesti, il caso birmano sembra testimoniare che l’avvento di Internet all’interno di una certa società non coincide con un’automatica elevazione e democratizzazione della stessa, ma può gettare le basi, al contrario, per un innalzamento delle capacità di resilienza di determinati regimi autoritari. In Myanmar, infatti, la diffusione per molti versi sregolata e selvaggia delle tecnologie ICT ha avuto come protagonista indiscussa un’utenza giovanile, poco alfabetizzata ed esposta agli strumenti della modernità dopo decenni di isolamento. L’entusiasmo che circonda i netizens birmani, pertanto, si scontra con la loro incapacità di attingere a Internet nei modi e nelle forme più corrette, distinguendo ad esempio fra informazione e propaganda.
Dall’altro lato, le autorità politiche e militari del Paese hanno dimostrato di comprendere molto bene le potenzialità del web, edificando un ordinamento legislativo in materia che appare certamente più liberale e aperto rispetto a quello draconiano dell’era pre-2010, nonostante perpetui numerose storture delle epoche precedenti. Come si è visto, la più evidente concerne il mantenimento di fattispecie vaghe e arbitrarie nel contrasto al crimine di diffamazione online, le quali sono state sfruttate dalla classe politica per intimidire e ridurre all’autocensura i propri detrattori. L’aspetto più sofisticato della risposta delle autorità birmane alla sfida lanciata da Internet riguarda, però, l’introduzione di meccanismi volti a manipolare il dibattito pubblico su determinati temi, mediante il ricorso a “hacker di Stato” che inondano i social network con campagne di controinformazione, spesso indirizzate a demonizzare le minoranze interne del Paese. L’impatto malevolo di Internet è emerso in modo drammatico nel quadro della crisi Rohingya, spingendo sia l’ONU sia gli stessi vertici di Facebook a denunciare le campagne di odio interetnico innescate da account associati agli apparati di Stato del Myanmar.
Se da un lato, quindi, vige un clima di autocensura per tutte le voci dissenzienti rispetto alla narrativa mainstream proposta dal governo, può dirsi l’opposto per i soggetti incaricati di manipolare scientemente le discussioni presenti sui social network, i quali operano di frequente su precisa richiesta delle autorità che sarebbero teoricamente chiamate a perseguirle.
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[1] McCarthy G. (2018), “Cyber-Spaces”, in Simpson A., Nicholas Farrelly, and Ian Holliday (eds), Routledge Handbook of Contemporary Myanmar, Abingdon: Routledge, 2018, pp. 92-93.
[2] “Burma Abolishes Media Censorship”, BBC, 20 agosto 2012.
[3] Business for Social Responsibility (BSR), “Human Rights Impact Assessment: Facebook in Myanmar”, 5 novembre 2018, disponibile online al sito https://fbnewsroomus.files.wordpress.com/2018/11/bsr-facebook-myanmar-hria_final.pdf.
[4] “Myanmar’s Digital Game Changers”, The Myanmar Times, 6 marzo 2019.
[5] International Telecom Union (2017), “Measuring the Information Society Report, Volume 2. ICT Country Profiles”, disponibile online al sito https://www.itu.int/en/ITU-D/Statistics/Pages/publications/mis2017.aspx, p. 129.
[6] Zainudeen A. e Helani Galpaya (2015), “Mobile Phones, Internet and Gender in Myanmar”, Working Paper, GSMA’s Connected Women and LIRNEasia, pp. 30-39, disponibile online al sito https://www.gsma.com/mobilefordevelopment/resources/mobile-phones-internet-and-gender-in-myanmar/.
[7] Einzenberger R. (2016), “If It’s on the Internet It Must Be Right: An Interview with Myanmar ICT for Development Organisation on the Use of the Internet and Social Media in Myanmar”, Austrian Journal of Southeast Asian Studies, 9 (2), pp. 301-310; Kajimoto M. (2016), “Developing News Literacy Curricula in the Age of Social Media in Hong Kong, Vietnam, and Myanmar”, Journalism Education, 5 (1), pp. 136-154.
[8] Parlamento dell’Unione del Myanmar (Pyidaungsu Hluttaw), “The Telecommunication Law no. 31/2013”, 8 ottobre 2013, disponibile online al sito http://www.burmalibrary.org/docs23/2013-10-08-Telecommunications_Law-en.pdf.
[9] Kean T. (2017), “Myanmar’s Telecommunications Law Threatens its Democratization Process”, ISEAS Perspective, p. 2, disponibile online al sito https://www.iseas.edu.sg/images/pdf/ISEAS_Perspective_2017_50.pdf.
[10] Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), “The Invisible Boundary. Criminal Prosecution of Journalism in Myanmar”, 11 settembre 2018, p. 9, disponibile online al sito https://www.ohchr.org/Documents/Countries/MM/MyanmarTheInvisibleBoundary.docx.
[11] “Lawsuit Against Myanmar Now Editor Dropped After 2 Years”, The Irrawaddy, 2 luglio 2019.
[12] McCarthy G. (2018), “Cyber-Spaces”, cit., pp. 94-96.
[13] Roberts M.E. (2018), Censored. Distraction and Diversion Inside China’s Great Firewall, Princeton; NJ: Princeton University Press, pp. 6-7.
[14] “A Genocide Incited on Facebook with Posts from Myanmar’s Military”, The New York Times, 15 ottobre 2018.
[15] “Curfew Imposed after Deadly Clashes between Buddhists, Muslims in Myanmar.” CNN.com, 7 luglio 2014, disponibile online al sito https://edition.cnn.com/2014/07/04/world/asia/myanmar-mandalay-religious-violence/index.html.
[16] Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), “Report of the Independent International Fact-Finding Mission on Myanmar”, 12 settembre 2018(b), p. 14, disponibile online al sito https://www.ohchr.org/Documents/HRBodies/HRCouncil/FFM-Myanmar/A_HRC_39_64.pdf.
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