Lo shock sino-capitalista: com’è cambiata l’immagine della Cina

Le percezioni occidentali della Cina sono sempre state in conflitto. A cavallo tra il XX e il XXI secolo, quando il dibattito era incentrato sulla possibile partecipazione della Cina all’ordine liberale costituito dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, si pensava che questa si sarebbe comportata da “attore responsabile”,[1] come una grande potenza che agisce entro i limiti segnati dall’ordine precostituito a guida statunitense. Realisti d’ogni guisa erano però di parere opposto, sostenendo che la Cina fosse destinata a sfidare gli Stati Uniti in quanto potenza “revisionista” intenzionata a sovvertire l’ordine stabilito.[2]

Grazie a una concettualizzazione delle disposizioni istituzionali e degli approcci di policy del sino-capitalismo, le dinamiche strutturali interne alla Cina possono illuminare le mosse che hanno consentito alla Cina di internazionalizzare il renminbi. Si veda: Christopher A. McNally, “The political economic logic of RMB internationalization: a study in sino-capitalism”, International Politics 52 (2015) 6: 704-723 (immagine: Servais
Mont/Getty Images).

Entrambe queste due previsioni si sono rivelate errate, e il dibattito è ormai irrevocabilmente mutato. Sono infatti andati i tempi in cui aveva credito l’idea per cui la Cina sarebbe entrata a far parte dell’ordine internazionale liberale in maniera pacifica e armoniosa:[3] la percezione della Cina e la reazione provocata da un suo riemergere sul panorama internazionale si sono fatte via via più marcatamente negative. Nelle maggiori capitali d’Occidente, l’unico dibattito ancora aperto è imperniato su come fronteggiare le nuove sfide create da un’economia politica cinese in rapida ascesa. Specialmente a Washington D.C., Repubblicani e Democratici si trovano concordi nel riconoscere la minaccia posta dalla Cina. Resta insoluto, invece, il quesito su come far fronte a questa minaccia: portare avanti una politica di decoupling e perseguire una strategia di “contenimento” in stile Guerra fredda, o esercitare sempre maggiori pressioni sulla Cina affinché si conformi alle regole dell’ordine liberale internazionale, idealmente coordinandosi con le altre grandi potenze?

Nonostante questo cambiamento nel dibattito attuale e l’incremento di politiche ostili alla Cina, l’analisi concernente le origini della sfida cinese continuano ad essere fuorvianti e incomplete. Senza una comprensione della natura della sfida stessa, risulterebbe infatti difficile progettare politiche che consentano di affrontarla in modo efficace. Lo shock che la riaffermazione internazionale della Cina ha provocato resta, così, oggetto di incomprensioni, porta all’adozione di comportamenti potenzialmente pericolosi da parte di tutte le maggiori potenze e persino a prospettive di guerra, anche per procura.

La natura del crescente potere globale della Cina non è di carattere puramente geopolitico. La si può meglio comprendere come insita nell’economia politica, in particolare nell’emergere di una nuova forma di capitalismo incentrata sulla Cina che è di presa globale e che tuttavia, in termini ideologici e di principi organizzativi, è profondamente diversa dalle forme di capitalismo radicate in Occidente. L’Occidente si trova così a dover fare i conti con lo shock del “sino-capitalismo”.

Il sino-capitalismo è una forma di capitalismo che anzitutto riconosce allo Stato un ruolo fondamentale. I mercati sono visti come strumenti potenzialmente efficienti per la creazione di pressioni competitive, l’allocazione di beni e risorse, e per l’ammodernamento dell’economia. Questo, però, è solo nella misura in cui i mercati non mostrino tendenze caotiche e non creino esternalità estese. Il mercato dev’essere perciò “governato” da uno Stato interventista, a tratti persino invadente.[4] Questo, in Cina, è un fenomeno che è stato ulteriormente rafforzato da un Partito-Stato di matrice leninista – il Partito comunista cinese (Pcc) è infatti all’avanguardia nel cercare di controllare l’attività economica attraverso l’uso di strumenti politici.

Occorre notare però come la coordinazione e il controllo delle Stato siano controbilanciati da un settore privato cinese sempre più influente e sofisticato.[5] Tutte le principali innovazioni tecnologiche sono ormai guidate, almeno in parte, dall’imprenditorialità privata. Benché Huawei coltivi certamente relazioni molto strette con il Partito-Stato cinese, essa è comunque un’azienda privata frutto dell’iniziativa e dell’imprenditorialità privata. Sotto il sino-capitalismo esiste dunque un equilibrio unico, o una dialettica, tra due forze compensative: controllo statale top-down e iniziativa e imprenditorialità privata bottom-up.

Inoltre, per certi ambiti dell’economia, come nel mercato del lavoro e per la maggior parte dei beni e dei servizi, la Cina ha istituito un sistema altamente liberalizzato di attività basata sul mercato. Persino nei mercati capitali all’interno dei quali la liberalizzazione è sempre stata lenta e particolarmente cauta, alcune riforme si stanno muovendo rapidamente. Lo shock che il sino-capitalismo ha generato è quindi poco compreso in Occidente.

La Cina combina attività pesantemente controllate dallo Stato con attività economiche liberiste. È una forza economica la cui influenza non si può non riconoscere, ma non è in alcun modo una potenza revisionista pronta a sovvertire l’ordine costituito dagli Stati Uniti. La sua forma di capitalismo dipende da un’economia globale in salute e dalle norme e regole che la governano. Anche solo descrivere la Cina come “selettivamente” revisionista sarebbe fuorviante.[6] La Cina si oppone fermamente a quegli aspetti dell’ordine internazionale liberale che riguardano i diritti umani e la diffusione dei principi democratici. Anche in casi come questo, tuttavia, gli sforzi cinesi hanno mirato a limitare e reindirizzare queste attività, non a sovvertire istituzioni stabilite. La Cina, quindi, non cerca di disfare l’ordine internazionale; al contrario, mira a trasformarlo gradualmente perché possa meglio conformarsi agli interessi cinesi.

Questa dinamica è maggiormente evidente nel contesto offerto dall’economia politica globale. In questo contesto non vi sono accordi istituzionali che la Cina vuole ribaltare del tutto – il metodo preferito è l’esercizio d’influenza dall’interno, come la Cina è riuscita a fare con successo nelle Nazioni Unite. Se le istituzioni all’interno delle quali la Cina opera non consentono a questo metodo di funzionare per via di resistenze statunitensi, come nel caso della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, la Cina allora stabilisce nuove istituzioni quali la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (AIIB) che possano ricordare l’organizzazione e la prospettiva ideazionale di istituzioni già esistenti.[7]

Quindi, cos’ha portato al radicale cambiamento dell’atteggiamento dell’Occidente nei confronti della Cina? Spesso questi cambiamenti risalgono ad eventi specifici, come l’acquisizione nel 2016 del produttore tedesco di robot Kuka da parte di Midea, primo gruppo cinese nella produzione dei piccoli e grandi elettrodomestici – episodio che ha creato una nuova sensazione di angustia nelle cerchie dell’imprenditoria tedesca che fino a poco prima erano state molto favorevoli alla Cina. Per la prima volta, la combinazione tra iniziativa privata e supporto statale alla base del sino-capitalismo fu vista come segnale del fatto che la Cina fosse in procinto di conquistare i gioielli della corona dell’industria tedesca.

Similmente, si tende a far risalire il modo in cui la Cina è vista a Washington D.C. all’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, benché si tratti di un fenomeno ad essa antecedente. In ambito accademico, il cambiamento più comune è visto nell’ascesa al potere di Xi Jinping e la sua retorica della Nuova era/Sogno cinese con la “grande rinascita della nazione cinese” come suo obiettivo politico ultimo. La politica del “China First”, già evidente nel 2013, molto prima che Trump si avventurasse nella retorica dell’”America First”, è in realtà considerata come atto che ha posto fine all’era denghista delle riforme. Minzner,[8] ad esempio, vede Xi come intento ad offuscare la politica di riforma e di apertura di Deng nel tentativo di forgiare legami più stretti con il passato del Pcc, età maoista compresa. Xi ha quindi “incarnato” la figura dell’”imperatore organizzativo”[9] del Pcc, accentrando potere nelle sue mani e, soprattutto, cercando di reinserire il Partito in ogni angolo della società cinese, dall’ambito accademico, alle organizzazioni culturali, alle organizzazioni non governative, al settore privato (sul quale investono aziende sia cinesi, sia estere).

Alla luce di questo, una mutata immagine della Cina può rimandare direttamente al “Sogno cinese” di Xi Jinping. La reintroduzione del Partito negli affari del quotidiano, specialmente la sua presenza sempre crescente nel settore privato cinese, spinge il sino-capitalismo verso un’economia politica puramente neo-statista con accenni crescenti di controllo Orwelliano.

Questa visione non è scorretta, ma omette due fattori altamente significativi. In primo luogo, nonostante lo Stato abbia avuto maggior controllo sulle questioni economiche sotto Xi Jinping e il Pcc abbia cercato di riacquisire controllo politico su ogni cosa, il percorso delle riforme non si è arrestato. In un passaggio che è comune a tutti i casi di sviluppo economico, molte delle iniziative degli ultimi anni hanno cercato di regolarizzare e istituzionalizzare ulteriormente il sino-capitalismo. Inoltre, in diversi contesti di policy quali il settore della produzione di energia e, soprattutto, nel settore finanziario, ha avuto luogo una sostanziale liberalizzazione (o riforme del mercato).

In secondo luogo, nonostante sia stato il governo cinese a stabilire l’agenda del programma di politiche industriali “Made in China 2025”, quest’iniziativa dipende dalla vitalità del settore privato cinese. In molte aree chiave della ricerca e dello sviluppo, compresi i chip dei circuiti integrati, l’intelligenza artificiale, i veicoli elettrici, e internet, il settore privato cinese è all’avanguardia dell’innovazione. Sicuramente lo Stato fornisce sussidi e supporta gran parte dell’attività privata, creando una relazione simbiotica tra lo Stato e le aziende private (fenomeno rintracciabile nella storia dello sviluppo economico di Corea del Sud e Taiwan, quando queste economie si trovarono a questo stadio di sviluppo), ma la dialettica fondamentale del sino-capitalismo resta intatta.

In breve, l’era di Xi Jinping continua ad essere caratterizzata dal rapporto dialettico che lega il supporto top-down dello Stato all’iniziativa bottom-up delle imprese private. Nonostante l’attivismo dei governi locali sia stato manomesso e molti settori tradizionali dell’industria privata stiano soffrendo per colpa di un assalto furibondo a nuove applicazioni regolamentari in aree che vanno dall’ambiente al lavoro, il Pcc continua a dipendere dallo stato di salute dell’imprenditoria privata. Il piano di Xi Jinping per la rinascita della nazione cinese e per la realizzazione del “Sogno cinese” dipendono dalla vivacità dell’imprenditoria privata e dall’accumulo di capitale.

Una rappresentazione simbolica di questa realtà rimanda a quando Xi Jinping, nel tardo 2018, tentò di rassicurare gli imprenditori privati affermando che le loro imprese sarebbero state protette in Cina. Promise l’eguale trattamento dei settori pubblico e privato, confermando che i diritti personali e di proprietà sarebbero stati protetti, allo stesso tempo promettendo all’industria privata “sostanziali” agevolazioni fiscali, fondi per il salvataggio di imprese in dissesto e altri benefici. Per la sua sopravvivenza, il Pcc ha bisogno di sostenere la dialettica del sino-capitalismo, abilitando l’accumulo di capitale privato, l’impresa, e l’innovazione, anche se il clima politico in Cina ha subìto cambiamenti radicali.

L’amministrazione di Xi Jinping sta dunque intraprendendo riforme del sistema per rafforzare il ruolo dello Stato, al contempo creando condizioni adatte allo sviluppo all’impresa privata, specialmente quella del settore tecnologico. Tali sforzi comprendono anche la ristrutturazione dell’economia per generare un maggiore consumo interno che possa ridurre la dipendenza della Cina da mercati e fornitori esteri.

Perciò, mentre si è verificato un sostanziale cambiamento politico in Cina, l’inasprimento dell’Occidente non trova giustificazione solo nel governo di Xi Jinping, ma nel crescente impatto della politica economica cinese sull’economia mondiale. Questo comprende un certo grado di maturazione che possa permettere alla Cina di contare meno su investimenti e competenze provenienti dall’estero.

In qualità del suo essere la seconda maggiore economia mondiale e del suo tentativo di raggiungere la vetta dell’innovazione tecnologica globale, Pechino ha ora dato inizio a sforzi concertati per diffondere la sua influenza con iniziative quali la Belt and Road Initiative (BRI), l’AIIB, l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, il suo avvicinamento all’Europa orientale, e altre iniziative. La crescita globale del sino-capitalismo sta creando one d’urto che, dopo aver raggiunto le coste dell’Occidente, hanno repentinamente cambiato le percezioni sulla Cina. Questa è dunque passata dall’essere vista come un’opportunità commerciale all’essere percepita come rivale e potenziale minaccia.

Questo cambiamento di umore riflette una valutazione maggiormente realistica del potenziale futuro della Cina. Ciononostante, i dibattiti sulla Cina in Occidente ancora non colgono appieno la natura e la logica del sino-capitalismo, le cui visioni parziali sono, ad oggi, fin troppo comuni. Queste variano da immagini di un nefando capitalismo di Stato coinvolto in furti di tecnologia, a immagini di un inefficiente sacripante dominato dallo Stato e destinato al collasso. Entrambe queste visioni mal comprendono il dinamismo del settore privato cinese, nonché il ruolo che esso gioca nel sostenere la dialettica del sino-capitalismo. Il risultato è che entrambe le interpretazioni portano a conclusioni sbagliate. La Cina non la si può contenere, a meno che il governo statunitense non voglia rischiare di provocare il tracollo dell’economia globale. Il decoupling dell’economia statunitense da quella cinese voluto da alcuni consiglieri della Casa Bianca richiederebbe enormi costi economici, ed è improbabile che raggiunga l’obiettivo prefissato di indebolire addirittura distruggere il Pcc.

Benché il sino-capitalismo continuerà a trasformarsi e a maturare, il sistema di per sé non è insostenibile, e comprende al suo interno forze competitive. È pertanto sbagliato immaginare che gli Stati Uniti, o anche l’Occidente nel suo complesso, abbiano la capacità di “contenere” la Cina in uno scenario da Guerra fredda. Il sino-capitalismo ha prosperato e ha raggiunto un nuovo grado di maturazione.

In altre parole, l’Occidente ha bisogno di imparare a convivere con una Cina forte e prospera all’interno della quale convivono un sistema politico e una forma di capitalismo che non conoscono precedenti storici. La Cina può essere spinta a riformare la propria economia nel nome della creazione di pari opportunità per le imprese occidentali nei settori della proprietà intellettuale, trasferimenti tecnologici obbligatori, e accesso al mercato. Tuttavia, sarebbe folle cercare di stravolgere il sistema – ancora più folle sarebbe sperare che collassi.

Traduzione dall’inglese a cura di Carlotta Clivio

[1] Robert B. Zoellick, “Whither China: from membership to responsibility?”, Remarks to National Committee on U.S.-China Relations, 21 settembre 2005, New York City. Disponibile all’Url https://2001-2009.state.gov/s/d/former/zoellick/rem/53682.htm.

[2] John J. Mearsheimer, The tragedy of great power politics (updated edition) (New York: W.W. Norton & Company, 2001).

[3]  G. John Ikenberry, Liberal Leviathan: the origins, crisis, and transformation of the American order (Princeton: Princeton University Press, 2012).

[4] Robert Wade, Governing the market: economic theory and the role of government in East Asian industrialization (Princeton: Princeton University Press, 1990).

[5] Si vedano: Christopher A. McNally, “Sino-capitalism: China’s reemergence and the international political economy”, World Politics 64 (2012) 4: 741–776; e Christopher A. McNally “Tracing the Emergence of Sino-capitalism: Social Change and Development in Contemporary China”, in Handbook on Development and Social Change, a cura di G. Honor Fagan e Ronaldo Munck (Cheltenham: Edward Elgar Publishing Ltd., 2018): 269-290.

[6] Khairulanwar Zaini, “China as a selective revisionist power in the International order: report of a seminar presentation by Bonnie Glaser at ISEAS – Yusof Ishak Institute in January 2019”, ISEAS -Yusok Ishak Institute Perspective No. 21, 5 aprile 2019, disponibile all’Url https://www.iseas.edu.sg/images/pdf/ISEAS_Perspective_2019_21.pdf.

[7] Giuseppe Gabusi, “«Crossing the river by feeling the gold»: the Asian Infrastructure Investment Bank and the financial support to the Belt and Road Initiative”, China & World Economy 25 (2017) 5: 23-45, disponibile all’Url: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/cwe.12212.

[8] Carl Minzner, End of an era: how China’s authoritarian revival is undermining its rise (Oxford: Oxford University Press, 2018).

[9] Zheng Yongnian, The Chinese Communist Party as organizational emperor: culture, reproduction, and transformation (Londra: Routledge, 2009).

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