[LA RECENSIONE] La Cina nella storia globale. Percorsi e tendenze

Guido Samarani (a cura di), La Cina nella storia globale. Percorsi e tendenze (Milano: Guerini e Associati, 2019)

L’ascesa della Cina al rango di potenza economica mondiale, per molti, è stata una sorpresa. Non certo per gli storici che ricordano quando, prima dell’incontro-scontro con l’Occidente, l’Impero di mezzo fosse davvero al centro degli scambi e dei commerci in tutta l’Eurasia. In un’epoca sempre più caratterizzata dall’incertezza sull’ordine globale che verrà, rileggere il passato è un esercizio quanto mai utile e necessario. Il libro curato da Guido Samarani – noto sinologo dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – lo fa attraverso le lenti e gli strumenti della storia globale, intesa non come “la somma della storia dei paesi stranieri”, ma come “una storia centrata sulle connessioni e sulle interazioni” (p. 13). Il volume presenta infatti, in traduzione italiana, una serie di saggi pubblicati in inglese tra il 1991 e il 2017 da autori che rifuggono da una lettura degli avvenimenti registrati in singole aree geografiche o dallo studio di singole dimensioni sociali, isolate dal quadro molto più ampio, articolato e complesso di quel che succede “attorno” allo specifico oggetto di analisi. Non solo: come emerge da un passaggio dell’intervista allo storico Luo Zhitian collocata alla fine della raccolta (“Capire la storia cinese nel contesto della storia mondiale”), il libro è un invito persino ad allargare le maglie della disciplina, per comprendere meglio, in una prospettiva davvero olistica, le vicende umane. Afferma Luo: “coloro che si rinchiudono entro i confini della propria disciplina tendono a definire la storia in un certo modo e non riescono ad andare oltre questi limiti. A mio modo di vedere, lo studio della storia riguarda la comprensione degli esseri umani, un punto che molti purtroppo dimenticano. Se dovessi insegnare metodologia della storia vi inserirei ogni disciplina accademica che possa contribuire a una comprensione migliore del passato” (p. 482).

Tutto, in fondo, ruota attorno al “Problema di Needham”, dal nome di Joseph Needham, famoso storico della scienza che per primo cercò di comprendere come, all’incirca nel crepuscolo della dinastia Ming (1368-1644), lo sviluppo economico cinese si arrestò, lasciando il campo all’Occidente, in piena industrializzazione capitalistica e proiettato verso l’edificazione di un impero dei mari. Il saggio intitolato “Perché non la Cina?” – uno dei tre capitoli a firma di Jonathan W. Daly – dà conto del dibattito storiografico sul punto, dalla risposta di Immanuel Wallerstein (“il successo dell’impero impedì la trasformazione economica”) a quella di Needham stesso (“le élite della Cina disdegnarono il commercio e le scoperte scientifiche”), dall’argomento di André Gunder Frank secondo cui in Cina “salari bassi impedirono l’innovazione risparmia-lavoro” (che invece avrebbe permesso la crescita di produttività) alla tesi di Kenneth Pomeranz secondo cui furono le colonie – di cui la Cina fu priva – che permisero all’Occidente il decollo economico. Invero, Reorient di Frank e The Great Divergence di Pomeranz, insieme a The Eastern Origins of Western Civilization di John Hobson sono i libri alla base delle “grandi narrazioni” che troviamo nel testo, facilmente utilizzabile come strumento didattico e di ricerca in università. Da un lato, questi approcci e riflessioni invitano ad abbandonare la visione eurocentrica che troppo spesso, anche inconsapevolmente, adottiamo quando ci occupiamo del “Resto” geografico e politico. D’altro canto, suggeriscono lo sforzo di andare oltre la dicotomia “West v. the Rest”, scoprendo quanto West sia stato introiettato dal Rest e quanto di ciò che crediamo caratterizzi il resto del mondo sia presente anche in Occidente e nella sua storia, solamente che per indifferenza, trascuratezza o ideologia tendiamo a dimenticarlo.

Un altro capitolo di Daly, infatti, parla di “grandezza dell’Asia” e ricorda quanti autori abbiano sottolineato come l’Europa sia debitrice nei confronti del continente a oriente, una terra prospera che – ben prima dell’ascesa capitalistica tra mercanti delle Fiandre e banchieri italiani – produceva e scambiava ricchezze su scala continentale.  Non c’era quindi “nulla di unico” nella società europea che predestinasse l’Europa al trionfo globale, così come non era già scritto che le istituzioni politiche e socio-economiche asiatiche avrebbero impedito all’Asia il salto capitalistico. Non manca quindi la menzione della critica, da parte di questa storiografia, a pensatori come Max Weber e Karl Marx, a cui si può ascrivere rispettivamente la prima e la seconda visione.

E la Cina, in tutto questo? Luo – non a caso, per storia personale, profondo conoscitore sia del mondo sinico sia di quello occidentale – offre nella sua intervista un’analisi molto lucida delle origini storiche della prospettiva cinese sul mondo. Il riferimento rimane ancora quello del modello “impatto-risposta” di John King Fairbank, secondo cui “se poniamo la data di inizio della storia cinese moderna alla metà del XIX secolo, vediamo che tutti i cambiamenti principali avvenuti da allora sono stati effettivamente prodotti da forze esterne” (pp. 483-484). È l’abbandono della nozione di tiānxià (tutto ciò che è sotto il cielo) – “un prisma attraverso il quale passava la nostra tradizionale visione del mondo e che presuppone la centralità della Cina nel mondo e la sottomissione dei popoli e delle società situati alla periferia della Cina” – che costituisce “uno dei cambiamenti essenziali nella storia cinese moderna” (p. 484). Le sconfitte militari dell’impero – e il sentimento di inadeguatezza che esse generano – costringono la Cina a fare i conti con la perdita di centralità, e con un mondo (non più così “barbaro”), che bussa alle porte o addirittura le apre con forza. Fu così che i cinesi gradualmente accettarono “l’idea straniera di supremazia basata sul potere e sulla forza”. Fu un passaggio storico, perché i cinesi “non hanno mai approvato il fatto che la forza sia l’unico criterio che distingue la civiltà dalla barbarie” e, “una volta abbracciata questa convinzione, hanno dovuto accettare il fatto di essere barbari alla periferia del mondo civilizzato” (p. 485). Questa differenza è all’origine del complesso rapporto di critica/imitazione, ammirazione/disprezzo, in sintesi di amore/odio tra Cina e Occidente. La tensione, peraltro, si registra in altre parti del “Resto”: è una dimensione rintracciabile nelle ex-colonie europee, e in fondo “ciò che accadde ai popoli conquistati e colonizzati era percepito dai cinesi come un avvertimento” (p. 491), poiché anche la Cina rischiava di soccombere davanti agli stranieri.

E ora che il quadro internazionale è in grande sommovimento, la tensione sfocerà in un conflitto? Non c’è dubbio che “negli ultimi cent’anni l’Occidente è passato, nelle menti dei cinesi, dall’essere fonte di ispirazione e ideale a essere fonte di problemi e addirittura una maledizione” (p. 491), ma la fine della storia non è ancora stata scritta, poiché “il processo di costruzione dell’incontro/scontro con l’Occidente” è “ancora in corso” (p. 491). Di certo, a essere fonte di ispirazione, per tutti coloro desiderosi di comprendere i cambiamenti epocali del nostro tempo e l’affascinante ritorno dell’Asia sul palcoscenico della storia globale, è questa raccolta di saggi raccolti da Samarani. Averli resi accessibili al pubblico italiano è un esercizio lodevole.

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