Il percorso dell’identità nazionale pluralistica a Taiwan. Dai processi di colonizzazione alla democratizzazione

L’identità nazionale può essere definita come un insieme di cognizioni ed emozioni che esprimono la relazione di un individuo con una nazione[1]. Si tratta di un costrutto sociale[2] determinato e influenzato da numerosi fattori storici. Descrivere l’evoluzione e i processi di configurazione dell’identità nazionale si rivela immancabilmente un’operazione complessa. Le diverse prospettive teoretiche, gli elementi soggettivi e i molteplici avvenimenti storici da prendere in considerazione complicano una rappresentazione dell’identità nazionale rispettosa del metodo scientifico delle scienze sociali. Una dinamica che risulta ancora più complessa nel caso di Taiwan, una piccola porzione del continente asiatico, apparentemente marginale nella geografia dell’area, che tuttavia ha costantemente avuto un ruolo cruciale nella geopolitica della regione.

Taipei, Chiang Kai-shek Memorial Hall.

Un’isola al di là dei mari (hǎiwài; 海外) popolata da selvaggi, nell’interpretazione cinese, che solo alla fine del XVII secolo diventa una provincia minore della Cina. Una periferia del Regno di Mezzo che entra a far parte dell’Impero giapponese e diventa il primo laboratorio di colonizzazione guidato da un paese asiatico. Un territorio conteso che subisce un inedito processo di colonizzazione all’inverso mentre per un singolare compromesso diplomatico e semantico i confini geografici del paese vengono estesi oltre ogni immaginazione. Un modello, unico nella regione, di transizione pacifica alla democrazia e un processo di riconfigurazione dell’identità nazionale in continuo cambiamento. I molteplici significati storici sopra elencati che Taiwan ha rappresentato dall’inizio del XVII secolo, inizialmente come oggetto di appropriazione o controllo e in seguito come soggetto geopolitico a sé stante, all’interno dell’ambiguità dei collegamenti politici e culturali con la Cina hanno determinato uno scenario unico. Un contesto peculiare e dinamico che necessita di una breve ricognizione morfologica per fissare gli elementi “certi” prima di tentare una descrizione della dimensione liminale[3] dell’identità taiwanese.

La costa ovest dell’isola ha solamente due possibili approdi, Tamsui al nord nelle vicinanze della capitale e Kaoshiung al sud, mentre le forti correnti della costa est rendono la navigazione molto complessa. Le numerose catene montuose all’interno e i pochi fiumi navigabili hanno determinato il sostanziale isolamento dei vari gruppi etnici dell’isola. L’isola è uno dei principali snodi logistici dell’Asia orientale: la posizione strategica è cruciale per il Giappone e la Corea del sud ma, soprattutto, Taiwan garantisce la libertà di navigazione nelle acque dello stretto alla Marina statunitense e la conseguente egemonia strategica di Washington nella regione. La presenza umana è relativamente recente. Le prime tracce di civilizzazione risalgono a 4000 anni fa: si tratta di coloni austronesiani giunti dalle Filippine[4]. I primi abitanti dell’isola si organizzarono in comunità autonome, sviluppando linguaggi e culture diverse. Ad oggi il governo taiwanese riconosce sedici diversi gruppi: gli Amis, gli Atayal, i Bunun, i Saaroa, i Kavalan, i Kanakanavu, i Paiwan, i Puyuma, i Rukai, i Saisiyat, i Sakizaya, i Seediq, gli Yami, i Thao, gli Tsou e i Taroko. Sono esclusi da questa classificazione i dieci gruppi indigeni di Pingpu, i cosiddetti “popoli delle pianure basse”, che da decenni stanno cercando un riconoscimento ufficiale da parte del governo taiwanese.

La posizione dell’isola era ovviamente ben nota all’Impero cinese, vista la vicinanza con il continente, ma fu solo alla fine del XVI secolo che le navi dal continente riuscirono a raggiungere le coste taiwanesi con regolarità. Successivamente, intorno al XVII secolo, vennero erette delle fortificazioni nelle isole dello stretto. Nelle parole scritte dall’esploratore cinese Yu Yonghe mentre avvistava le montagne di Taiwan nell’inverno del 1697 ci sono tutti gli elementi per definire la percezione dell’isola nella corte imperiale:

“Taiwan si trova molto al di là dell’Oceano orientale e non ha mai, sin dall’alba della creazione, pagato un tributo alla Cina. Ora abbiamo reso Taiwan la nona prefettura del Fujian. Per natura sono affascinato dai viaggi in luoghi lontani e non ho paura degli ostacoli e del pericolo. Da quando Taiwan è stata messa sulla mappa ho detto a me stesso che non sarei stato soddisfatto finché non avessi visto l’isola con i miei occhi”[5].

Mappa di Formosa, 1874. In rosso, il territorio costiero dell’isola sotto il controllo dell’Impero Qing. Fonte: E.G. Ravenstein, “Formosa”, The Geographical Magazine 1 (1874):292-293.

Un luogo pericoloso, con montagne inaccessibili, abitato da selvaggi e infestato da malattie tropicali sconosciute. L’era delle esplorazioni oceaniche cambiò in maniera radicale la storia di Taiwan e i processi coloniali trasformarono la prospettiva della Corte imperiale rispetto a un territorio che non era neanche degno della considerazione del Regno di Mezzo.

Furono i portoghesi a dare il primo nome all’isola. Secondo la leggenda, oramai unanimemente accettata, uno dei passeggeri di una nave portoghese nel 1544 esclamò: “Ilha Formosa”, isola bella, alla vista della rigogliosa e incontaminata Taiwan. Solo nel 1623 gli olandesi stabilirono un insediamento ad Anping, l’odierna Tainan. Gli spagnoli, invece, arrivarono a Taiwan nel 1626, tre anni dopo gli olandesi, per stabilirsi prima a Keelung e poi nel 1628 a Tamsui. Gli olandesi commerciavano carne di cervo e pellame verso l’Europa: entrambe le risorse erano reperite dagli aborigeni. La presenza coloniale olandese nell’isola era numericamente ridotta e per contrastare gli spagnoli furono utilizzate le tribù autoctone. Inoltre, l’arrivo degli europei incentivò l’emigrazione cinese dal Fujian. In breve tempo, gli olandesi iniziarono a esportare anche il riso e la canna da zucchero coltivata dai contadini cinesi sull’isola, oltre ai pellami. Le frequenti carestie nel Fujian determinarono flussi migratori sempre più intensi e di carattere stanziale.

I coloni appartenevano a due distinti gruppi etnici. La maggior parte dei migranti erano hokkienesi o hoklo (fúlǎo; 福佬) provenienti da due regioni del Fujian, Zhangzhou e Quanzhou. I coloni dalle due regioni parlavano varianti del sud minnan inintelligibili tra loro e, pur condividendo gran parte del bagaglio culturale, vissero rigidamente separati. Furono, inoltre, spesso coinvolti in frequenti contrasti che sfociarono in conflitti. L’altro gruppo etnico è quello degli hakka (kèjiārén; 客家人), una popolazione intrinsecamente collegata nell’immaginario della cultura cinese all’idea di movimento e migrazione, che parla un dialetto con influenze sia cantonesi sia del nord della Cina.

Le interazioni tra la Cina e Taiwan si fecero più intense e l’individuazione di approdi sicuri consentì scambi sempre maggiori. I principali frequentatori delle rotte nello stretto erano tuttavia i pirati, che rivestivano un ruolo simile ai corsari al servizio della corona inglese nei Caraibi, la cui principale attività era la gestione dei flussi migratori dalla Cina. Quando gli olandesi vietarono al pirata Zheng Zhilong (Zhèng Zhīlóng; 郑芝龙) e alla sua potente flotta di entrare in territorio taiwanese, preoccupati dell’aumento dei coloni hokkienesi, Zheng si mise al servizio dell’imperatore cinese arrivando a essere nominato Ammiraglio. Dopo un periodo che Tonio Andrade definisce di co-colonizzazione[6] nell’isola, con gli olandesi e i cinesi che avviano una sorta di spartizione del territorio, gli sconvolgimenti in Cina cambiarono il destino di Formosa. Nel 1644 un esercito Manciù entrò a Pechino: era la sfida finale di quella che diventerà l’ultima dinastia imperiale cinese all’ormai agonizzante Impero Ming. Zheng combatte contro “i barbari del nord”, per poi accettare un incontro con quella che era diventata la dinastia Qing. Durante questo incontro verrà fatto prigioniero e passerà la sua vita agli arresti nella capitale imperiale. L’incontro pacificatore a Pechino era stato fortemente avversato dal figlio di Zheng, Zheng Chenggong (Zhèng Chénggōng; 成功), conosciuto come Koxinga, ossia la proununcia in hokkienese del titolo Guóxìngyé  (國姓爺)  “Signore dal Cognome Imperiale”. Detentore di un titolo concesso alla sua famiglia da un principe Ming. Koxinga sarà una figura cruciale per la storia di Formosa: protagonista di saghe, canzoni e agiografie, è riconosciuto come un eroe nazionale in Cina, a Taiwan ma anche in Giappone, paese dove è nato e ha studiato. Primo vincitore cinese sui colonizzatori occidentali, dotto letterato che abbandona gli studi per difendere l’onore del proprio paese, feroce pirata, dominatore dei mari asiatici, crudele tiranno affetto da turbe mentali, eroe patriottico e primo amministratore di Formosa: ogni paese ne ha declinato il mito e la storia secondo le proprie esigenze. Un eroe multiculturale che a Taiwan è venerato come una divinità: nell’isola, più di cento templi sono dedicati alla sua figura. Koxinga continuò la strenua resistenza contro i Qing, sconfisse gli olandesi liberando l’isola dall’occupazione coloniale e vi instaurò un governo pochi mesi prima della sua morte.

Nelle due decadi di amministrazione dell’isola, il cosiddetto Regno di Tungning sviluppò l’agricoltura, permettendo ai contadini di decidere autonomamente come lavorare la terra. Inoltre, durante le pause nei combattimenti, molti soldati si dedicarono a convertire nuove aree alla coltivazione. In questo periodo, per la prima volta, la cultura cinese si diffuse a Taiwan e nel 1683, quando la flotta Qing sconfisse definitivamente i ribelli, la Cina si ritrovò ad avere il controllo di un’isola che non aveva mai considerato degna di far parte del Celeste Impero. L’epopea di Koxinga ha delle evidenti similitudini con quanto avverrà negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, un esercito perdente che si ritira a Taiwan con l’obiettivo di riconquistare il controllo politico della Cina e si trova ad amministrare la popolazione dell’isola.

La decisione delle Corte imperiale di restare nell’isola dopo aver sconfitto la resistenza non fu scontata e la testimonianza di un funzionario di corte ben descrive questo sentimento:

“Taiwan è semplicemente una palla di fango oltre i mari, indegna dello sviluppo da parte della Cina. È pieno di selvaggi nudi e tatuati, che non vale la pena difendere. È uno spreco quotidiano di denaro imperiale senza alcun beneficio”[7].

Solo l’insistenza dell’ammiraglio Shi Lang (Shī Láng; 施琅), che aveva personalmente guidato le operazioni contro i ribelli sull’isola, convinse la corte della necessità strategica di stabilire un controllo imperiale a Taiwan. Sotto il controllo della dinastia Qing, Taiwan diventò parte della Provincia del Fujian, ma l’isola continuò a essere considerata un corpo estraneo nella cultura cinese. La presenza dell’autorità imperiale fu debole o inesistente al di fuori dei principali centri e vaste porzioni di territorio rimasero inesplorate. Ai funzionari inviati sull’isola veniva proibito di portare le proprie famiglie e i contatti con la popolazione locale venivano mantenuti al minimo indispensabile. Il lento decadimento della dinastia Qing, indebolita dalle continue pressioni occidentali e dalle frequenti rivolte interne, determinò un controllo sempre più blando sull’isola di Formosa. Solo durante la guerra sino-francese del 1884 l’amministrazione imperiale comprese la cruciale importanza strategica dell’isola. Nel 1886 l’isola fu scorporata dall’amministrazione del Fujian e divenne una Provincia autonoma. Liu Mingchuan (Liú Míngchuán; 劉銘傳) fu nominato governatore con l’ambizioso obiettivo di modernizzare Taiwan. L’amministrazione cinese voleva trasformare Formosa nell’avamposto tecnologico dell’impero e Liu riuscì a estendere il controllo su gran parte del territorio, mitigando le tensioni con la popolazione aborigena e organizzando una distribuzione delle terre. Il primo ufficio postale cinese aprì proprio a Taiwan, la prima linea telefonica dell’impero cinese fu installata nell’isola e la prima ferrovia costruita interamente dai cinesi fu inaugurata nel 1893. Le dimensioni relativamente ridotte e la mancanza degli sconvolgimenti sociali che dilagavano nel continente permisero all’amministrazione Qing di realizzare un ambizioso progetto di modernizzazione a Taiwan.

La schiacciante vittoria del Giappone nella guerra sino-giapponese sancì, con il trattato di Shimonoseki nel 1895, la cessione dell’isola di Formosa alla nuova potenza regionale. La colonizzazione giapponese a Taiwan fu sostanzialmente diversa dalle altre occupazioni del paese del Sol Levante in Asia: Tokyo era fortemente determinata a mostrare al mondo intero, e soprattutto ai paesi confinanti, di essere una nazione moderna ed efficiente. Taiwan doveva diventare una colonia modello, con la possibilità di una futura inclusione dei taiwanesi nella società giapponese, in qualità di membri minori. Un compito facilitato da una società disarticolata, senza un gruppo etnico dominante e con una labile appartenenza alla cultura cinese. Il processo di industrializzazione dell’isola, avviato negli anni precedenti dalla dinastia Qing, fu notevolmente sviluppato. I giapponesi progettarono e costruirono le città di Taipei e Kaohsiung, strade e ferrovie, dighe e centrali elettriche, scuole e università. La presenza giapponese fu inizialmente percepita come una minaccia. La Repubblica di Formosa, proclamata dalle élite locali nella speranza di riuscire ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, terminò nell’ottobre del 1895 con l’arrivo delle truppe nipponiche. L’esperienza della Repubblica di Formosa, tra le prime repubbliche asiatiche, durò appena cinque mesi, ma la splendida bandiera con la tigre gialla, scelta per distinguere la neonata repubblica dal dragone dell’Impero Qing, rimane una testimonianza delle aspirazioni indipendentiste del popolo taiwanese. La popolazione austronesiana pagò il prezzo più alto della dominazione giapponese. Gli abitanti autoctoni furono letteralmente isolati dagli altri gruppi etnici e le sporadiche rivolte furono sedate nel sangue. Già dall’inizio del XX secolo, la resistenza contro i giapponesi era pressoché inesistente. Tokyo iniziò un processo di penetrazione della cultura, a partire dal sistema educativo. I giapponesi concessero l’istituzione di un processo di votazione parziale per le assemblee locali. Gli eletti non avevano una reale autorità, ma erano comunque parte integrante del processo decisionale in molti settori cruciali come l’agricoltura. Soprattutto le elezioni consentirono la formazione di una coscienza di partecipazione civile tra la popolazione. Nei decenni successivi, i taiwanesi assimilarono lentamente la cultura giapponese. I figli dell’élite locale studiarono in Giappone, ma una sostanziale diffidenza nei confronti dell’occupazione coloniale rimase, pur attenuata dall’evidente miglioramento delle condizioni di vita generali. Già dal 1930, il giapponese era diventato la lingua franca per tutti i taiwanesi e in quegli stessi anni il movimento Kōminka iniziò una vasta operazione di trasformazione culturale della società[8]. Molti studi hanno analizzato nel dettaglio l’impatto della presenza giapponese a Taiwan[9]. Le conseguenze della profonda influenza che il Giappone ha esercitato nell’isola sono evidenti e dimostrano come la cultura cinese sia la principale matrice culturale, ma non l’unica e neanche la prima. L’occupazione coloniale giapponese ha migliorato notevolmente la qualità della vita sull’isola, ha reso i taiwanesi una delle popolazioni più istruite dell’Asia all’epoca, ma soprattutto ha costruito il primo tratto di quel confine tra Taiwan e la Cina. Per la prima volta, attraverso le lenti degli storici, degli antropologi e degli etnologi giapponesi[10] Taiwan trova il suo posto nella storia, mentre durante la dinastia Qing l’isola era una mera provincia o una prefettura remota, nulla più di una periferia dell’Impero.

La fine del conflitto e la sconfitta giapponese animarono le speranze taiwanesi d’indipendenza, ma le sorti dell’isola erano già state decise in un incontro al Cairo nel 1943 tra Winston Churchill, Franklin Roosevelt e Chiang Kai-shek. Quando l’imperatore giapponese accettò la sconfitta e si arrese agli Alleati, nel 15 agosto del 1945 Taiwan divenne immediatamente parte della Repubblica di Cina. Le reazioni sull’isola furono contrastanti: c’era un forte legame ideale con la Cina, ma l’occupazione giapponese aveva portato numerosi vantaggi.

Il governo della Repubblica di Cina si insediò ufficialmente nell’isola il 25 ottobre 1945, una festività tuttora celebrata come “la giornata della retrocessione”. Un termine che in mandarino (guāngfùjié: 光復節) ha una valenza molto diversa ed evoca la gloria del ritorno di un territorio perduto. Per la prima volta il nazionalismo, sino ad allora un concetto familiare esclusivamente alle élite dell’isola, entrò prepotentemente nell’immaginario collettivo dei taiwanesi. Nei successivi quattro anni al seguito del KMT arrivarono quasi un milione di cinesi, soldati e funzionari amministrativi, alcuni con le famiglie al seguito. Una dinamica che ha introdotto una nuova divisione sociale nell’isola tra i mainlander (wàishěngrén; 外省人), ossia tutti i cinesi giunti tra il 1945 e il 1949 a Taiwan dalla Cina e il popolo della Provincia (běnshěngrén; 本省人), una nuova classificazione che includeva sia gli aborigeni, sia gli hokkienesi sia gli hakka. I mainlander erano circa il 13% della popolazione dell’isola[11].

Mainlander, sia nella traduzione in mandarino sia in quella hokkienese (gōa-séng-lâng) significa “persone esterne alla Provincia”. La maggior parte delle persone giunte dal continente erano soldati spesso con poca o nessuna istruzione. Pochi parlavano il mandarino e i loro dialetti erano inintelligibili tra loro come l’hokkienese e l’hakka. La creazione di questa identità etnica immaginaria, e il conseguente processo di alterità rispetto agli abitanti dell’isola era basata su categorie inesistenti. Nessuno dei due gruppi possedeva una matrice culturale e linguistica comune e l’unica divisione era definita dal luogo di nascita, (běnjí; 本籍). I resoconti dell’arrivo dei primi soldati dalla Cina sull’isola descrivono la delusione dei taiwanesi nei confronti delle truppe, affamate e denutrite, che sbarcarono a Taiwan. Uno dei paesi tecnologicamente più avanzati del continente si trovò di fatto ad accogliere milioni di profughi e la speranza di trovare un destino comune all’insegna della millenaria cultura cinese si affievolì rapidamente. Sin dall’inizio, fu chiaro che i nuovi arrivati consideravano l’isola di Formosa un semplice avamposto per la riconquista della Cina: tutti coloro arrivati con il Kuomintang avevano lasciato famiglie, parenti, mogli e proprietà al di là dello stretto. Non era solo una lotta all’insegna dell’anticomunismo, ma si trattava di una questione esistenziale di riconquista della propria patria.

Una sollevazione popolare contro l’amministrazione del KMT fu repressa nel sangue nel febbraio e marzo del 1947. Questi eventi diedero il via al periodo del Terrore bianco e alla legge marziale che verrà abolita solo alla fine degli anni Ottanta. Il Kuomintang iniziò anche un processo di sinizzazione con l’obiettivo di purificare la popolazione taiwanese sia dalla cultura giapponese, che in cinquant’anni aveva pervaso ogni aspetto della vita, sia dalle influenze delle rispettive identità etniche. Si tratta dell’ennesimo tassello del processo di elaborazione e conservazione della cultura cinese che avrà luogo nell’isola. Dalla cultura Ming difesa da Koxinga e percepita come originaria rispetto agli invasori mancesi fino all’applicazione del pragmatismo confuciano all’interno del sistema politico più vicino alle democrazie occidentali negli anni Novanta, Taiwan ha protetto, rivisitato e interpretato la cultura cinese grazie alla sua dimensione multiculturale e periferica. L’approccio iniziale alla creazione di un’identità culturale fu esclusivamente incentrato sull’anticomunismo negli anni Cinquanta. Con il Movimento di rinascimento culturale cinese (Zhōnghuá wénhuà fùxīng yùndòng; 中華文化復興運動) promosso negli anni Sessanta dal KMT si elabora una relazione più complessa che individua Taiwan come un laboratorio per preservare la cultura cinese dalle pericolose conseguenze del comunismo in Cina[12].

L’amministrazione giapponese aveva individuato nella popolazione aborigena il principale pericolo al processo di costruzione dell’identità nazionale, considerando sia gli hokkienesi sia gli hakka come assimilabili alla cultura del Sol Levante. L’approccio del KMT fu diametralmente opposto: l’ostacolo maggiore per la conversione alla cultura cinese degli abitanti dell’isola era costituito dal gruppo etnico più numeroso, gli hokkienesi. Si tratta dell’ennesimo processo di marginalizzazione e inclusione di specifici gruppi etnici o linguistici, iniziato con la dominazione olandese, ogni volta declinato attraverso le diverse esigenze del gruppo dominante, ma anche delle diverse interpretazioni ideologiche di nazione. Il processo di sinizzazione avviato da Chiang Kai-shek, impegnato a “riprendere il continente”, mirava a reprimere ogni possibile velleità indipendentistica a Taiwan ma soprattutto a minimizzare lo status di governo in esilio del KMT. Mentre Pechino sosteneva che la liberazione di Taiwan sarebbe stato un elemento necessario per la creazione di una nazione forte. I governi sui due lati dello stretto cercavano di ricostruire, in maniera ideologica, i legami storici e culturali tra Taiwan e la Cina per legittimare le rispettive cause. Gli anni Settanta mutarono il quadro politico in maniera determinante: nel 1971, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite riconosce la Repubblica popolare cinese come l’unico rappresentante legittimo della Cina alle Nazioni Unite e contestualmente la Repubblica di Cina fu espulsa dall’Assemblea.

Da questo momento, il processo di ridefinizione dell’identità nazionale diventò vitale per Taiwan. La delimitazione dei confini culturali e ideologici della Repubblica di Cina, minacciati dal nuovo assetto della politica internazionale, si rivelò un’esigenza primaria per il KMT. L’opposizione al regime di Chiang Kai-shek iniziò a formulare una propria concezione dell’identità taiwanese. Nella definizione dell’attivista Huang Shaotang, l’identificazione con Taiwan diventa l’elemento essenziale al di là del luogo di provenienza o della data di arrivo. Mentre l’intellettuale Peng Ming-min[13], dall’esilio statunitense, sottolineò l’estraneità culturale dell’isola rispetto alla Cina, descrivendo il governo del KMT come un dominio coloniale. Alla morte di Chiang Kai-shek nel 1975, il figlio Chiang Ching-kuo ereditò la posizione a capo del KMT per diventare Presidente della RdC nel 1978. Era una successione programmata da anni e Chiang traghetterà il paese verso le riforme democratiche degli anni Novanta, nominando Lee Teng-hui come suo vice e futuro successore. Le dinamiche all’interno del partito unico divennero molto più fluide, e diverse fazioni e posizioni iniziarono ad apparire all’interno del KMT. La transizione taiwanese verso la democrazia non fu indolore: ci furono molte vittime nel corso degli anni, centinaia di attivisti furono imprigionati con lunghe condanne e la comunità degli esuli al di fuori dei confini crebbe in maniera esponenziale. Tuttavia, se confrontiamo con altri processi di transizione della regione, ad esempio quello sudcoreano, è evidente una sostanziale differenza. Durante un discorso al Comitato centrale del Kuomintang nel 1986, Chiang Ching-kuo parlò apertamente di rimozione della legge marziale, di riforme istituzionali e dell’abolizione dell’interdizione per i nuovi partiti. Chiang era già malato e voleva accelerare il processo di democratizzazione. Inoltre, nel suo discorso, citò tutti i punti evidenziati anni prima dagli attivisti dell’opposizione. Qualche mese dopo, nel settembre 1986, i membri del movimento Tangwai (dǎngwài, 黨外) si riunirono al Grand Hotel di Taipei per fondare il Partito democratico progressista – indicato con la sigla DPP dalla versione inglese Democratic Progressive Party. Una scelta coraggiosa visto che il discorso di Chiang non si era ancora trasformato in azioni concrete, ma il Presidente tenne fede alle sue promesse. Nel 1987 la revoca della legge marziale avviò formalmente il processo di democratizzazione del paese. Proprio in questo momento, le relazioni con le Repubblica popolare cinese aumentarono di complessità, l’interdipendenza economica iniziò a crescere in maniera esponenziale insieme a sentimenti di vicinanza e fascinazione, disprezzo e gelosia, velleità belliche e crescente voglia di stabilire relazioni informali[14].

La politica dei “tre no” – nessun contatto, nessuna negoziazione, nessun compromesso – che aveva determinato l’approccio taiwanese nei confronti dell’ingombrante vicino venne meno. Iniziò così un confronto, spesso negato da entrambe le sponde dello stretto, che determinò in maniera cruciale il futuro dei taiwanesi ma anche l’evoluzione della Repubblica popolare cinese. Nei primi anni Novanta, grazie agli imprenditori taiwanesi, la Cina acquisì il know-how tecnologico. Quando nel 1987 Chiang Ching-kuo e Lee Teng-hui decidono di autorizzare i viaggi da Taiwan alla Cina, per permettere ai veterani ormai ottantenni di visitare per l’ultima volta i propri familiari, gli anziani taiwanesi viaggiarono accompagnati dai figli quarantenni[15]. Una volta superata la delusione per le condizioni socioeconomiche del paese, i taiwanesi compresero immediatamente le grandi potenzialità dell’economia socialista di mercato promossa da Deng Xiaoping. Gli imprenditori taiwanesi sfruttarono le possibilità di una mano d’opera a bassissimo costo, il forte legame culturale, linguistico e talvolta familiare e la vicinanza geografica. In pochi mesi, migliaia di piccole e medie imprese taiwanesi iniziarono a operare nella Repubblica popolare cinese, esportando gli efficienti modelli di produzione delle piccole e medie imprese taiwanesi[16]. Quando, a seguito della repressione delle proteste di piazza Tian’anmen, la presenza delle imprese occidentali in Cina si ridusse notevolmente, le imprese taiwanesi rimasero saldamente presenti nel paese. Una dinamica incoraggiata dal Pcc, consapevole degli enormi vantaggi del trasferimento tecnologico in atto.

Questa è la dinamica più evidente, ma sono molti altri i casi in cui lo scambio economico e culturale tra le due sponde dello stretto è stato essenziale per l’evoluzione di entrambe le società. Ad esempio, per tutti gli anni Novanta e Duemila, il vivace panorama editoriale di Taiwan fornì agli intellettuali cinesi testi e traduzioni introvabili nel paese, alimentando il dibattito sotterraneo in Cina e creando i presupposti per la crescita dell’industria culturale taiwanese. La competizione elettorale con il DPP spinse la forza riformatrice di Lee in maniera ancora più decisa. L’unica maniera per conquistare i voti era quella di cavalcare l’ormai ineluttabile treno delle riforme democratiche. Con l’ascesa al potere di Lee Teng-hui, primo Presidente della Repubblica di Cina nato sul territorio taiwanese, il processo di ridefinizione dell’identità taiwanese prese una nuova inedita spinta. Lee usò la definizione di “comunità di destini condivisi” (shēngmìng gòngtóngtǐ; 生命共同體) per descrivere una comunità politica basata sull’identificazione individuale piuttosto che sui criteri oggettivi imposti dai vincoli etnici, richiamando apertamente il concetto di Gemeinschaft teorizzato da Max Weber e Ferdinand Toennies[17].

L’idea di comunità diventò centrale. Sin dal dopoguerra, il censimento registrava le categorie rispetto al luogo di nascita, indicato anche come casa ancestrale (zǔjí; 祖籍), separando coloro che erano giunti dalla Cina al seguito del KMT. Una distinzione che verrà abolita, mentre i curricula scolastici si iniziarono a concentrare sempre più nella creazione della conoscenza geografica, storica e culturale della nazione taiwanese[18]. Una mobilitazione attraverso il sistema educativo di un “immaginario geografico”[19] coerente per determinare i confini dello Stato con l’isola, in contrasto con la precedente rappresentazione della Repubblica di Cina come legittimo governo della Cina continentale. Si tratta dell’ennesimo tassello della narrazione dell’identità nazionale taiwanese nel sistema educativo del paese. Un percorso che, secondo l’interpretazione di Doong[20], può essere descritta attraverso quattro diverse fasi: dall’identità pan-cinese all’identità culturale cinese fino all’identità di Taiwan per arrivare nei nostri giorni a una identità vaga, contradittoria e polisemica. La definizione dei confini diventò una priorità essenziale, in contrapposizione alle pretese della Rpc negli anni Cinquanta e Sessanta, e l’elemento insulare è sempre più presente nelle rappresentazioni. La cultura taiwanese viene descritta come strettamente legata all’oceano e i suoi abitanti intrinsecamente connessi alla navigazione. Gli elementi del dinamismo commerciale e delle esplorazioni marittime sono presentati come essenziali. Il processo di “taiwanizzazione”[21], iniziato nella metà degli anni Ottanta dal KMT ha trasformato in maniera indelebile il discorso sulla soggettività taiwanese. Nel 2000, il DPP ha vinto le elezioni presidenziali sulla base di questa consapevolezza identitaria, riuscendo a interpretare il cambiamento di egemonia culturale legato alla nazione taiwanese che proprio il KMT aveva promosso anni prima[22].

Numerosi studi empirici hanno tentato una misurazione dell’identità taiwanese, tutti inevitabilmente basati sull’auto identificazione dei singoli intervistati rispetto all’appartenenza nazionale. Le scelte disponibili sono solitamente tra nazionalità taiwanese, cinese o un’appartenenza a entrambe le categorie. Pochi studi hanno analizzato in profondità il significato delle singole categorie e la modificazione dei concetti attribuiti alle differenti definizioni. Cody Wai-kwok Yau[23] ha evidenziato come gli intervistati ritengano cruciale la questione dello status e della sovranità di Taiwan rispetto a quella identitaria. Mentre i giudizi e le opinioni rispetto all’identità nazionale subiscono delle variazioni rispetto alla situazione politica ed economica, l’identificazione con il sistema elettorale democratico rimane invariata nei vari gruppi intervistati.

I taiwanesi sembrano aver sviluppato un’inedita dicotomia tra identità politico-statuale e identità etnoculturale, e molti studiosi hanno descritto come la componente democratica possa essere considerata un elemento costituente dell’identità nazionale taiwanese. Gli intellettuali taiwanesi spesso usano una distinta denominazione per definire il concetto di identità nazionale, rifiutando di adottare il termine “comunità di popolo” (mínzú; 民族). Nell’interpretazione di Xiaokun Song il concetto di volk (mín, 民) è sostituito con quello di Stato (guó; 國) per comporre l’evocativa definizione “identità della comunità statuale” (guózú rèntóng; 國族认同)[24]. Lee Teng-hui nella sua biografia[25] menziona il concetto di nazionalismo con un termine che può essere tradotto come “statualismo” (guójiāzhǔyì; 國家主义) o “ideologia dello stato”. Michael J. Cole descrive il processo di costruzione dell’identità taiwanese come profondamente influenzato da un “nazionalismo civico”[26], basato su un riconoscimento di valori condivisi legati al sistema democratico del paese, rispetto a un’appartenenza etnica. Mentre Shelley Rigger evoca il “patriottismo costituzionale”[27] di Habermas per descrivere il percorso di Taiwan come quello di “uno Stato che evita l’identificazione con una nazione, ma sottolinea, invece, la sua virtù politica”[28]. L’evoluzione della nazione taiwanese non è riferibile in maniera esclusiva alla contrapposizione con la Repubblica popolare cinese e non può essere definita come un percorso eterodiretto verso un’identità multietnica. Così come l’approccio taiwanese nei confronti della Repubblica popolare cinese non può essere poi descritto in termini esclusivamente emotivi, vari studi evidenziano come sia le scelte elettorali sia le dinamiche identitarie sono fortemente influenzate dal razionalismo politico[29]. Le relazioni sino-taiwanesi, così come il processo di costruzione dell’identità nazionale a Taiwan, possono essere analizzate attraverso la continua revisione ideologica del concetto di nazione tra le due sponde dello stretto, una dimensione che comprende numerosi aspetti culturali, politici, psicologici, commemorativi, economici e militari[30]. Alcune di queste dimensioni avvicinano Taiwan e la Cina, mentre altre le tengono distanti. Si tratta di una dinamica di attrazione e repulsione, che è anche una situazione di distanza e prossimità. Stéphane Corcuff definisce questa relazione come un’interdipendenza asimmetrica[31], in cui la piccola entità ha qualcosa da dire nella coppia formata con l’entità più grande, grazie allo spessore storico e culturale della loro relazione geopolitica nel tempo. Un’interdipendenza che è economica ma anche strategica, in quanto lo Stato egemone non può esercitare il suo potere, ossia la forza, per ragioni legate alle strategie globali. Soprattutto Taiwan è anche un limes che riflette le complessità, e talvolta le fragilità, della Repubblica popolare cinese, non esclusivamente un soggetto che subisce le azioni dell’attore egemonico. Il tema identitario è centrale all’interno di queste considerazioni, perché lo Stato egemone può esercitare una serie di pressioni per limitare l’azione politica dello Stato minore in campo internazionale. I processi di esclusione di Taiwan dalle riunioni delle varie agenzie delle Nazioni Unite, come Oms e Icao, dopo l’elezione di Tsai Ing-wen nel 2016, e la pressione di Pechino sugli alleati diplomatici di Taipei, sono evidenti. Tuttavia, queste pressioni non riescono a generare dei cambiamenti sostanziali all’interno delle relazioni tra i due paesi ma, secondo alcuni studi, sono il principale propulsore dell’allontanamento dei taiwanesi dall’influenza di Pechino[32]. Quindi, le uniche azioni possibili per lo Stato egemone, esclusione diplomatica e isolamento in campo internazionale, non riescono a incidere sul processo dialogico tra le due sponde dello stretto, ma creano i presupposti per la creazione di un’identità nazionale taiwanese sempre più forte.

Il processo dell’evoluzione dell’identità taiwanese non può esclusivamente essere spiegato attraverso una lettura incentrata sul concetto di sovranità e su una chiara definizione dei confini che delimitano gli spazi identitari, ossia una distinzione tra interno ed esterno, o tra noi e loro, definita in maniera univoca. Oppure in un’interpretazione basata sulla ricerca di un senso di identità collettiva e di una produzione attraverso diversi elementi di una storia e un destino comune[33]. Le dinamiche di delimitazione tra i gruppi etnici sono sempre legate ai processi di costruzione dell’identità nazionale, ma il caso taiwanese è peculiare perché i confini tra diaspora e nazione sono mutati con frequenza e in maniera molto rapida.

Il ruolo, praticamente unico al mondo, di Taiwan come entità autonoma all’interno della comunità internazionale, è evidentemente un’imposizione ma anche una dimensione statuale che consente inedite proiezioni. Tutti le ricerche e i sondaggi legati alla percezione dell’identità nazionale nell’isola mostrano come le giovani generazioni considerano oggi Taiwan un’entità politica individuale. Il processo di formulazione dell’identità connessa a questa entità è tuttora in corso e sinora ha delineato uno scenario unico, con una identità nazionale pluralistica che riesce a superare i rigidi vincoli geostrategici della regione senza perdere la coerenza narrativa. L’evoluzione identitaria del limes taiwanese sarà cruciale non solo per i quasi 24 milioni di abitanti dell’isola, ma anche per comprendere il futuro significato della Cina nel mondo.

 


[1] Anne Campbell,“ Cultural identity as a social construct”, Intercultural Education 11 (2000) 1: 31-39; Rudolf De Cillia, Martin Reisigl e Ruth Wodak, “The discursive construction of national identities”, Discourse & Society 10 (1999) 2: 149–73.

[2] Serge Moscovici, “Notes towards a description of social representations”, European Journal of Social Psychology 18 (1988) 3: 211-250.

[3] Stéphane Corcuff usa il termine “liminale” per descrivere la posizione di Taiwan in alternativa al termine “marginale”, una locuzione che non connota né uno stato transitorio né uno stato subordinato. Piuttosto, suggerisce una soglia geopolitica per un particolare tipo di entità governativa, differenziando così un organo governativo dalla categoria dello Stato-nazione comunemente inteso. Cfr. Stéphane Corcuff, “The liminality of Taiwan: a case-study in geopolitics”, Taiwan in Comparative Perspective 4 (2012) 42: 34-63.

[4] Recenti studi hanno suggerito un percorso inverso rispetto a questa interpretazione. La teoria, proposta da studiosi, evidenzia la possibilità che Taiwan sia la patria ancestrale dei popoli austronesiani. Sull’argomento si confronti, tra gli altri: Albert Min-Shan Ko, Chung-Yu Chen, Qiaomei Fu, Frederick Delfin, Mingkun Li, Hung-Lin Chiu, Mark Stoneking e Ying-Chin Ko, “Early Austronesians: into and out of Taiwan”, The American Journal of Human Genetics 94 (2014) 3: 426-436.

[5] Yu Yonghe, “Bìhǎi jìyóu” [I diari di viaggio dal piccolo mare], in Táiwān wénxiàn cóngkān [Enciclopedia di Taiwan] 44 (1959) cit. da Emma Jinhua Teng. Taiwan’s imagined geography: Chinese colonial travel writing and pictures, 1683-1895 (Cambridge: Harvard University Press, 2009), 1.

[6] Tonio Andrade, How Taiwan became Chinese: Dutch, Spanish, and Han colonization in the seventeenth century (New York: Columbia University Press, 2010).

[7] Emma Jinhua Teng. Taiwan’s imagined geography: Chinese colonial travel writing and pictures, 1683-1895 (Cambridge: Harvard University Press, 2009), 3

[8] Cfr. tra gli altri: Huan-Sheng Peng e Jo-Ying Chu, “Japan’s colonial policies – from national assimilation to the Kominka Movement: a comparative study of primary education in Taiwan and Korea (1937–1945)”, Paedagogica Historica 53 (2017) 4: 441-459.

[9] Cfr. tra gli altri Andrew D. Morris (a cura di), Japanese Taiwan: colonial rule and its contested legacy (Londra: Bloomsbury Academic, 2015); Ping-Hui Liao e David Der-Wei Wang (a cura di), Taiwan under Japanese colonial rule, 1895-1945: history, culture, memory (New York: Columbia University Press, 2006).

[10] Matsuda Kyōko, “Inō Kanori’s history of Taiwan: colonial ethnology, the civilizing mission and struggles for survival in East Asia”, History and Anthropology 14 (2003) 2: 179-196.

[11] Simon Scott, “Taiwan’s mainlanders: a diasporic identity in construction”, Revue Européenne des Migrations Internationals 22 (2006) 1: 87.

[12]Wang Shou-Nan, “Chiang Kai-Shek and the promotion of the Chinese Cultural Renaissance Movement”, Chinese Studies in History 21 (1987) 2: 66.

[13] Peng Ming-min, A taste of freedom: memoirs of a Formosan independence leader (New York: Holt, Rinehart and Winston, 1972).

[14] Stéphane Corcuff, “The liminality of Taiwan: a case-study in geopolitics”, Taiwan in Comparative Perspective 4 (2012) 45

[15] Shelley Rigger, Why Taiwan matters: small island, global powerhouse (Lanham: Rowman & Littlefield. 2014), 119.

[16] Il modello industriale taiwanese delle piccole e medie imprese presenta molte similitudini con quello dei distretti industriali italiani. Diversi studi hanno affrontato l’argomento, per approfondimenti cfr. tra gli altri: Paolo Guerrieri e Carlo Pietrobelli, “Old and new forms of clustering and production networks in changing technological regimes: contrasting evidence from Taiwan and Italy”, Science, Technology and Society 11 (2006) 1: 9–38.

[17] Christopher R. Hughes, Taiwan and Chinese nationalism: national identity and status in international society (Londra: Routledge, 1997), 98.

[18] Yu-Chih Li, “Negotiating imagined community in national curriculum: the Taiwanese case”, The International Education Journal: Comparative Perspectives 18 (2019) 1: 80-92.

[19] David Harvey, “The sociological and geographical imaginations”, International Journal of Politics, Culture, and Society 18 (2005) 3/4: 211–255.

[20] Shiow-Lan Doong, “Wandering souls: The swing and challenge of education for national identity in Taiwan’s elementary and secondary schools”, Journal of Basic Education 17 (2008) 2: 47–75.

[21] Bi-yu Chang, “From taiwanisation to de-sinification”, China Perspectives 56 (2004): 11-12.

[22] Dafydd Fell, Party politics in Taiwan: party change and the democratic evolution of Taiwan, 1991-2004 (Londra: Routledge, 2005).

[23] Yau Cody Wai-kwok, “The meaning of Taiwanese: conceptualizing the components of Taiwanese national identity”, Electoral Studies 23 (2016) 2: 1-54.

[24] Xiaokun Song, Between cvic and ethnic: the transformation of Taiwanese nationalist ideologies (1895–2000) (Bruxelles: Vubpress, 2009), 63.

[25] Lee Teng-hui, Táiwān de zhùzhòng [La prospettiva di Taiwan], (Taipei: Yuanliu Publishing Co., 1999).

[26] Michael J. Cole, Black island: two years of activism in Taiwan (Charleston: Create Space, 2005), 8.

[27] Il filosofo Jürgen Habermas ha reso popolare il concetto di “patriottismo costituzionale”. Il concetto, spiegato da Jan-Werner Müller nel volume dedicato al tema Constitutional Patriotism, prevede che il coinvolgimento politico dei cittadini, le loro scelte elettorali ma anche le dinamiche identitarie siano incentrate sulle norme, i valori e, più indirettamente, sulle procedure di una costituzione democratica liberale. Jan-Werner Müller, Constitutional patriotism (Princeton: Princeton University Press, 2007).

[28] Shelley Rigger, “Nationalism versus Citizenship in the Republic of China on Taiwan” in Changing Meanings of Citizenship in Modern China, a cura di Merle Goldman e Elizabeth J Perry (Cambridge: Harvard University Press, 2002), 354.

[29] Chi-hung Wei e Christina J. Lai, “Identities, rationality and Taiwan’s China policy: the dynamics of cross-strait exchanges”, Asian Studies Review 41 (2017) 1: 136-154.

[30] Carl K. Shaw, “Modulations of nationalism across the Taiwan Strait” Issues & Studies 28 (2002) 2: 122-147.

[31] Stéphane Corcuff, “The liminality of Taiwan: a case-study in geopolitics”, Taiwan in Comparative Perspective 4 (2012): 62.

[32] Yang Zhong, “Explaining national identity shift in Taiwan”, Journal of Contemporary China 25(2016) 99: 336-352.

[33] Per una completa ricognizione dell’evoluzione del concetto di identità nazionale taiwanese e delle varie prospettive teoretiche applicate cfr. tra gli altri: Mark Harrison, Legitimacy, meaning and knowledge in the making of Taiwanese identity (New York: Palgrave Macmillan, 2006); A-chin Hsiau, Contemporary Taiwanese cultural nationalism (Londra e New York: Routledge, 2000).


 

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