[LA RECENSIONE] Aspettando la fine della guerra: lettere dei prigionieri cinesi nei campi di concentramento fascisti

Daniele Brigadoi Cologna, Aspettando la fine della guerra: Lettere dei prigionieri cinesi nei campi di concentramento fascisti (Roma: Carocci, 2019).

Non è facile recensire su queste pagine un libro di Daniele Brigadoi Cologna senza doversi ripetere. Non è semplice, perché i lettori di OrizzonteCina conoscono già la verve intellettuale, il rigore analitico e la passione civile del titolare della rubrica “Cinesi-Italiani”, sinologo dell’Università dell’Insubria e research fellow a T.wai. Eppure, la storia che racconta in Aspettando la fine della guerra è davvero unica, per molto tempo dimenticata, e svela l’origine dei suoi studi sinologici, nonché – come sottolinea nella prefazione Alessandra C. Lavagnino – “quella che oggi forse possiamo definire come la leggenda/il mito fondativo che sta all’origine dell’attuale componente cinese del nostro paese” (p. 13).

All’inizio del Novecento iniziarono ad arrivare in Europa dalla provincia dello Zhejiang, e in particolare dalla fervente città portuale di Wenzhou, i primi cinesi, per partecipare alle fiere internazionali che caratterizzarono la belle époque del nostro continente, inclusa l’esposizione universale di Milano del 1906. L’emigrazione cinese in Italia è riconducibile a un’area geograficamente molto circoscritta: l’entroterra montuoso di Wenzhou, e in particolare il distretto di Qingtian. Apprendiamo così che in questa regione sono diffuse le cave di pirofillite, pietra simile alla giada ma “più morbida e facile da lavorare” (p. 21), che gli abili artigiani del luogo sapevano trasformare in “cineserie” ricercatissime dalla nascente classe europea affascinata dall’esotico Oriente.

Nel 2011 – ricorda Brigadoi Cologna – vi erano stabilmente 826.095 cittadini cinesi nell’Unione europea, e di questi 197.064, pari al 23,8% del totale, risiedevano in Italia. In massima parte, sono ancora riconducibili alle terre della prima emigrazione, poiché storicamente “emigrava solo chi aveva contatti – preferibilmente vincoli di consanguineità (lignaggio), parentela acquisita o compaesaneità – con chi era già emigrato” (p. 48). Il flusso più consistente si verifica tra il 1924 e il 1936, spesso proveniente dalla Francia e dalla Germania, mano a mano che questi paesi approvano norme restrittive per la permanenza degli stranieri cinesi. In seguito alle violenze esplose in Giappone nei confronti di coreani e cinesi dopo il terremoto del Kantō (1923), gli emigrati nel Sol Levante tornano per un breve periodo a Wenzhou, da cui ripartono – questa volta con destinazione l’Europa – tra il 1925 e il 1926. A Milano e a Torino svolgono l’attività di venditori ambulanti di perle finte (importate da Shanghai via Parigi), cravatte di seta, articoli di finta pelle, generalmente acquistati in conto vendita. Alcuni di loro avviano poi un’attività imprenditoriale più ampia.

Ed è a questo punto che l’autore affronta l’argomento centrale del volume: la ricostruzione meticolosa, attraverso una ricerca storica, socio-etnografica e linguistica, di un doloroso – ma trascurato – episodio del regime fascista: l’internamento dei cittadini cinesi nei campi di concentramento di Tossicia e di Isola del Gran Sasso in provincia di Teramo, e di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza. Alcuni vennero anche deportati, per punizione, a Ustica e alle Isole Tremiti. Brigadoi Cologna parte dagli archivi di Milano, ma presto comprende che troverà la risposta alle sue domande solamente “sul campo”. Frequenta gli archivi civici delle due località abruzzesi, e l’archivio dei padri passionisti presso la Basilica di San Gabriele a Isola (il campo si trovava presso il “Camerone” della basilica, un tempo riservato ai pellegrini). Va a Roma, e consulta il Fondo direzione generale di pubblica sicurezza del Ministero dell’interno presso l’Archivio centrale dello Stato. Vola in Cina, per collaborare con il centro di documentazione della Federazione degli emigranti rimpatriati di Qingtian. Accede infine al Fondo relativo all’Indagine sui danni di guerra subiti dai connazionali emigrati in Italia degli archivi dell’Istituto di storia moderna dell’Accademia sinica a Taipei. Quest’ultimo, in particolare, si rivela “una vera «stele di Rosetta», la chiave per decodificare le identità e le biografie di tutti – o quasi tutti – i cinesi presenti in Italia alla fine della Seconda guerra mondiale” (p. 44).

Grazie a una scrupolosa analisi filologica, l’autore identifica 168 dei circa 260 (su un totale di 450 residenti, pari a più del 60% del totale dei residenti) cinesi internati in Italia tra il 1940 e il 1945, ricostruendone il nome originale (spesso travisato da approssimative traslitterazioni e trascrizioni), la data e il luogo di nascita, e il numero di matricola nei campi. Certo, la storia avrebbe potuto prendere un’altra piega: nel 1928, il Regno d’Italia e la Repubblica nazionale di Cina firmano il trattato di amicizia e di commercio, che dà vita – tra il 1932 e il 1935 – a una sorta di “idillio” sino-italiano, suggellato dall’accreditamento diplomatico del genero di Mussolini, Galeazzo Ciano. Poi, la conquista italiana dell’Abissinia e l’invasione giapponese in Manciuria allontanano la Cina dall’Italia, che nel 1937 riconosce lo stato fantoccio del Manzhouguo, preludio alla rottura delle relazioni diplomatiche nel 1941. Ma già all’indomani della creazione dell’Asse Berlino-Roma-Tokyo, il 27 settembre 1940, scattano le prime operazioni di rastrellamento a Milano e poi in tutta Italia, con una decisa accelerazione degli internamenti a partire dal 1941, quando l’Italia riconosce ufficialmente il governo collaborazionista di Wang Jingwei. Alla fine della guerra, alcuni di essi tornano in Cina, mentre altri rimangono per continuare l’epopea dei cinesi d’Italia.

Brigadoi Cologna presenta infine sei lettere degli internati, intercettate dalla censura. Le riproduce, le traduce, le confronta con la traduzione ufficiale, le analizza per provare a svelarne il traduttore, a interpretare la ragione, il contesto di provenienza e il sentimento di chi scrive. Di particolare interesse – direi quasi antropologico – sono le lettere di critica a Padre Tchang, il prete cattolico forse più interessato ad aiutare i convertiti del campo che gli internati in quanto tali. Così, alla fine, il libro interessa particolarmente i linguisti, gli storici, i filologi, ma soprattutto trascina e coinvolge il lettore generico in una dimensione più alta e meno specialistica, avendo l’autore la rara capacità di dare vita ai luoghi e alle persone descritti, con un’empatia per i perdenti della storia che ci interroga sul presente e futuro modo di intendere la cittadinanza nel nostro paese.


 

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