Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina Roma, L’Asino d’oro, edizione riveduta e aggiornata 2014
Con quale diritto una civiltà si ritiene superiore alle altre? In base a quali canoni? Chi è il barbaro? Se alla fine della lettura di Italia e Cina – il libro che Giuliano Bertuccioli (scomparso nel 2001 dopo una lunga carriera come diplomatico e docente di lingua e letteratura cinese) e Federico Masini (docente di lingua e letteratura cinese alla Sapienza) pubblicarono nel 1996 e che oggi viene riproposto in edizione riveduta e aggiornata – queste domande sorgono spontanee, è perché il testo ha il merito di collocare la storia dei rapporti tra Italia e Cina dall’epoca romana fino al 1911 all’interno del più ampio contesto delle relazioni tra Cina e Occidente europeo. L’Italia, grazie a un insieme di fattori – la presenza dello stato della Chiesa, l’assenza di una forte identità nazionale, l’arretratezza economica relativa – ha vissuto meno occasioni di scontro con la Cina imperiale, rispetto ad altre potenze europee, e ciò la rende più forte nella costruzione di “ponti” culturali, ma paradossalmente più debole in un mondo in cui Pechino sembra invece comprendere bene (e accettare come terreno negoziale) la logica della politica di potenza.
Il libro inizia dal “mancato incontro” tra cinesi e romani (malgrado la leggenda, ormai sfatata, delle origini romane della città di Liqian), attraversa il periodo del “primo incontro” nell’epoca della “pax mongolica” che rese possibile percorrere la via della seta – incontriamo così, oltre a Marco Polo, personaggi meno conosciuti come il francescano Giovanni de’ Marignolli, legato papale che arrivò a Pechino nel 1342 – e giunge all’età dell’oro del “secondo incontro” che vede protagonista una “generazione di giganti” gesuiti che trascorrono molti anni alla cinquecentesca corte dei Ming: “astronomi, matematici, geografi, teologi, filosofi, pittori, musicisti, esperti in idraulica, esperti in balistica (…); capaci di calcolare una eclissi come di fondere un cannone, di disegnare una carta geografica come di costruire una sfera armillare; autori di opere in lingua latina per far conoscere la Cina agli europei e di opere in lingua cinese per far conoscere l’Europa ai cinesi” (p. 94). Scorrono davanti a noi, oltre a Matteo Ricci (Li Matou), Giulio Aleni (autore di un’influente Geografia dei paesi stranieri alla Cina, ripubblicata di recente a Brescia), Martino Martini. La scelta gesuita di rivestire di riti e costumi cinesi la cultura, la scienza e la religione occidentale da un lato contribuisce a creare il mito, che resiste ancora oggi, di figure eccezionali, ma d’altro canto non attenua le incomprensioni sul fronte della fede: “Le teorie [dei letterati] dell’Estremo Occidente sono indubbiamente superiori a tutte le altre dottrine. Purtroppo, allorché essi parlano del Signore del Cielo, il loro discorso si fa inelegante e volgare fino ad arrivare a delle assurdità quali nessun letterato direbbe mai” (Zhang Cao, circa 1650, citato a p. 102).
Mentre sale al potere la dinastia Qing, anche il dominio dei gesuiti nel rapporto con la Cina svanisce: francescani e domenicani li osteggiano attivamente per la questione dei riti (un fenomeno di “inculturazione missionaria” ante litteram), e lasciano il campo al “terzo incontro” nell’era di papi e imperatori (ma si potrebbe meglio dire di raffinati intellettuali) che registra allo stesso tempo gli albori della sinologia italiana (con la fondazione del Collegio di Napoli) e le prime voci di critica e disprezzo per la Cina (Vico e Baretti sono gli esponenti di punta della corrente intellettuale che si oppone alla celebrazione della civiltà cinese da parte di Voltaire).
Poi arriva l’Ottocento, ed entra in scena l’egemone dell’era moderna: l’Inghilterra. Non solo la potenza economica dell’impero britannico oscura qualsiasi velleità italiana (si ricorda l’episodio della baia di Sanmen del 1899, che causò una crisi di governo), ma gli inglesi adottano anche una differente strategia di proselitismo che mette in crisi il tradizionale approccio cattolico in Cina: mentre i gesuiti “avevano preferito rivolgersi alle classi più agiate e colte delle grandi città di Nanchino e Pechino (…), i protestanti si impegnarono nella evangelizzazione degli strati più bassi della popolazione” (p. 176). Tra il Seicento e l’Ottocento cambia in questo modo anche la percezione della Cina in Occidente, a tutto svantaggio dell’esercizio di quel poco di “soft power” che l’Italia (o meglio, lo stato della Chiesa) aveva diffuso in Cina: “la Cina non era più un Paese da ammirare e celebrare, bensì da redimere con il commercio e l’evangelizzazione” (p. 184). Divisi dal concetto di potenza, cinesi ed occidentali non si comprendono più: “Gli occidentali consideravano barbari i cinesi per la protervia con cui trattavano la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, mentre per i cinesi gli occidentali erano barbari in quanto non si rendevano conto che avevano a che fare con il più antico e potente impero del mondo” (p. 188).
La fragilità dell’Italia nei rapporti con la Cina viene quindi da lontano: storicamente più interessato ai rapporti culturali veicolati dall’universalità del messaggio cristiano, economicamente e politicamente troppo debole per gareggiare ad armi pari con le altre potenze coloniali per l’influenza sulla Cina, il nostro paese è arrivato pure tardi nella comprensione del boom economico cinese degli ultimi decenni. Se però in cinese semplificato l’Italia è il “Paese delle idee”, e in mandarino classico è il “Paese della giustizia”, forse c’è spazio per rivestire un ruolo specifico nel contesto geoeconomico e geopolitico che vede le grandi potenze in gara per acquisire prestigio e ricchezza negli affari con Pechino. A patto di non lasciarsi trascinare dai pregiudizi (cui è dedicato il capitolo finale), e di non definire barbaro chi semplicemente rappresenta l’altro da sé: l’unico barbaro resta colui che non riesce a trasformare lo scontro potenziale in un incontro ricco di opportunità.
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