Poco più di dieci anni fa la Cina ratificava la “Convenzione di Palermo” (United Nations Convention against Transnational Organized Crime, Untoc), ad oggi l’unico trattato globale finalizzato alla prevenzione e al contrasto della criminalità organizzata transnazionale.
Già molti anni prima della ratifica di questo trattato nel settembre del 2003, il Partito-Stato cinese si era reso conto che, in parallelo alla crescita economica, anche il fenomeno mafioso aveva assunto proporzioni via via più importanti. Le riforme di Deng Xiaoping, inevitabilmente, avevano aperto la strada non solo a un più libero commercio di beni e servizi, ma anche a sempre più ramificati traffici illegali in Cina e con il resto del mondo. Varie forme di criminalità organizzata avevano rapidamente preso piede, esprimendosi talora in forme violente: il numero di reati – anche in ambito economico – è in costante crescita in Cina, sebbene rimanga tuttora inferiore a quello registrato per alcuni paesi occidentali (a partire dagli Stati Uniti). Pur in assenza di statistiche pienamente affidabili, osservatori qualificati paventano un tasso di crescita dei profitti legati alle attività della criminalità organizzata superiore alla crescita media annua del Pil cinese.
Azioni di repressione sono state intraprese da parte della polizia sin dagli anni ‘80 del secolo scorso; ad esse si sono poi associate con cadenza quasi annuale campagne di contrasto chiamate yan da (严打) o da hei (打黑), articolate in due fasi. In una prima, vengono mobilitati un grande numero di agenti della pubblica sicurezza, spesso accompagnati da agenti della polizia di frontiera e paramilitari, allo scopo di eseguire retate di cui sono in genere vittima un alto numero di criminali o sospetti tali. Nella seconda fase, fermati e arrestati vengono sottoposti a una sorta di giustizia sommaria con processi veloci, il frequente ricorso alla tortura o maltrattamenti (per lo meno fino all’adozione del nuovo codice di procedura penale nel 2012, che formalmente li abolisce) e alla pena di morte. Questa tattica ha finora prodotto gli effetti desiderati. Gli apparati addetti alla pubblica sicurezza infatti riescono a tenere sotto controllo la criminalità comune, etichettata come “forze del Male” (e shi li, 恶势力). Ed è questo successo che permette al cittadino di Pechino o di Shanghai, così come al turista comune o alla vasta comunità di stranieri residenti, di sentirsi – e di essere in effetti – molto più al sicuro che a Milano, Roma o Parigi.
L’obiettivo che gli apparati preposti alla pubblica sicurezza non sono però riusciti ancora a raggiungere è il contenimento della criminalità organizzata vera e propria, quella che noi chiameremmo mafia, ma che i cinesi chiamano “società nere” (hei shehui, 黑社会), o triadi (san he hui, 三合会) quando i criminali sono originari di Hong Kong, Taiwan e Macao. Queste organizzazioni criminali, potenti e pericolose, pur essendo costitutive del fenomeno comunemente noto come “mafia cinese” in realtà differiscono dalla “mafia” intesa nell’accezione italiana principalmente perché non hanno una struttura gerarchica con al vertice un capo assoluto e non hanno come obiettivo il controllo del territorio.
Come risultato di questa incapacità di repressione da parte delle autorità, oggi la criminalità organizzata cinese genera immensi profitti da attività illecite che vanno dalla prostituzione al gioco d’azzardo, dal contrabbando di migranti e beni contraffatti, al traffico di persone, droga, armi, organi e specie protette, fino al riciclaggio di denaro. Stime precise sui profitti della mafia cinese mancano, ma se si fa riferimento a fonti Onu secondo cui il 2,7% del prodotto interno lordo globale è costituito da denaro riciclato, questo equivarrebbe in proporzione a 1,35 trilioni di yuan in Cina (222 miliardi di dollari Usa) all’anno. Nei confronti di questo tipo di criminalità la polizia cinese si trova in grave difficoltà, come del resto le polizie di molti altri paesi. Da una parte, non ha più gli strumenti che le avevano permesso nei primi anni Cinquanta di eradicare con la forza sia la criminalità comune sia quella organizzata e di cancellare i tre vizi capitali della Cina prima della proclamazione della Repubblica popolare cinese (Rpc): prostituzione, gioco d’azzardo e abuso d’oppio. I pochi criminali superstiti presero infatti la via di Hong Kong, Taiwan, Macao e in certa misura si spostarono anche oltremare, salvo tornare negli anni Ottanta. Mao Zedong aveva conseguito questo successo concedendo poteri pressoché assoluti alla polizia, mobilitando le masse su vasta scala, e permettendo esecuzioni sommarie. Oggi invece, la corruzione endemica tra la polizia a livello locale, il numero di forze di polizia esiguo in rapporto alla popolazione e lo scarso addestramento indeboliscono ulteriormente e in misura grave l’azione delle autorità preposte – in modo particolare quella del Ministero della Pubblica sicurezza.
Tre sono le misure principali che il governo cinese dovrebbe attuare con maggiore incisività per mettere un freno a una situazione che rischia di sfuggire di mano. In primo luogo, dovrebbe rendere più efficace la cooperazione internazionale, sia a livello bilaterale sia attraverso l’Interpol. In particolare, i ministeri responsabili devono offrire pronta cooperazione anche in quei casi giudiziari e in quelle indagini di polizia in cui non ci sia un preminente interesse cinese. In secondo luogo, il governo dovrebbe accelerare il lavoro di adeguamento della legislazione nazionale alle previsioni della Convenzione di Palermo, e fare progressi nella negoziazione di nuovi accordi specifici di cooperazione anti-mafia. Un’azione su questi due fronti permetterebbe alla Cina di aggredire sia i flussi di denaro sporco che vanno dalla Cina all’estero come proventi della criminalità organizzata attiva in madrepatria, sia quelli diretti verso la Cina come proventi della criminalità cinese d’oltremare, che ha fatto delle varie Chinatown le proprie basi di operazione e fonti di arricchimento, anche attraverso lo sfruttamento dei cinesi emigrati.
Tuttavia, la misura più efficace per stroncare questo fenomeno è continuare l’attuale campagna anti-corruzione – lanciata inizialmente da Hu Jintao e proseguita con maggior vigore da Xi Jinping – al fine di privare il crimine organizzato della protezione politica di cui gode a livello locale e che permette ai vari gruppi criminali non solo di aumentare le possibilità di profitto, ma anche di evitare la sanzione penale. Il Partito comunista cinese lo sa bene, ed è anche per questo motivo che sta portando avanti con un’intensità crescente la campagna anti-corruzione. Si può persino ipotizzare che uno degli obiettivi strategici (impliciti) di questa campagna sia proprio la lotta anti-mafia.
Ed è per questo che non è nel solo interesse della Cina che le misure anti-corruzione in atto abbiano successo. Un loro fallimento porterebbe al rafforzamento di organizzazioni che traggono i loro proventi da attività prevalentemente a carattere transnazionale, con conseguenze negative di lungo termine per molti paesi sia in Nord America che in Europa, soprattutto per quelli – come l’Italia – in cui le istituzioni sono più deboli.
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