Elisa Giunipero (a cura di), Un cristiano alla corte dei Ming. Xu Guangqi e il dialogo interculturale tra Cina e Occidente, Guerini e Associati, Milano 2013
Qualcuno ricorderà il senso di spaesamento che pervade “Giorni in Birmania” di George Orwell, in cui il protagonista John Flory, giovane funzionario coloniale britannico, si trova in mezzo al guado tra una civiltà a cui appartiene ma che sente sempre meno sua – avendone sperimentato il lato oscuro nella proiezione imperiale – e la cultura nativa, a cui non potrà mai appartenere ma che gli tocca le corde dell’anima come ormai il ricordo della madrepatria non è più in grado di fare. A volte personaggi di questo genere diventano passeurs, “figure che (…) si collocano tra due mondi, assumendo in se stessi la sofferenza generata dalla distanza che separa tali universi” (p. 32-33), come ricorda Andrea Riccardi nel suo saggio inserito in questo volume collettaneo che raccoglie la rielaborazione degli interventi presentati a un convegno tenutosi a Napoli nel 2011 su “Oriente e Occidente. La via dell’intercultura e la figura di Xu Guangqi”. Quando la sofferenza si fa lacerazione, il senso di fallimento pervade l’azione di uomini e donne spinte dal loro grande coraggio più in là di quanto i loro contemporanei osassero fare (“sono originali fuori dal tempo o geni che intuiscono il futuro e aprono strade?”): non a caso lo stesso Riccardi cita un passo di un passeur del calibro di Lawrence d’Arabia: “… lo sforzo di anni per vivere come gli arabi e imitare la loro mentalità, mi spogliò della mia personalità inglese, e mi mostrò l’Occidente e le sue convinzioni sotto un aspetto nuovo – che lo distrusse completamente ai miei occhi. Ma allo stesso tempo non seppi arabizzarmi completamente; la mia era soltanto un’affettazione. È facile per un uomo diventare un infedele; difficile convertirsi a una fede nuova. Mi ero spogliato di una forma senza assumerne un’altra…” (p. 39). Sembra però che questo destino sia stato risparmiato a Xu Guangqi (1562-1633), forse perché “i passeurs cristiani sono animati (…) da un universalismo particolare che è superare i confini dei mondi, integrarli con una prospettiva di fede e di unità della famiglia umana” (p. 39).
Intellettuale, matematico, astronomo, agronomo, Xu Guangqi opera nell’ultima fase della dinastia Ming e, in seguito alla conversione al cattolicesimo (sarà battezzato con il nome di Paolo), divenne – secondo la definizione di Matteo Ricci – la “magior colonna” del cristianesimo nella Cina dell’epoca. La ragione del rinnovato interesse degli studiosi attorno alla figura di Xu Guangqi è molto chiara: proprio nel 2011 la diocesi di Shanghai è stata autorizzata dalla Santa Sede ad avviare la sua causa di beatificazione, accanto a quella, già intrapresa, di Matteo Ricci, che Xu conobbe a Pechino, tra il 1604 e il 1607, diventando entrambi “intimi amici e maestri l’uno dell’altro” (come recita il titolo del saggio di Wang Meixiu) e giungendo a tradurre insieme i primi sei libri degli Elementi di Euclide. Il volume intende quindi rileggere a 360 gradi la figura di Xu: in effetti, come emerge dalla ricchissima storiografia contenuta nel testo, per molto tempo la conversione e l’identità cattolica di Xu sono state trascurate, o addirittura volutamente nascoste, preferendo evidenziare invece il suo appassionato tentativo, attraverso la scienza agraria, di aiutare lo Stato a risollevare le proprie sorti, ormai scricchiolanti all’ombra del declino dei Ming. Xu scrisse anche un Discorso non-convenzionale sulla difesa marittima, con l’obiettivo di risolvere il problema dei pirati giapponesi, e le Tecniche idrauliche del Grande Occidente, in cui la scienza e la teologia non sono concepite come alternative inconciliabili, ma in grado di procedere di pari passo, per salvare insieme corpo e anima dell’uomo (un tema caro al pontificato di Benedetto XVI).
Xu vedeva nel cattolicesimo un “completamento del confucianesimo”, perché l’ordine morale dell’universo si poteva accompagnare a una divinità che dava senso alla morte, mentre la religione occidentale rafforzava a sua volta il senso morale dell’agire sociale, vera essenza del confucianesimo. Ed era questo atteggiamento che portava Xu, sulla scia peraltro di quanto riteneva lo stesso Ricci, a scagliarsi contro il buddismo e il taoismo, viste come religioni senza divinità, e pertanto vacue: questo dibattito è anche al centro delle persecuzioni di Nanchino di fine dinastia Ming (1368-1644). Nel rispetto dei rituali e nell’impegno per la collettività – come sottolinea Donatella Guida nel suo saggio – Xu trovava una dimensione consona alla sua cultura di provenienza, che gli permetteva di essere cinese e cattolico senza che le due dimensioni (nazionale e spirituale) si negassero a vicenda: in ciò, riteneva di avere trovato la chiave per l’armonia del mondo. Quella stessa armonia, paradossalmente, di cui l’uomo contemporaneo sembra non riuscire più a fare esperienza nel cristianesimo, e che ricerca nell’insegnamento di Buddha o nell’incessante fluire del Tao (nei confronti dei quali di certo Xu non fu un passeur, a riprova che anche le migliori menti fanno fatica a guadare più fiumi), se non in culti disponibili più a buon mercato. Con l’avvento della dominazione coloniale europea in Asia, la lezione di Xu andò persa, e inevitabilmente la religione cristiana venne identificata, a torto o a ragione, con le malefatte dei “diavoli occidentali”, e prese corpo l’influenza – sui focolai di guerra e di conflitto in età moderna e contemporanea – del mito delle identità contrapposte (e non multiple, come realmente sono secondo l’Amartya Sen di Identità e violenza). Tiziano Terzani, un testimone passeur del tardo Novecento in Asia, negli ultimi anni di vita rivendicava la sua italianità – anzi, la sua fiorentinità – a chi lo accusava di essere diventato un guru himalayano vestito di bianco, ma ciò non gli impediva di nutrire uno sguardo universale. Diceva: “è nell’armonia fra le diversità che il mondo si regge, si riproduce, sta in tensione, vive”. In un tempo di rinascita di scalpitanti nazionalismi, ricordare chi – come Xu Guangqi – ha aperto passaggi alla ricerca di armonia attraverso frontiere culturali e religiose apparentemente insormontabili diventa quasi un dovere civico, prima ancora che morale.
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