A cura dell’Associazione Italia-ASEAN
Nei cinquantatré anni dell’Association of South-East Asian Nations (ASEAN), i suoi obiettivi sono stati la pace e la sconfitta se non del sottosviluppo, almeno della miseria e delle carestie. Colpisce la durata dell’esperimento sociale, come se la crescita appartenga all’ordine naturale delle cose. La Cina e le “tigri asiatiche” sono emerse con maggiori forza, dimensioni e velocità. L’ASEAN è avanzata con costanza, con relativa uniformità, senza sussulti o crisi prolungate. Nel libro Il miracolo ASEAN, Kishore Mahbubani e Jeffery Sng suggeriscono di valutarne il ruolo in un lungo arco di tempo, dove i valori e i risultati si esprimono nel loro consolidamento. I due autori – entrambi singaporiani, ma con radici personali che affondano nel Sud-Est asiatico – espongono l’orgoglio di un riscatto epocale. Esaltano il pragmatismo, la de-ideologizzazione, la prudenza nelle trattative. Rispondono alle critiche con i fatti: all’Europa che chiedeva maggiore intransigenza verso il Myanmar dei generali, contrapponevano l’engagement progressivo di Yangon. L’ASEAN le offriva aiuti condizionati, non il rigore delle sanzioni né quello degli interventi armati. Rilevano che in Myanmar si sono alla fine tenute libere elezioni, mentre lo stesso destino non è stato riservato alla Siria e alla Libia. Alla fine del loro libro, Mahbubani e Sng si spingono a candidare l’ASEAN al Premio Nobel per la Pace. Sono consapevoli che il “miracolo” del titolo riflette la bontà dei risultati, più che le modalità – o il prezzo pagato – per conseguirli. Non c’è stato nessun miracolo per l’affermazione dell’ASEAN, nessun intervento divino ha benedetto il suo percorso, nessuna trivellazione fortunata ha reso disponibili tesori dalle viscere della terra. Al contrario, hanno funzionato le scelte politiche: l’appartenenza filo-statunitense, l’attrazione degli investimenti stranieri, l’apertura al commercio internazionale, la repressione del dissenso, la disciplina della forza lavoro, la convivenza di etnie diverse anche all’interno dei singoli Paesi. L’ASEAN si è allineato alle altre potenze nell’anticipare “il secolo asiatico”, nel diventare un esponente della globalizzazione, senza perdere le sue connotazioni tradizionali. I suoi governanti hanno mostrato rigore, durezza, lungimiranza, efficacia. Li ha ispirati la riscoperta di peculiari “Asian values”, la fiera riaffermazione di una diversità finalmente redditizia. Sono così emersi concetti inediti, preziosi nella genesi dello sviluppo: l’appartenenza al gruppo – famiglia, clan, azienda – prevale sull’individualismo; così come la fedeltà, la disciplina, la regolarità, sull’intraprendenza, la creatività, l’innovazione. Questi valori hanno creato reddito e occupazione, esattamente quello che i governanti asiatici auspicavano. I risparmi hanno prevalso sui consumi. Non erano priorità i diritti umani, considerati non uno stimolo ma un ostacolo allo sviluppo. Nella versione asiatica, essi si basano su elementi più materiali: il diritto alla vita, all’acqua e al cibo, all’occupazione, a una vita dignitosa. Qual è il senso di garantire la libertà di stampa, se i cittadini non sanno ancora leggere? Non sono valori, anzi vanno combattuti, il disordine, la complessità, le espressioni artistiche trasgressive.
Come spesso avvenuto verso l’Asia Orientale, l’Occidente ha privilegiato lo schieramento rispetto all’analisi. Ha trascurato i successi confinando le cause a una miscela di bassi salari e stato autoritario. La scorciatoia semplificava la comprensione di fenomeni lontani e intricati. Soprattutto, per molto tempo ha creduto nell’insostenibilità di quei modelli, ritenendo che la globalizzazione, la crescita di una classe media, la richiesta di diritti più estesi avrebbero condotto alla democrazia liberista e a un innalzamento dei costi di produzione, con perdita conseguente di competitività economica. Questa impostazione si è rivelata una superficiale illusione nei confronti della Cina, uno scambio tra desideri e realtà per l’ASEAN. Non è auspicabile l’importazione di modelli asiatici; è di plateale evidenza la loro inapplicabilità a società avanzate, industrializzate, democratiche. Appaiono tuttavia altrettanto inadeguate le previsioni di crolli in Asia o la riaffermazione dell’unicità dei metodi economici. L’ASEAN dimostra che percorsi alternativi sono possibili per la creazione di ricchezza. Propone interrogativi ed esige rispetto. L’esperienza della Cina segnala un allarme, perché sparge inquietudine per i suoi metodi e incute timore per i suoi risultati.
Di fronte alle nuove tensioni nel Pacifico, può l’ASEAN continuare la sua avanzata? Riuscirà a mantenere l’equidistanza tra Cina e Stati Uniti? Trarrà ancora vantaggio dalla sua posizione geo-strategica? Galleggerà senza impegnarsi, si affermerà senza decidere, in assenza di traumi o di scelte drammatiche? Le risposte non possono certamente essere precise o categoriche, quanto indicare una tendenza. È molto verosimile che l’ASEAN sarà costretta, forse suo malgrado, a schierarsi o più probabilmente a trovare nuovi equilibri, più complessi e meno sicuri. Lo impongono i nuovi assetti e la maturità della sua impalcatura politica, poco diversa da quella decisa alla sua fondazione nel 1967.
Rassicurati dalle statistiche, molti analisti – soprattutto asiatici – lodano l’esperienza dell’ASEAN. Altri – europei e nordamericani – ne rispettano i risultati, ma ne contestano la prudenza, l’incapacità di prendere decisioni impegnative, i costi sociali e democratici dello sviluppo, la subordinazione alle grandi Potenze. I primi addebitano alle responsabilità occidentali i ritardi nello sconfiggere il sottosviluppo, i secondi sostengono che i rancori post-coloniali siano un alibi più che una causa. Gli uni rivendicano i risultati: se l’ASEAN fosse un singolo Paese, costituirebbe la quinta economia al mondo e la quarta potenza commerciale. Gli altri contestano che le valutazioni sono semplicemente ipotetiche: l’Associazione è solo un blocco regionale e il suo commercio interno rappresenta il 23% del totale, rispetto al 64% del flusso intra-Unione Europea. Il dibattito è comunque tendenzialmente sterile, una situazione frequente dove la critica anticipa lo scrutinio dei fatti. Sarebbe più appropriato chiedersi quali fossero le alternative per i cinque Paesi fondatori e poi per l’intera ASEAN dopo l’allargamento. La risposta confermerebbe che aver mantenuto la pace è stato l’obiettivo nevralgico, tanto insperato quanto prezioso. I suoi Paesi non sono mai stati in guerra tra loro, né hanno condotto iniziative militari fuori dai confini dell’Associazione.
Probabilmente l’interrogativo chiave da porsi è se l’architettura attuale dell’ASEAN sia in grado di fronteggiare le sfide che i nuovi assetti propongono. La neutralità è un valore strategico, ma sarà sufficiente a garantire gli equilibri? Questi ultimi sono ancora largamente a favore degli Stati Uniti, ma tendono a riconfigurarsi verso la Cina. Pechino è da nove anni il più importante trading partner dell’ASEAN, a sua volta il secondo per la Cina (dopo aver superato gli Stati Uniti). Le merci si scambiano con Pechino, le navi container percorrono mari controllati da Washington. La possibile chiusura degli stretti, il controllo delle minuscole terre emerse trasferiscono la contesa dall’economia alla politica. Se l’Indonesia dovesse vedere la bandiera cinese sventolare su isolotti a ridosso delle sue coste, attenderebbe il consenso di tutti i Paesi – anche i più piccoli manovrabili da Pechino – prima di coinvolgere l’Associazione nella risposta? Il rischio di dover scegliere non unanimemente diventerebbe attuale. La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti sta accelerando la delocalizzazione di industrie labour intensive nell’ASEAN. I suoi governi entreranno in competizione per intercettarne i flussi, romperanno l’unità in situazioni d’emergenza, rivedranno le politiche sull’immigrazione? In caso di catastrofi umanitarie – basti ricordare il devastante tsunami del 2004 – sarà sufficiente un comitato di crisi nell’ASEAN oppure le frontiere dovranno essere aperte con conseguente alterazione degli equilibri etici e religiosi? Come reagirà la diaspora cinese all’assertività di Pechino? Quali saranno i comportamenti del mondo degli affari di fronte all’ironia di un Paese comunista che sostiene la globalizzazione mentre l’araldo del liberismo costruisce muri protettivi? La Cambogia potrebbe cambiare alleanze se paragona il suo reddito pro-capite di 4.700 dollari statunitensi ai 103 mila di Singapore? Inoltre, potrebbe aprire il porto di Sihanoukville non solo ai cargo ma anche alle portaerei cinesi, per compensare gli investimenti di Pechino per costruirlo? Sarà possibile continuare ad avere buone relazioni con tutti – l’India, il Giappone, l’Australia – mentre le aree di tensione aumentano? Gli interrogativi potrebbero proseguire. Aumentando, indicano la risposta: l’ASEAN attuale dovrà scegliere una strada nuova. Se decidesse di continuare con la stessa impalcatura, i rischi di frammentazione e poi di sgretolamento sarebbero reali. I problemi sono più grandi di una struttura snella, di principi semplici, di differenze plateali. D’altra parte, un cambiamento drastico, l’assunzione di responsabilità collettive più cogenti metterebbero ugualmente in discussione gli assetti correnti. Certamente non sarà facile rinnegare le impostazioni che hanno finora funzionato bene. Per questo i singoli Stati sono chiamati a dare dimostrazione di acume, audacia, misura e coraggio. Avranno bisogno della migliore collaborazione, non quella ovattata dei comunicati ufficiali, ma di un’estensione drammatica e strategica del concetto. L’ASEAN soffre di una crisi di crescita: ormai non si può più nascondere. Dovrà calibrare un intervento, dimostrare che gestire fenomeni più complessi è nelle sue capacità. È verosimilmente questo il compito futuro dell’Associazione: mantenere la “richness in diversity”, continuare ad essere i Balcani dell’Asia evitando i pericoli e i lutti della “balcanizzazione”.
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