La nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong: il diritto che schiaccia la politica

L’epoca in cui la Cina era la ‘fabbrica del mondo’ e Hong Kong il suo porto aperto è, con ogni evidenza, ormai conclusa. Lo dimostra anche l’ultimo Plenum del XIX Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC), in cui, oltre a riconfermare il ruolo egemone di Xi Jinping, si è insistito come mai prima sul tema dell’autonomia dello sviluppo cinese, dando la priorità ai consumi interni, a un avanzamento tecnologico indipendente e alla sovranità energetica. In questo nuovo quadro, il polo logistico-finanziario di Hong Kong è divenuto accessorio, se non persino pericoloso agli occhi di Pechino, visti i ferri corti fra Cina e Stati Uniti.

La legge sulla sicurezza nazionale, ideata a maggio ed entrata in vigore il 1° luglio 2020 (ossia il giorno dell’anniversario del ritorno di Hong Kong alla Cina), è coerente con l’attuale linea del PCC e difatti assesta un colpo definitivo al delicato equilibrio enucleato nella formula “un paese, due sistemi”.

Se per più di un ventennio la ex colonia britannica poté godere di una certa autonomia amministrativa – a patto ovviamente di contribuire alla crescita economica della Cina – ora con questa legge il governo di Pechino ne riduce notevolmente gli spazi di manovra, tanto che il suo stesso varo aggira la Basic Law locale e scavalca l’autorità del Consiglio Legislativo. La legge, tanto severa quanto vaga, prende di mira i reati di ‘sovversione’, ‘secessione’, ‘terrorismo’ e ‘collusione con le potenze estere’: quattro voci a ben vedere assai generiche, a cui si può facilmente ricondurre qualsiasi forma di attivismo politico, anche la più pacifica, quindi efficacissime nella repressione del movimento di protesta nato nella primavera del 2019.

Benché l’articolo 23 della Basic Law sia molto esplicito nell’assegnare al solo governo di Hong Kong la gestione della sicurezza locale, Pechino ha fatto leva sul tallone d’Achille dell’articolo 18, ove invece si delegano alla capitale le decisioni riguardanti la difesa, per forzare il codice, ingerire negli affari interni della città a statuto speciale e mettere a tacere una volta per tutte le voci critiche. Il primo, immediato risultato della nuova legge sulla sicurezza è stato la cancellazione delle ‘cinque richieste’ dei manifestanti, in particolare della seconda. Ricordiamo qui brevemente che dalla lunga mobilitazione degli ultimi due anni erano emersi cinque punti: 1) il ritiro della proposta di legge sull’estradizione; 2) la legittimazione della protesta, che non doveva essere classificata come semplice sommossa; 3) l’apertura di una indagine sulle violenze perpetrate dalla polizia ai danni dei manifestanti; 4) l’amnistia per gli attivisti incarcerati; 5) il suffragio universale. Delle cinque domande, va detto che solo l’ultima invocava una vera e propria riforma del sistema e, come diversi analisti hanno commentato, il movimento era troppo variegato e disomogeneo al suo interno per darsi un programma politico più definito. Malgrado l’indeterminatezza, comunque, le proteste si sono protratte per mesi, convincendo e coinvolgendo ampi strati della popolazione, portando in strada sino a due milioni di persone in un giorno solo e rendendo inoltre possibile lo sciopero generale del 5 agosto 2019, il più partecipato da decenni.

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Manifestanti riuniti a New Town Plaza il 5 agosto 2019. Fonte: Studio Incendo

Grazie alle nuove norme sulla sicurezza, tale movimento si trova adesso delegittimato e criminalizzato in quanto tacciato dal PCC di aver inneggiato alla sovversione e al separatismo, per giunta cercando solidarietà all’estero. Perciò il giorno stesso in cui è passata la legge, il 1° luglio, Joshua Wong e Nathan Law, leader studenteschi e fondatori del partito per l’autodeterminazione di Hong Kong Demosisto, hanno deciso di uscire dal partito, il quale si è sciolto poco dopo. Law ha subito lasciato Hong Kong. Alla fine di agosto, altri dodici giovani attivisti hanno cercato di fare altrettanto, ma sono stati fermati dalla guardia costiera ben prima di poter raggiungere Taiwan e ora sono detenuti nella Cina continentale. Di loro non si sa più molto. Ad ogni modo, le fantasie di fuga non riguardano solo la prima linea, o i personaggi più in vista del movimento: per tante e tanti a Hong Kong la legge sulla sicurezza nazionale segna un punto di rottura e la fine di un’era. Il tycoon Ivan Ko, ad esempio, facendosi interprete di un sentire diffuso (ma anche, fiutando un possibile grosso affare), ha messo gli occhi su un vasto lotto di terra in Irlanda dove costruire una città di 50.000 abitanti, per i futuri esuli.

Intanto, nella città di Hong Kong i muri sono diventati grigi: una pesante mano di vernice è calata cancellando i graffiti e le scritte lasciati dai manifestanti; gli scaffali di tante librerie nel frattempo hanno subito una sorte analoga, perché i librai spaventati hanno deciso di far sparire tutti i volumi potenzialmente compromettenti. Anche le elezioni che dovevano tenersi il 6 settembre sono state cancellate: quel giorno è quindi scoppiata una protesta, a cui le forze dell’ordine hanno reagito usando contro i manifestanti lo spray al peperoncino e, soprattutto, inseguendo, bloccando e rompendo una costola a una bambina di 12 anni, rea di essere fuggita per la paura. Il video della dodicenne ha fatto il giro di mezzo mondo. Infine, l’ironia della storia vuole che gli arresti così frequenti in questi giorni spesso siano legati allo slogan “Liberare Hong Kong, rivoluzione del nostro tempo”, che contiene ben due concetti chiave (‘liberazione’ e ‘rivoluzione’) propri del Novecento cinese e del patrimonio socialista in genere.

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Lo slogan Free HK durante una manifestazione di protesta. Fonte: Studio Incendo

Il PCC, ormai del tutto immemore del suo passato, attacca i giovani e non è più in grado di risolvere dialetticamente, ossia pacificamente, un conflitto scaturito dal bisogno di autodeterminazione – un’altra categoria costitutiva del suo stesso DNA. Il conflitto, che è assolutamente politico, alla fine è stato gestito tramite il ricorso alla legge: una strategia che potremmo giudicare debole sia dal punto di vista della tradizione socialista, sia tenendo conto della vocazione neoconfuciana del Chinese Dream di Xi Jinping. Infatti, il diritto premia o punisce in base a un proprio codice autoreferenziale, esterno alla società, imponendo dall’alto regole e proibizioni, mentre al contrario tanto il confucianesimo, quanto il socialismo, pur in due modi palesemente e diametralmente differenti, hanno sempre mirato a una trasformazione interna della società, alla creazione di un “uomo nuovo”. Soprattutto in un’ottica socialista, se si avesse un po’ più di memoria storica, si ricorderebbe che “dove c’è oppressione, lì scatta la rivolta” – un adagio antico, che rischia di dimostrarsi corretto anche in questo frangente.

Un manifestante arrestato durante le proteste.

Al momento, la legge sulla sicurezza nazionale ha imbavagliato il movimento e mette un freno anche all’attivismo sindacale, che si era manifestato in tutta la sua forza non solo durante lo sciopero generale del 5 agosto dell’anno scorso, ma pure nei mesi successivi, quando vennero fondate decine di nuove associazioni di lavoratori legate ai più svariati settori produttivi. La repressione è evidentemente molto forte, ma d’altro canto acuisce e non smentisce le ragioni del dissenso. Non è possibile prevedere l’evoluzione nel medio-lungo termine, perché sono troppi i fattori in gioco, a partire dalla complessissima dinamica fra Cina e Stati Uniti. Forze interne ed esterne si accavallano, però in ogni caso è difficile pensare che una contestazione durata così a lungo senza soluzione di continuità e capace di coinvolgere gruppi sociali eterogenei si spenga in questa maniera.

Pechino ha adottato il pugno di ferro, dal momento che non ritiene più così necessario riservare un trattamento di favore al porto che fungeva da hub strategico e da vetrina delle merci cinesi. Solo il tempo ci dirà se l’autoritarismo della legge sia davvero in grado di sciogliere un nodo che è soprattutto sociale e politico.


Suggerimenti di lettura

Au Loong-Yu (2020) Hong Kong In Revolt. The Protest Movement and the Future of China. Pluto Press.

Franceschini, I. (2020) “Hong Kong in Rivolta. Una Conversazione con Au Loong-Yu”, Sinosfere, 23 ottobre 2020, disponibile su: http://sinosfere.com/2020/10/23/ivan-franceschini-hong-kong-in-rivolta-una-conversazione-con-au-loong-yu/

Sala, I.M. (2020) “Hong Kong non si arrende”, Internazionale, 8 settembre 2020, disponibile su: https://www.internazionale.it/opinione/ilaria-maria-sala/2020/09/08/hong-kong-militanti-arresti-covid

Wong, V. “Beijing’s New National Security Laws and the Future of Hong Kong”, Lausan. Sharing Decolonial Left Perspective From Hong Kong, 22 Maggio 2020, disponibile su: https://lausan.hk/2020/beijings-new-national-security-laws-and-the-future-of-hong-kong/


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