Viviamo in un periodo storico che vede un’ingente proliferazione e diversificazione dei mezzi di informazione, che si spiega principalmente con la crescente influenza e diffusione delle notizie amatoriali che si diffondono anche attraverso l’utilizzo semi-incontrollabile dei cosiddetti social network. Ciò ha indubbiamente avuto effetti sia positivi sia negativi. Quelli negativi sono facilmente riassumibili nell’effettiva impossibilità di controllare la professionalità etica di tutti coloro che diffondono informazioni, un fenomeno che in questi ultimi anni si è guadagnato le prime pagine delle testate di tutto il mondo con, diremmo, l’hashtag “#fake news”. D’altra parte, la conseguenza positiva della globalizzazione dell’informazione sta proprio nella possibilità di dare giustizia anche a chi, fino ad ora, non ha avuto modo di far sentire la propria voce.
Questo potentissimo dilemma sta scardinando le fondamenta dei poteri forti tradizionali, fino a costringerli a doversi difendere in accesi dibattiti, pubblici ed enormemente pubblicizzati. Chiari e recenti esempi sono, tra gli altri, i dibatti elettorali negli Stati Uniti tra Donald Trump e Joe Biden; la deforestazione corrotta e incontrollata nel Brasile di Jair Bolsonaro; la crisi economica e umanitaria nel Venezuela di Nicolás Maduro; la guerra civile nella Siria di Bashar al-Assad; la perenne crisi palestinese; la crisi umanitaria degli Uiguri nella Cina di Xi Jinping; o quella dei Rohingya nel Myanmar di Aung San Suu Kyi[1].
Che cosa accomuna gli esempi sopracitati? In tutti questi casi ci si è trovati di fronte a due principali fonti di informazione giornalistica, entrambe dirette, che si proclamavano uniche testimonianze affidabili dei fatti così come erano realmente accaduti: le fonti ufficiali, costituite da giornalisti (includendo sia quelli dei canali governativi, sia privati e freelance) e quelle amatoriali (costituite da materiale anche audiovisivo immesso direttamente nel sistema, spesso senza modifiche, da membri della popolazione locale coinvolta negli avvenimenti riportati, e grazie a una o più piattaforme di condivisione su Internet). Niente di drammatico, si potrebbe pensare, se non fosse per il potere crescente che queste ultime hanno cominciato a esercitare su decisioni politiche e geopolitiche, un po’ in tutto il mondo. Si veda il cambio di atteggiamento del Presidente statunitense uscente Trump riguardo a fake news e complotti di brogli elettorali; o il repentino cambiamento di rotta di Bolsonaro sulla foresta Amazzonica sotto pressioni europee[2]; o i primi spostamenti di missioni diplomatiche estere a Gerusalemme. Si riscontrano situazioni di stallo invece per le crisi in Paesi dove la diffusione di notizie prodotte a livello amatoriale non è riconosciuta come legittima e quindi ufficialmente ignorata, o addirittura non permessa e violentemente repressa: Venezuela, Siria, Cina, per citare gli stessi esempi della lista di cui sopra. Non è un caso che in ognuna di queste crisi, i Paesi coinvolti si difendano reciprocamente sul piano internazionale con la giustificazione di “interferenza in affari di politica interna”. E il tutto avrebbe anche un senso se si analizzassero queste prese di posizione attraverso una lente tradizionalista, un po’ da Guerra fredda diremmo. I Paesi in questione, infatti, risultano spesso essere Russia, Cina, Iran, Venezuela, Siria, Cuba, e più recentemente, Turchia[3]. In questi, come in altri Paesi, sembra quindi che il cosiddetto giornalismo amatoriale non riesca ancora a influenzare né decisioni politiche interne né tantomeno decisioni geopolitiche internazionali. Stiamo tuttavia parlando di Paesi con regimi pressoché autoritari, dove popolarità interna e ideologie spesso incidono più di ogni altra cosa.
Dunque, sembra che esistano due scenari di questa prima fase di globalizzazione dell’informazione diretta e di nuovi canali di influenza tra elettorati, comunità civile internazionale, e Governi. Un primo scenario in cui lo scontro globale fra informazione ufficiale e amatoriale innesca un costruttivo processo di revisione e, un secondo scenario, legato più alle tradizionali sfere di influenza, in cui la globalizzazione dei canali di informazione non riesce a fare breccia all’interno dei poteri forti. Il fattore interessante è che stiamo avendo dei risultati importanti anche all’interno di quel gruppo di Paesi autoritari che finora sembravano essere immuni a questo scontro aperto di idee. Basti pensare a come la comunità internazionale esiga sempre più spesso spiegazioni ogniqualvolta un video amatoriale appare sulla rete: dai video nei presunti centri di detenzione forzata degli Uiguri, agli incendi nella foresta amazzonica, alle violenze etniche sui Rohingya. Davanti a prove inconfutabili, anche i Governi più autoritari escono allo scoperto, quanto meno spinti dal desiderio di confutarle, e proprio perché la comunità internazionale pretende spiegazioni. Senza ingenuità, è chiaro come il tutto avvenga per mantenere alleanze politiche e commerciali, e non per il fatto di giustificarsi agli occhi del mondo. Certi Paesi non ne hanno mai avuto interesse. Tuttavia, la globalizzazione dell’informazione finora descritta sta avendo anche questo importante risultato, tranne in un caso: il caso del Giappone, che viene tenuto abilmente sottotraccia.
Membro del G7, terza economia mondiale, storico alleato degli Stati Uniti e paladino della democrazia nell’area Indo-Pacifica, il Giappone è considerato da molti, grazie alla sua capacità di incorporare principi economici e politici liberali e, diremmo, occidentali, un modello a sé stante. Questo perché, storicamente, il Giappone ha saputo abilmente e velocemente sostituire decenni di aggressività imperialista a decenni di aiuto per lo sviluppo, e più in generale supporto scientifico-economico per tutti i Paesi dell’area Indo-Pacifica, e non solo. Inoltre, negli ultimi anni, il Giappone sta anche svolgendo un ruolo di fondamentale importanza per l’equilibrio delle grandi Potenze nell’area, quali Cina, India e Stati Uniti. Cerchiamo di capire se, come e perché le decisioni politiche e geopolitiche del Giappone sono in qualche modo influenzate dalla globalizzazione dell’informazione di cui sopra. Per questa analisi occorre innanzitutto ricordare che il Giappone, nonostante l’appartenenza al G7 e il ruolo esemplare che si promette di ricoprire nell’area, è al sessantaseiesimo posto nell’indice di libertà di informazione (Press Freedom Index) pubblicato annualmente da Reporter senza frontiere.[4] Tale indice prende in considerazione entrambi i canali di informazione descritti qui sopra (quindi anche il giornalismo dei social network a livello amatoriale). Tuttavia, è doveroso far notare che il Paese offre totale libertà sul proprio territorio per quanto riguarda l’utilizzo di Internet, e di qualsiasi piattaforma di condivisione in qualsiasi formato e da qualsiasi dispositivo. Quindi, in principio, le premesse per una divulgazione ampia e diversificata di notizie esistono. In pratica, il Giappone è una nazione altamente omogenea in cui l’utilizzo di lingue diverse dal giapponese anche in entourage internazionali è ancora molto raro, e in cui il 98% della popolazione è etnicamente giapponese e ha pochi contatti significativi con l’estero e con gli stranieri in generale.
Il fatto che il Paese abbia vissuto pacificamente dalla fine della Seconda guerra mondiale, malgrado esistano comunque ineguaglianze preoccupanti di carattere economico-sociale, ha creato una bolla di surreale sicurezza nell’animo della maggior parte dei giapponesi. Tant’è vero che esiste un termine, heiwa-boke (“Instupidito dalla pace”), con cui le vecchie generazioni spesso definiscono le nuove, totalmente distaccate da ciò che succede nel mondo. Questo significa che la popolazione avrebbe sì la possibilità materiale di informarsi, ma effettivamente le notizie estere che vengono tradotte e diffuse internamente sono scelte con cura, e pochissime sono le fonti di giornalismo amatoriale in lingua giapponese che vengono diffuse tramite i social network. Il risultato è che l’elettorato giapponese non viene messo a conoscenza né ha interesse a informarsi su quelle che sono le crisi mondiali che, direttamente o indirettamente, potrebbero avere ripercussioni negli affari interni ed esteri della nazione.
Questa lunga premessa è assolutamente necessaria per comprendere le motivazioni che giacciono dietro scelte politiche e geopolitiche che il Giappone ha preso e continua a prendere, in particolar modo per quanto riguarda la sua influenza nell’area indo-pacifica e asia-pacifica. Numerosi sono gli esempi che si potrebbero fare, dalle dispute territoriali e marittime con Russia e Cina, ai rapporti diplomatici con Taiwan, al ruolo strategico di supporto agli Stati Uniti. Ma rischieremmo di divagare. In quanto “esportatore di democrazia e di pace, e difensore dei diritti umani” nella regione, a noi interessa analizzare quale sia l’attuale strategia del Giappone nei confronti di temi più sensibili, quali per esempio le crisi umanitarie. Prenderemo, quindi, come caso studio la situazione dei Rohingya del Myanmar, storico protégé nonché ex-colonia giapponese. Molti di noi sono già a conoscenza della delicatissima situazione dei Rohingya, un gruppo etnico prevalentemente di religione islamica che risiede nel nord del Myanmar, nello stato del Rakhine, al confine con il Bangladesh. Esula dallo scopo di questo articolo un’analisi più approfondita della questione, né tantomeno una presa di posizione a riguardo, che sarebbe fuorviante ai fini del nostro ragionamento. Ci basti riassumerne i motivi principali. Innanzitutto, i dubbi sull’origine e sull’appartenenza geografica di questa etnia: per alcuni è il sopracitato Rakhine, per altri il confinante Bangladesh. Esistono valide argomentazioni per entrambe le tesi, e molto plausibilmente, si parla di una regione a cavallo degli attuali confini nazionali, ora inglobata nei due Paesi. Una legge sulla cittadinanza risalente già al 1982 non riconosce i Rohingya però tra le etnie del Myanmar[5]. Inoltre, prima dello scoppio delle violenze la quasi totalità delle persone viveva entro i confini territoriali birmani. Dal 2017, una serie di violenti scontri, perpetrati da entrambe le parti, ha convinto il Governo birmano a usare l’esercito per riportare l’ordine nell’area. Da allora, abbiamo assistito a una drammatica intensificazione delle repressioni verso questa etnia, di religione, lingua e costumi spiccatamente diversi dal resto del Myanmar. Di fatto, il Myanmar ha cercato di spingere i Rohingya al di fuori dei confini nazionali, con un ricorso massiccio e apparentemente indiscriminato alla violenza spesso ingiustificata, cercando di cancellare qualsiasi riferimento storico-culturale della loro presenza nel Rakhine[6]. Relegati in immensi campi profughi in Bangladesh e in alcuni ghetti tra la Thailandia e il Myanmar, per l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono una delle etnie più perseguitate al mondo.
Tuttavia, è fondamentale notare come la questione dei Rohingya non sia esplosa dal nulla nel 2017. Anzi, se ne hanno già notizie durante l’epoca coloniale britannica. Gravi tensioni si riscontrarono nel 1939, durante tutta l’occupazione giapponese nella Seconda guerra mondiale, nel 1978 con il generale Ne Win al potere e successivamente, in un graduale crescendo, durante il controllo della giunta militare e nel 2009 con i primi naufragi in mare, le guerriglie del 2012, per arrivare infine ai fatti del 2017. Durante questi lunghi decenni, ci sono stati imponenti fughe migratorie a destra e a sinistra, poco controllate, e a volte poco documentate. E nonostante dal 2005 si sia cercato di (ri)trovare una patria a questi profughi, le violenze comunitarie e di Stato nel Rakhine non sembrano diminuire, scoraggiando di fatto qualsiasi tentativo di rimpatrio. Altrettanto giusto è, però, notare come la radicalizzazione violenta di alcuni gruppi interni ai Rohingya, separatisti e jihadisti, non abbia per niente aiutato la loro causa. È stata registrata la presenza di veri e propri mujahideen in assetto da jihad, con crescenti e preoccupanti contatti con organizzazioni terroristiche internazionali di stampo islamista. Una situazione, come si diceva all’inizio, molto complessa e delicata. Come mai allora per moltissimi anni non se ne è parlato? La risposta è, paradossalmente, abbastanza semplice. È solo dal 2017 che, tramite testimonianze dirette e di video amatoriali poi ripresi da alcuni premi Nobel e massicciamente diffuse su tutti i servizi di informazione ufficiali e non, che il mondo è venuto a conoscenza del problema, e si è cominciato a parlare di pulizia etnica prima, e crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio poi[7]. La comunità internazionale ha cominciato a domandare spiegazioni, con tanto di udienze alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), al Tribunale Permanente dei Popoli, e alle Nazioni Unite. Difficile che questo problema passi inosservato, quindi. Tranne che in Giappone.
A causa del dilemma giornalistico spiegato all’inizio, infatti, le notizie estere riguardo (anche) a questa crisi vengono setacciate, e quasi niente compare in lingua giapponese. Pochissimi sono, tra coloro che parlano altre lingue, quelli interessati ad approfondire il tema una volta venuti in contatto con la notizia. Anche in ambito accademico l’interesse per queste crisi mondiali è irrisorio in maniera avvilente. A ciò va aggiunto il diffuso benessere della popolazione già menzionato, e la percepita impossibilità di fare qualcosa per risolvere problemi ritenuti così lontani. In realtà, non tutto il male viene per nuocere. Il Giappone ha, infatti, storicamente preferito usare la diplomazia e la geopolitica attraverso canali bilaterali, e con prese di posizione sempre molto tenui, che gli hanno consentito di salvare non solo la propria reputazione internazionale, ma anche i forti legami economici che lo mantengono alla terza posizione tra le economie mondiali più sviluppate. Quindi, un elettorato poco sensibile ai fenomeni internazionali, e diremmo un po’ apatico nel partecipare a iniziative globali di ampio respiro, fa esattamente al caso suo.
Come di dovere, il 10 novembre scorso, il primo ministro Suga Yoshihide e il ministro degli esteri Motegi Toshimitsu si sono profusamente congratulati con la Consigliera di Stato uscente Aung San Suu Kyi per la vittoria elettorale del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia[8]. Il Giappone aveva anche mandato una missione di osservatori per aiutare il Governo birmano a condurre elezioni giuste e trasparenti. Nonostante le atrocità subite durante la Seconda guerra mondiale, i due Paesi vantano un’amicizia di acciaio, cementata da decenni di progetti di sviluppo e aiuti strutturali che hanno assicurato al Giappone un’indelebile posizione di “protettore” del Myanmar. Fino a che punto, però, decisioni geopolitiche bilaterali possono soprassedere a interventi di tipo umanitario?
Lo schieramento mondiale nei confronti della crisi dei Rohingya si è diviso secondo regole che profumano di un ritorno alla Guerra fredda. Aung San Suu Kyi, oltre che ministra anche premio Nobel per la Pace nel 1991, è stata oggetto di una campagna internazionale denigratoria proprio a causa della sua inerzia nel cercare di mediare tra le parti in conflitto. Dopo la Cina e l’India, anche il Giappone si è schierato tra le file dei negazionisti, affermando che “non esiste nessun genocidio, ma soltanto repressione del terrorismo praticato dall’Esercito della Salvezza dei Rohingya dell’Arakan”[9]. L’elemento interessante è che, mentre l’appoggio della Cina è interpretabile nel contesto della rivalità sino-statunitense e come giustificazione alla propria crisi interna degli Uiguri, e l’appoggio dell’India giustificabile alla luce delle politiche hindutve[10] di Narendra Modi e dei relativi conflitti interni (si veda il Kashmir), per il Giappone si tratta esclusivamente di una decisione puramente di politica estera. Non partecipa alle risoluzioni delle Nazioni Unite relative al caso, non usa ufficialmente il termine “Rohingya”, preferendo “musulmani del Rakhine”, o in alcuni casi addirittura “bengalesi”, e sembra voler evitare qualsiasi riferimento ufficiale alla crisi. Organizza insieme al Governo birmano fiere per favorire gli investimenti, proprio anche nel Rakhine. Controverse sono state anche alcune donazioni elargite da potenti gruppi industriali giapponesi, quali la Kirin Holdings Company e la Japan Tobacco, a favore delle vittime delle violenze, ma il cui beneficiario, secondo quanto confermato anche da un’inchiesta indipendente di Amnesty International, è stato il Tatmadaw, ovvero l’esercito del Myanmar. Il capo delle Forze armate Min Aung Hlaing ha ufficialmente ringraziato in più occasioni, affermando che le donazioni sono andate al “personale di sicurezza operativo nel Rakhine”[11]. Quindi, a questo punto, con quel “vittime delle violenze” sembra si facesse riferimento solo alle vittime militari. Questo farebbe pensare che il Giappone si rifiuti di riconoscere quanto affermato dalle Nazioni Unite e dalla CIG. Se non fosse che nel limitrofo Bangladesh, dove si sono riversati centinaia di migliaia di profughi Rohingya, l’ambasciatore giapponese a Dhaka, Ito Naoki, avesse assicurato l’impegno del Giappone nel supportare economicamente il Bangladesh e nel mantenere la pace e la stabilità nell’area indo-pacifica, facendo rientrare in quest’azione diplomatica anche i programmi di rimpatrio per i Rohingya, dopo che il ministro degli esteri bengalese, AK Abdul Momen, dichiarò che circa un milione di apolidi rischiano sicuramente di mettere a repentaglio la sicurezza economica e sociale regionale e internazionale[12]. Ma il ministro stesso non potette fare a meno di sottolineare come il Giappone stesse davvero aiutando il Bangladesh con imponenti progetti di infrastrutture, con la cooperazione fra le Forze navali dei due Paesi e con accordi bilaterali per un Indo-Pacifico libero e prospero (Free and Open Indo-Pacific – FOIP). Peccato che, tra i pilastri del FOIP, non ci siano soltanto accordi commerciali e di prosperità economica, ma anche cooperazione per la pace e la stabilità, assistenza umanitaria e gestione delle catastrofi.
Perché allora tante contraddizioni apparenti nelle scelte geopolitiche del Giappone? Come già discusso, la preferenza di canali bilaterali, almeno in parte, spiega questo fenomeno. Un’altra spiegazione segue invece l’analisi fatta all’inizio di questo articolo. Di tutte queste notizie, quasi nessuna arriva all’elettorato giapponese, e non esiste un’opinione pubblica a riguardo della crisi umanitaria dei Rohingya, così come di altri importanti focolai presenti nel mondo. Il Governo non è quindi chiamato a dare spiegazioni al proprio elettorato, né tantomeno a giustificare le proprie prese di posizione in campo geopolitico. In altre parole, il popolo giapponese non sa e non ha interesse di come la comunità internazionale giudichi la diplomazia del proprio Paese, non per superba superiorità, ma per semplice mancanza di conoscenza. Non è un caso che il Giappone sia uno dei pochi Paesi moderni e liberali al mondo senza chiare leggi sui rifugiati (e sull’immigrazione in generale), accettandone in modo molto arbitrario e spesso discutibile solo circa una ventina all’anno. La comprensione stessa dell’opinione pubblica riguardo ai rifugiati è molto parziale, con chiari errori di interpretazione tra rifugiati e immigrati clandestini: da qui ha origine il disinteresse verso le crisi umanitarie e, più in generale, nel sapere che cosa succede oltre confine. C’è, invece, una parte molto consistente e influente dell’elettorato giapponese a cui sta molto a cuore la continuità di relazioni diplomatiche favorevoli tra il Giappone e i singoli Paesi dell’area indo-pacifica, ma diremmo del mondo più in generale: l’imponente macchina economica costituita dalla miriade di piccole e grandi imprese commerciali che, grazie anche alla loro presenza nell’area, garantiscono al Paese del Sol Levante il suo primato economico e strategico. Il corpo diplomatico giapponese ha quindi tutto l’interesse a mantenere vivi gli accordi commerciali con i singoli Paesi, viste anche le crescenti mire espansionistiche dell’India e, soprattutto, della Cina. Certamente si sarebbero potute almeno evitare le donazioni ufficiali alle Forze armate in un periodo in cui tutti gli occhi del mondo erano puntati su di loro. Di sicuro qualcuno si sarà morso le dita quando è uscita la notizia. Ma il punto è un altro.
Nell’era della globalizzazione dell’informazione, in cui è difficile nascondersi agli occhi del mondo soprattutto in casi di ingiustizie molto gravi e diffuse come le crisi umanitarie, fino a che punto le decisioni geopolitiche di uno Stato possono essere giustificate dalla reazione del proprio elettorato e da pure considerazioni economiche? Se così fosse, che cosa ne resterebbe della distinzione tra Stati autoritari e Stati promotori di pace e stabilità? Fino a che punto si possono ignorare le decisioni, per esempio delle Nazioni Unite e della CIG, senza minarne la credibilità, quindi destabilizzando un ordine di influenze geostrategiche messo in piedi in decenni di confronti diplomatici? Se, invece, si parla di costruire un nuovo ordine mondiale al di fuori di schemi tradizionali, quali le stesse Nazioni Unite, come possono i nuovi paladini della giustizia restare saldi al loro ruolo senza mettere a repentaglio i rapporti politici ed economici bilaterali con i Governi che dovrebbero denunciare? Queste ed altre sono le difficili domande a cui il Giappone, ma non solo, dovrà trovare una risposta credibile per meritarsi pienamente l’appellativo di “quintessential smart power” e di “leader dell’ordine liberale in Asia”: non solo agli occhi di alcuni, ma di tutto il mondo[13].
[1] Non vengono contate qui le altre crisi mondiali, quasi del tutto ignorate, per esempio nello Yemen, Cameroon, Repubblica Democratica del Congo, Burkina Faso, Burundi, Mali, Sud Sudan, Nigeria, Repubblica Centroafricana, Somalia, e Afghanistan, in quanto purtroppo ancora tagliate fuori dagli interessi di questa fase iniziale di globalizzazione dell’informazione.
[2] Gonzales, J. (2020), “World’s Biggest Trade Deal in Trouble over EU Anger at Brazil Deforestation”, Mongabay, 6 luglio.
[3] La situazione politica in Africa è decisamente più volatile e complessa. Non verrà quindi presa in considerazione per questa analisi perché non serve a supportare né l’una né l’altra delle argomentazioni esposte.
[4] Reporters Without Borders (2020), World Press Freedom Index, disponibile online al link https://rsf.org/en/ranking. Per un confronto, l’Italia è al quarantunesimo posto su un totale di 180 territori.
[5] Tra le diverse restrizioni, non possono richiedere la cittadinanza, né documenti di identificazione, non possono possedere beni immobili né avere più di due figli per nucleo familiare.
[6] McPherson, P. (2020), “As Myanmar Erases Names of Destroyed Rohingya Villages, U.N. Map-makers Follow Suit”, The Japan Times, 2 settembre.
[7] Il caso è ancora sotto scrutinio alla CIG.
[8] Giova ricordare che il Giappone sente un forte attaccamento emotivo con Aung San Suu Kyi, che negli anni Ottanta visse per un periodo a Kyoto, dove copriva un posto di ricercatrice nell’università cittadina. Altrettanto utile ricordare che il 3 novembre 2016, la stessa prestigiosa università le conferiva, con un ricevimento degno di un capo di Stato, un dottorato onorario per “il suo contributo alla promozione della libertà e della democrazia in Myanmar e nel mondo”, cfr “Honorary Doctorate of Kyoto University awarded to Daw Aung San Suu Kyi (3 November 2016)”, disponibile online al link https://www.kyoto-u.ac.jp/en/about/events_news/office/kikaku-joho/kokusai-kikaku/news/2016/161103_1.html.
[9] Parole dell’ambasciatore del Giappone in Myanmar, Ichiro Maruyama (26 dicembre 2019), cfr. Lwin, N. (2019), “Japan Backs Myanmar’s Claim That No Genocide Occurred in Rakhine State”, The Irrawady, 27 dicembre.
[10] È la forma predominante di nazionalismo indù in India.
[11] Amnesty International (2018), Japan: Investigate brewer Kirin over payment to Myanmar military amid ethnic cleansing of Rohingya, 14 giugno, disponibile online al link https://www.amnesty.org/en/latest/news/2018/06/japan-investigate-brewer-kirin-over-payments-to-myanmar-military-amid-ethnic-cleansing-of-rohingya/.
[12] The New Nation (2020), “Japan to Work with Myanmar for Early Rohingya Repatriation”, 17 novembre.
[13] Johnson, J. (2019), “Japan the New ‘Leader of the Liberal Order in Asia,’ Top Australian Think Tank Says”, The Japan Times, 28 maggio.
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