A volte leggere la storia del mondo attraverso le lenti dello Stato nazionale – un modello che l’Europa ha esportato in tutti i continenti – non aiuta a comprendere la complessa realtà dei fenomeni politici, economici e sociali. Si prenda il caso dell’Asia Sud-orientale: un’intera area collinare e montuosa che insiste attorno ai porosi confini dell’India Nord-orientale, del Myanmar, della Cina, del Viet Nam, del Laos e della Thailandia, presenta dinamiche molto simili, anche se ufficialmente divisa tra più Stati-nazione. Lo storico olandese Willem van Schendel definì questa regione con il termine “Zomia” – da “Zomi”, un termine comune a molte lingue degli altopiani per definire l’abitante degli altopiani. Su questo argomento il libro di James C. Scott – un accademico dell’Università di Yale – L’arte di non essere governati è diventato un classico, di cui oggi Einaudi pubblica la brillante traduzione italiana a cura di Maddalena Ferrara.
Scott critica la storiografia dominante della regione, che racconta, a beneficio delle élite nazionali delle capitali, un contrasto perenne tra i popoli risicoli delle pianure e gli abitanti “barbari” delle terre alte, destinato a sfociare nella conquista e nella civilizzazione di queste ultime da parte dei grandi regni buddisti o dell’Impero cinese. Al contrario, i due attori sono vissuti in simbiosi nell’arco dei secoli, rendendo “impossibile costruire un resoconto soddisfacente degli Stati di valle senza comprendere il ruolo centrale di Zomia nella loro formazione e nella loro caduta” (p. 20). Perciò Scott ritiene che “il punto di partenza fondamentale per dare un senso al cambiamento storico del Sud-Est asiatico sia la dialettica di coevoluzione tra alture e valli che le considera spazi antagonisti ma profondamente connessi” (p. 20).
Gli abitanti degli altopiani sono eredi di coloro che fuggirono davanti all’avanzata dei piccoli e grandi Imperi della regione, che esigevano tasse, lavoro forzato, tributi di ogni tipo, oltre che fedeltà politica. Quindi, l’organizzazione politica di queste popolazioni “è, in gran parte, una strategia di adattamento per evitare di essere incorporati nelle strutture dello Stato” (p. 46). D’altra parte, i regni di valle esercitavano un potere di attrazione soprattutto economico, rappresentando un vasto mercato di beni fisici, e anche simbolico, attraverso “insegne, titoli, costumi e cosmologia” delle corti che nutrivano “fantasie espansive e imperiali” (p. 42). I cicli dinastici influenzavano l’interazione tra valli e pianure: maggiore era la forza del Governo unitario in termini oppressivi, maggiore era il flusso di persone verso le alture, e se invece lo Stato risicolo delle pianure garantiva una partecipazione alle attività economiche in condizioni accettabili, aumentava la presenza e il contributo dei valligiani alle corti unitarie. Narrare la storia del Sud-Est asiatico come se gli Stati-nazione fossero gli attori principali, relegando tutti gli altri al margine, è fuorviante: Scott propone una storia alternativa, “dominata da lunghi periodi di assenza di Stato, […], e punteggiata da occasionali, e in genere brevi, Stati dinastici che, quando si sono dissolti, hanno lasciato dietro di sé un nuovo deposito di fantasie imperiali” (p. 42). Basti pensare ai regni laotiani, al regno dei Naga in India, o al regno di Ayutthaya o di Pagan, rispettivamente nelle odierne Thailandia e Myanmar. Ma la gente degli altopiani si organizzava seguendo spesso schemi simili, in cui comunità di villaggi si radunavano attorno a leadership carismatiche, spesso di origine clanica, che replicavano, in forma diverse, i riti cosmogonici dei sovrani che ammiravano e combattevano allo stesso tempo: i principi Shan in Birmania ne sono un esempio.
L’autore definisce una siffatta prospettiva sul Sud-Est asiatico come “l’ultima storia anarchica”, poiché dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi lo schema non regge più. Infatti, spinti da un rinnovato nazionalismo sorto dalla rivolta anticoloniale, i nuovi Stati della regione rafforzano la lotta contro le periferie, le minoranze tribali, i piccoli regni di collina, cercando di incorporare e di assimilare (non sempre con successo) le popolazioni riottose. Tuttavia, la chiave di lettura di Scott ci aiuta a capire come ancora oggi la storia passata getti le sue ombre sul presente: un caso su tutti, gli irrisolti conflitti “etnici” che contrappongono le Forze armate del Myanmar a svariate organizzazioni (altrettanto armate) attive all’interno del Paese.
La contrapposizione tra società arcaiche primordiali (una sorta di “come eravamo”) e comunità civilizzate (“come dobbiamo essere”) è quindi creata ad arte dalla civiltà temporaneamente dominante per mascherare un processo di creazione dello Stato, in un dinamico processo di ribaltamento dei ruoli. Quando un regno crollava per un conflitto, una carestia o per un’epidemia, il vuoto era spesso riempito da un altro regno in espansione, costringendo molti sudditi a fuggire sulle alture, creando nuove ondate migratorie che, se “osservate in time-lapse” Scott paragona a un “folle gioco di autoscontri”, in quanto i migranti precedenti resistevano agli ultimi arrivati, o si spostavano in altre aree cacciando i residenti che lì si erano insediati prima di loro. Ciò ha creato un “mosaico impazzito di identità” che rende ancora così difficile per i governi nazionali, oggi, controllare e governare le aree montuose di confine.
Come se non bastasse tanta complessità, anche l’etnia è un’identità fluida, nonostante i tentativi di reificazione. Perciò, fu un vero rompicapo per gli ufficiali coloniali cercare di censire i territori conquistati: intere comunità potevano dismettere gli abiti precedenti e indossare casacche nuove, in un processo di adattamento continuo alle condizioni sul campo che è una tecnica di sopravvivenza di chi “ha sempre la valigia pronta per spostarsi tra identità o luoghi, o tra entrambe le cose” (p. 370). Non è quindi caso, ad esempio, che in Myanmar il quadro dei partiti politici e delle organizzazioni militari cosiddetti “etnici” sia estremamente frammentato e dinamico. L’unico appunto che si potrebbe muovere al lavoro di Scott è a questo punto sul titolo ad effetto: anche adattarsi al mutamento e costruire comunità resilienti, in fondo, è un’arte di governo.
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