Una compiuta trasformazione economica delle Filippine non ha ancora avuto luogo. Auspicata dagli analisti, proclamata dai governanti, invocata dalla popolazione, essa ha proceduto con ritardi e lentezze. Manila si trova dunque ancora nella drammatica consapevolezza di non aver superato le impasse sociali e politiche che ne hanno rallentato lo sviluppo. Appartenere al versante asiatico del Pacifico – cioè della regione in maggior avanzata al mondo – le applica allo stesso tempo un volano e un paragone. Il traino del dinamismo economico è innegabile. L’arcipelago è al centro di traffici; la sua posizione è strategica nel quadrante estremo orientale, una cerniera di settemila isole tra il Nord e il Sud-Est asiatico. La sua vicinanza agli Stati Uniti – frutto anche di una storia connessa con Washington – lo mantiene aperto a influssi diversi. Non a caso, le Filippine sono il Paese definito più filoamericano dell’intero Sud-Est asiatico. Eppure, proprio il paragone con quest’area rende il suo percorso – dopo l’indipendenza del 1946 – tra i meno convincenti. Il Paese ha certamente registrato dei progressi. Negli ultimi anni la crescita del PIL si è attesta intorno al 5%, un tasso cioè invidiabile in ogni parte del mondo ma non necessariamente in Asia Orientale. Lì, le variazioni sono state più corpose, costanti, qualitative. Più che misurare l’ascesa del PIL, sarebbe più opportuno setacciarne la composizione, analizzare la distribuzione del reddito, classificare i parametri socioambientali. Vi si scoverebbero i motivi reali di un andamento controverso all’interno di un’area che invece brilla per il suo successo. La costruzione di una moderna base industriale è tuttora deficitaria. Sono ancora forti le specializzazioni in settori tradizionali come il tessile-abbigliamento, il calzaturiero, l’alimentare. Si tratta di produzioni che i Paesi più evoluti dell’Asia hanno delocalizzato, specializzandosi in attività a più forte concentrazione di capitale. Invece, Manila mantiene la manifattura prevalente dedicata all’esportazione e alla trasformazione inziale delle materie prime. L’attrazione dei capitali internazionali – necessari per l’accelerazione industriale – risente di altre dotazioni chiaroscurali, cioè in crescita ma ancora insufficienti: la costruzione di infrastrutture, la semplificazione burocratica, la sicurezza ambientale.
Nonostante dunque i progressi registrati, le Filippine non sono state inserite nelle storie di maggior successo dell’Asia. Non hanno ovviamente condiviso l’esperienza del dopoguerra giapponese, né si sono accodate al vagone della nuova industrializzazione che ha trasportato le economie delle quattro “tigri asiatiche”, ovvero Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore. La letteratura a stento le ha inserite nel novero dei “tigrotti”, titolo appannaggio di Malaysia e Thailandia. Se si dovesse indentificare un nuovo felino asiatico, il Viet Nam non avrebbe concorrenti a fregiarsi dell’etichetta. Ovviamente lontane anche dai successi della Cina, le Filippine sono state per alcuni lustri – congiuntamente all’Indonesia – una nazione dalle potenzialità inespresse, dalle speranze soddisfatte parzialmente, dalle ambizioni regolarmente dimezzate. L’ombra lunga della Guerra fredda è stata – tra le tante motivazioni – la spiegazione più pregnante per questo andamento chiaroscurale. Per tanto tempo l’appartenenza politica aveva prevalso sul dinamismo economico, così la salvaguardia degli assetti contro i pericoli esterni e la guerriglia comunista all’interno esaurivano la spinta del Governo.
La preoccupazione per la stabilità politica era condivisa dai fondatori dell’Association of South-East Asian Nations (ASEAN). Quando siglarono a Bangkok il documento che battezzava l’Associazione, i cinque ministri degli esteri di Filippine, Thailandia, Singapore, Malaysia e Indonesia, erano consapevoli che il nemico fosse ideologico. Risiedeva a Mosca, Pechino, Hanoi e allungava i tentacoli nelle insurrezioni dell’intero Sud-Est asiatico. Ogni tentativo di riforma sociale era ostacolato dalla ricerca di stabilità e dal mantenimento dell’alleanza con Washington. Regimi paternalistici e repressivi come quello di Ferdinand E. Marcos avevano il compito precipuo di garantire l’ordine, l’appartenenza, la continuità. Il costo di questa azione di Governo si è protratto anche dopo il crollo dei Paesi socialisti e la svolta politica della Cina. Pur in assenza di nemici esterni e con le guerriglie ridimensionate, le Filippine non hanno tratto vantaggio – almeno non completamente – da un clima pacificato, dalle intensificate relazioni commerciali con i Paesi vicini, dalle ridotte necessità militari.
Ancora oggi il Paese vanta delle dotazioni socioambientali di tutto rispetto: il clima è mite e la terra fertile; i mari sono pescosi e la natura è affascinante; la popolazione è giovane, l’inglese è diffuso, l’analfabetismo sconfitto. Eppure, queste dotazioni non sono ancora sufficienti. Il Business Process Outsourcing (BPO) si limita ai comparti di minor valore aggiunto, come i call center; la produzione elettronica privilegia la componentistica ai prodotti finiti di maggior pregio; i national champion, i marchi produttivi che identificano un Paese, stentano ad affermarsi. È convinzione diffusa tra gli analisti che le riforme indispensabili a un decollo duraturo siano regolarmente rinviate o disattese. L’ineguaglianza sociale rimane pesante, con sconfinamenti drammatici nelle sacche di povertà rurale e urbana. Le famiglie che tradizionalmente guidano il Paese e ne esprimono la classe dirigente detengono ancora ampie fette di potere. I sussidi statali garantiscono i redditi più bassi, ma la parte più giovane della popolazione è ancora destinata all’immigrazione. Più del 10% dei filippini vive all’estero per lavoro – spesso per occupazioni tra le meno retribuite – e contribuisce con le sue rimesse al reddito nazionale.
Sul versante imprenditoriale vengono lamentati ancora ritardi nell’apertura del Paese agli scambi internazionali, soprattutto nell’attrazione degli investimenti esteri. Timorosi di normative complesse, di infrastrutture insufficienti (delle quali il traffico di Manila è il simbolo più conosciuto), di opacità permanenti, gli investitori internazionali scelgono il Paese con costante prudenza. Senza sorprese, nel corso degli anni, queste situazioni hanno certamente modificato il quadro all’interno dell’ASEAN. Il caso delle relazioni economiche con l’Italia è esemplare. Pur in presenza di legami storici, della comune fede cattolica, di una forte emigrazione filippina, sia i flussi commerciali sia gli investimenti permangono a livelli ridotti. Le esportazioni italiane hanno sfiorato nel 2019 gli ottocento milioni di euro. Il valore – che si mantiene sempre superiore a quello delle importazioni – ha inevitabilmente risentito nell’anno successivo della pandemia da COVID-19. Esso rappresenta lo 0,17% dell’export italiano e poco meno di un decimo di quello verso l’ASEAN. Una percentuale più piccola, pari al 4%, si registra per le aziende italiane che hanno investito – sia in fabbriche sia in uffici – nell’arcipelago. Nel 2019, tra le cinquecentoventidue imprese italiane a vario titolo presenti nell’ASEAN, soltanto ventitré hanno scelto le Filippine. Si conferma dunque la valutazione ambivalente di una crescita innegabile ma ridotta, del miglioramento di condizioni di vita pur tra sperequazioni eccessive, di un complessivo avanzamento che, in presenza di risultati migliori riscontrati nei Paesi vicini, determina tuttavia una flessione relativa nello scacchiere del Pacifico Orientale.
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