Viet Thanh Nguyen è un autore americano di origine vietnamita, divenuto famoso a livello mondiale per Il Simpatizzante, sorprendente romanzo d’esordio vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa, pubblicato in Italia nel 2016, e già recensito nel vol. 2, n. 4 di RISE. Non c’è dubbio che questo saggio viene pubblicato sulla scia del successo precedente: la stessa quarta di copertina, dopo una breve citazione del testo, riporta tre estratti da recensioni di stampa che lodano Il Simpatizzante. Perciò è giustificato un certo scetticismo del lettore che prende in mano il testo sospettando un’operazione editoriale di mercato – scetticismo che però svanisce dopo le prime pagine.
Infatti, anche se prende le mosse ancora una volta dalla guerra in Viet Nam – Paese che l’autore lascia da bambino insieme ai genitori profughi –, Niente muore mai è un potente atto di accusa contro i nazionalismi, di qualsiasi colore essi siano, e le guerre da questi generate. Viet Thanh Nguyen scrive un libro su memoria e identità, ripercorrendo la sua storia personale di esule, ormai occidentalizzato – è professore di American Studies and Ethnicity alla University of South California – ma né pienamente a suo agio con la narrazione dominante della guerra che permea la cultura e la politica americana, né con la tendenza della comunità vietnamita negli Stati Uniti a dimenticare il passato e ciò che ha rappresentato per i vietnamiti il conflitto.
L’autore visita molti luoghi della memoria, nei Paesi vincitori (il Vietnam War Memorial a Washington) e in quelli vinti, e riflette sulla tendenza umana a raccontare le sofferenze, il sacrificio e l’eroismo della propria parte (“i nostri”), contrapposti alla cattiveria e alla spietatezza dell’avversario (“gli altri”). L’analisi si estende poi a opere letterarie e cinematografiche in grado di diffondere la giustificazione e il fascino della guerra in quanto esperienza virile, appassionante e rigenerante – come già si intuiva nel Simpatizzante, ad esempio, qui è esplicitamente dichiarata l’ossessione dell’autore per Apocalypse Now, il film di Francis Ford Coppola entrato nell’immaginario collettivo con la famosa scena dei bombardamenti dagli elicotteri al suono della Cavalcata delle Valchirie.
Diviso in tre parti (Etica, Industrie, Estetica), il volume cerca di offrire una via d’uscita alla trappola della memoria che diviene rafforzamento di identità contrapposte (“la forza etica del ricordare la propria gente irrobustisce le identità condivise di famiglia, nazione, religione e razza” p. 43), e perciò conduce – soprattutto negli Stati Uniti – al sostegno di uno stato di guerra permanente (grazie a un potente complesso militar-industriale), allora in Viet Nam e in seguito in Iraq, in Afghanistan e in futuro in chissà quali altri luoghi. Nel suo personale viaggio alla ricerca di una conciliazione tra le due identità americana e vietnamita, l’autore parte dalla necessità di una “memoria giusta” della guerra, “un’etica complessa della memoria” diversa dalle “ghirlande di eufemismi” e da “un mito glorioso che avvolge tutto come foschia” (p. 13) e trascura completamente il ricordo degli “altri”: “chi si oppone alla guerra mette in primo piano un’etica del ricordo diversa. Vuole che vengano ricordati nemici e vittime, persone deboli e dimenticate, persone emarginate, considerate meno importanti, donne e bambini, ambiente e animali, persone lontane e demonizzate, tutti coloro che hanno sofferto durante la guerra, e che perlopiù sono dimenticati nei memoir nazionalisti” (p. 20). La memoria etica non significa solamente ricordare gli altri, ma comporta il riconoscimento che in ciascun individuo, come in ciascun gruppo o nazione, convive l’umano e il disumano: “ogni progetto che riguardi le umanità, come questo, dev’essere necessariamente anche un progetto sulle disumanità, su come le civiltà si fondino sulla barbarie dimenticata verso gli altri, sul cuore nero che batte nel petto dell’essere umano” (p. 29).
La memoria ingiusta – del “noi”, il bene, contro “gli altri”, il male – è un problema in primis per la superpotenza americana, che in nome della civiltà è stata in grado di commettere le peggiori nefandezze contro le popolazioni inermi di Viet Nam, Laos e Cambogia: “la storia del sostegno alle truppe afferma un’identità americana basata sulla giustizia delle guerre americane e sull’innocenza delle proprie intenzioni. Questa identità è la vera “sindrome del Viet Nam”, la memoria selettiva di un Paese che si immagina perpetuamente innocente” (p. 62). È il fardello dell’uomo bianco di Rudyard Kipling, così ben personificato dall’agente della CIA Alden Pyle in Un americano tranquillo, il capolavoro di Graham Greene: l’idea che l’Occidente debba elevare le altre popolazioni portandole sulla vetta della civiltà, in un percorso di redenzione dalla miseria e dalla ferocia. Questa visione, ricorda Nguyen, dimentica come i bianchi non solo storicamente, nel periodo coloniale, abbiano frequentato gli abissi della disumanità, ma sovente non sono essi stessi in cammino verso la cima illuminata della montagna, preferendo attardarsi sui sentieri inferiori, praticando la stessa violenza di cui sono accusati “gli altri”, i barbari. D’altra parte, specularmente, la memoria degli “altri” – in questo caso i vietnamiti – nasconde, sotto il manto della vittoria, il tradimento degli ideali della rivoluzione oppure, nel caso della comunità di esiliati in America, trascura che il regime del Viet Nam del Sud si macchiò di crimini altrettanto gravi.
La memoria giusta non è semplicemente un esercizio di ricordo della parte avversa, perché quest’ultimo nasconde lo stesso rischio, in maniera più subdola ma non meno pericolosa, di volere incorporare a sé, ai propri valori, all’“American way of life”, popolazioni che provengono da una storia diversa, e non per questo sempre meno degna di essere raccontata. In una critica esplicita a parte della sinistra occidentale, “questa disponibilità a ricordare gli altri, e a concedere loro di ricordare se stessi, giustifica le campagne condotte da società aperte e tolleranti contro altre meno sofisticate dal punto di vista etico” (p. 82). In fondo, “identificarsi con l’umano, e negare la disumanità propria e della propria gente, è il modello estremo di politica d’identità” (p. 84).
Niente muore mai propone invece un’alternativa etica, basata sull’accettazione che in tutti gli individui, di qualsiasi nazionalità, convivano il bene e il male: non riconoscerlo significa “raccogliere il grido umanista che incita a ricordare l’umanità contro uno Stato disumano, dimenticando convenientemente che quest’ultimo non esisterebbe se non esistesse la disumanità nell’uomo, e viceversa” (p. 95). Genocidi come quello avvenuto in Cambogia a opera di Pol Pot – di cui l’autore visita il luogo di sepoltura – sono radicati in questa capacità – tutta umana – di trasformarsi in belve verso i propri simili, e perciò possono avvenire ovunque. Soltanto rivelando “l’universalità scomoda di una disumanità condivisa” (p. 238) si potrà cercare di uscire dalla spirale di una guerra perenne, in cui sembrano intrappolati gli stessi Stati Uniti. L’autore rifugge così da un cosmopolitismo di maniera, spesso foriero di tragiche conseguenze, preferendo abbracciare un discorso sull’essere umano che inevitabilmente a un certo punto incontra gli insegnamenti profetici delle grandi religioni, in cui il perdono riveste un ruolo centrale: “il perdono puro viene dal paradosso di perdonare l’imperdonabile” (p. 315) ed è incondizionato. Diversamente, si tratta di un semplice scambio, come tra l’odierno Viet Nam e gli Stati Uniti (apertura agli investimenti in cambio di protezione dalla Cina), che non rimargina la ferita ancora aperta.
Alla fine, quindi, persino il lettore più scettico – catturato ancora una volta dalla prosa di Viet Thanh Nguyen – comprenderà la valenza universale della riflessione: il modo in cui si trasmette la memoria e viene forgiata l’identità condiziona la nostra scelta di perpetuare la barbarie, salvo poi piangere e portare ghirlande sui monumenti ai (ovviamente nostri) caduti. Fino alla prossima guerra.
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