Gli schemi di violenza sessuale perpetrata nei contesti di detenzione in Siria da parte dell’apparato di sicurezza governativo, o di altri gruppi armati, mostrano come le vittime di tale violenza sistematica siano tanto uomini quanto donne, cisgender e transgender, secondo criteri differenziati e affini. Nonostante l’attenzione internazionale di ricerca e di policy sulla violenza sessuale nei contesti di conflitto abbia attestato la rilevanza del genere nelle pratiche violente prima classificate sotto la voce più comprensiva di “tortura”, alcune analisi tendono a circoscrivere la violenza sessuale in rappresentazioni rigide dei conflitti. Osservare le coordinate strategiche della violenza sessuale in Siria permette, da un lato, di comprendere in che modo la militarizzazione del sesso, all’interno di un contesto di genere determinato, faccia parte di una continuità storica che travalica i confini temporali del conflitto armato; dall’altro, consente di indagare come le relazioni gerarchiche di genere informino le regole della guerra e rispondano a interessi politici che danno loro significato, facendosi strumento di mantenimento del potere attraverso lo sfruttamento, l’abuso e il controllo di corpi subalterni. Tanto la tortura sessuale nelle prigioni quanto la violenza di genere erano vissute in Siria ben prima dell’inizio del conflitto, nel regime autoritario e patrimoniale a più riprese contestato da porzioni della popolazione fino alla rivoluzione del 2011, presto repressa e forzata alla militarizzazione, frammentata e mediatizzata secondo prospettive eterogenee. La funzionalità del terrore esercitato attraverso le violenze sessuali si basa infatti su norme di genere stabilite nel contesto sociale all’interno di un sistema di oppressione etero-patriarcale imposto alle soggettività di ogni sesso o intersesso, che intensifica la repressione abusiva nel momento del collasso delle sue istituzioni, nel tentativo di mantenere un impianto statale che ha ostacolato la pratica politica della cittadinanza e della sessualità per decenni.
L’utilizzo della violenza sessuale sugli uomini – diffuso nelle prigioni centrali di varie città siriane, nei centri di detenzioni della direzione dell’intelligence militare e nei i rami della direzione dell’intelligence dell’aeronautica militare – è riconosciuto come strumento di disumanizzazione, oggettivazione e umiliazione, utile a consolidare o ricostituire la gerarchia di potere tra i soggetti perpetratori e le vittime, assoggettandole, svalutandole, forzandole alla passività e delegittimandone il gruppo o la comunità di appartenenza. Il trauma subìto è connesso alla stigmatizzazione generata da una perdita di mascolinità (nella sua definizione egemonica imposta, intesa come virilità, abilità di esercitare potere e dominio, controllo, superiorità) che compromette il ruolo di genere socializzato nei rapporti in contesti patriarcali etero-normativi, nei quali la violenza sessuale subita è di norma taciuta dagli uomini. Ai traumi successivi all’esperienza della violenza, si aggiunge una pressione sulle vittime dovuta al fatto di essere equiparate a un genere subordinato, ovvero associate a un ruolo generalmente accordato alle donne, rivelando come il significato dei sessi e dei corpi assuma o perda valore secondo dicotomie di genere etero-normative. Tale processo viene classificato come “femminizzazione” (o “omosessualizzazione”, in una diversa accezione contestuale ma conforme alla medesima e radicata relazione tra sessualità, mascolinità e potere, imposta dall’eterosessualizzazione e influenzata dalla militarizzazione) e si rivela uno strumento di conflitto utilizzato per “inferiorizzare” le vittime, violando la loro dignità e autonomia sessuale. Osservandolo tra le righe delle gerarchie esistenti, questo strumento servirebbe a far provare agli uomini, durante il conflitto, quello che in contesti di pace patriarcale – anche europei – si assume possano vivere strutturalmente le donne. Può essere utile formulare alcune domande e considerazioni per osservare le criticità di questi termini della violenza. In quale momento gli atti di violenza di genere iniziano a essere ritenuti pericolosi per la pace e la sicurezza? Quando essi sono invece normalizzati e normalizzabili, per quali ragioni e su quali presupposti? Quali sono le premesse, i dispositivi e le strutture che giustificano la violenza sessuale sulle donne? Quali i soggetti e i processi che ne traggono beneficio? Con quali modalità e legittimità? In questo quadro, sembra tautologico affermare che sono le donne stesse a essere “femminizzate” in un equilibrio gerarchico di genere vigente anche fuori dalle prigioni e nei contesti di pace (o non percepiti né descritti come violenti, siano essi in sistemi autoritari o democratici, stati falliti, di diritto, o in transizione) che tenta di definirle come ricettacoli di caratteri propri, quali ad esempio gli attributi di una femminilità definita dall’esterno – e l’insieme di funzioni che a essa conseguono, strumentali a ordini sociali, politici ed economici definiti. Si pensi ad esempio al lavoro di cura e al lavoro domestico in Italia, inizialmente non riconosciuti né remunerati dal mercato del lavoro, e naturalizzati su un genere stabilito, oltre che su razzializzazioni, etnicizzazioni e classi sociali. Il genere e la violenza di genere possono così diventare espressione e mezzo di una divisione strutturale della popolazione, della cittadinanza, del potere, della forza-lavoro.
In contesti storici e geografici estesi oltre la Siria, in cui la non-conformità di genere è contrastata ciclicamente, l’ordine etero-patriarcale presenta e assegna ruoli di genere codificati – o meglio funzioni di genere – di cui gli uomini possono beneficiare (o essere sopraffatti) e da cui le donne possono essere oppresse. L’analisi di genere della violenza sessuale sugli uomini siriani nel conflitto e dei cortocircuiti nella loro femminizzazione fa trasparire i meccanismi di un sistema diseguale di poteri, ordine e sfruttamento di cui anche gli uomini – e la mascolinità che è loro attribuita in diverse forme – sono strumento.
Integrata a forme di tortura e violenza atte a forzare testimonianze, la coercizione sessuale si dimostra anche nel caso del conflitto in Siria come strumento politico per sottomettere, neutralizzare e smobilitare “il nemico”, punire e scoraggiare l’opposizione (reale o presunta), imporle subordinazione, invalidarla, perpetuare instabilità o mantenere ordine e controllo, contestare o conservare il potere, ma anche terrorizzare la popolazione civile, modificare demografie di comunità etniche e religiose attraverso l’abuso e lo sfruttamento della capacità riproduttiva e il controllo delle nascite, disgregare le minoranze, favorire settarismi ed estremismi di interesse per diversi attori del conflitto, sgomberare aree strategiche o conservarle. Sebbene gli obiettivi possano essere talvolta affini a seconda di chi perpetra la violenza, gli effetti sono conformemente diversi in funzione del genere riconosciuto della vittima nel contesto – di genere – in cui le conseguenze della violenza si dispiegano e si esperiscono (nel caso della detenzione, isolata dalla violenza sessuale subita, in Siria una ex-detenuta è oggetto di una stigmatizzazione che un ex-detenuto non vive, influenzando in maniera differenziata i suoi rapporti pubblici e privati, sociali ed economici). I sessi, i generi e le loro espressioni si rivelano funzionali e politici, assumono valore e significati specifici per i gruppi e gli apparati che esercitano violenza. Essi possono essere compresi nelle loro dimensioni utilitaristiche e predatorie che informano e sostengono le linee della guerra e i rapporti di dominazione. La violenza si conferma così produttiva, oltre che distruttiva.
Per il genere inferiorizzato, la violenza sessuale compromette ulteriormente e gerarchicamente la capacità di accesso all’educazione e di autonomia giuridica ed economica, in linea di continuità con i costrutti di genere preesistenti nell’amministrato e “securitizzato” rapporto tra stato e cittadine/i (o tra l’autorità di un gruppo e i suoi membri), in cui le norme consuetudinarie sono spesso strumentalizzate: nella Siria pre-2011, il diritto all’abitazione, alla libertà di movimento, alla trasmissione della nazionalità, alla sicurezza, all’assistenza e ai servizi, alla giustizia, allo status legale e civile, al matrimonio, al divorzio, alla custodia e al mantenimento, al lavoro, alle risorse, sono tutti condizionati dal genere, oltre che dalle affiliazioni partitiche, religiose, etniche e di classe, strutturando subordinazioni per le donne e costrizioni per gli uomini. Insistendo su una linea temporale, tuttavia, tale subordinazione si situa in una posizione diametralmente anacronistica rispetto alle stesse esigenze portate dal conflitto in Siria che vede, in questo caso, mogli, vedove, separate, divorziate, madri, sorelle, figlie, nipoti di uomini – combattenti o detenuti, rapiti, dispersi o esiliati, ecc. – resistere o meno per l’indipendenza da un sistema giuridico, familiare e relazionale ostile e gerarchico, trovandosi in condizioni di insicurezza, precarietà, povertà, detenzione, disoccupazione o occupazione (anche in settori prima quasi inaccessibili), mantenimento unico del nucleo, proprietà, studio, anzianità, infanzia, tratta, esilio o emigrazione, sfollamento, isolamento, semplice nubilato. Il mutamento di tali condizioni ha creato opportunità e alternative di emancipazione socioeconomica e politica, senza però ridurre l’esposizione alla discriminazione, alla vulnerabilità o allo sfruttamento delle cittadine siriane sulla base del genere.
Problematizzando le dinamiche di genere che si dispiegano nel contesto locale e nelle narrazioni del contesto internazionale, la critica femminista degli studi sui conflitti mostra come il patriarcato e la violenza sessuale non siano manifestazioni particolari ma fenomeni strutturali dei rapporti, che operano su disuguaglianze assimilate e sfruttate nella politica economica della violenza e della guerra in ragione della loro sostenibilità. È possibile quindi ipotizzare, oltre alla militarizzazione del sesso, una militarizzazione dello stesso patriarcato (o della violenza di genere), nella misura in cui anch’esso è utilizzato come strumento di oppressione contro civili – uomini, oltre che donne – a fini bellici che deteriora, nel caso siriano, processi di partecipazione, di auto-organizzazione e di sperimentazione ed esercizio di diritti.
Se è indubbio che l’assetto giuridico-legislativo siriano ha contenuto – oltre alle possibilità di cittadinanza delle donne, rese dipendenti dagli uomini – le identità e le espressioni di genere non conformi a quelle etero-normate (l’articolo 520 del codice penale siriano del 1949 criminalizza ogni rapporto sessuale “innaturale”), non sono probabilmente le narrazioni liberali, spesso neo-orientaliste e culturaliste – strumentali al mantenimento di posizioni di dipendenza, anche in contesti umanitari – che permettono di comprendere come le persone siriane abbiano potuto, voluto o cercato di vivere o esprimere le proprie sessualità all’interno di strutture patriarcali, sfidando le rappresentazioni binarie ed etero-normate dei generi nelle società, inserendosi nelle loro fratture, seguendo percorsi ibridi di mediazione e negoziazione (performance di genere), complementarietà, contraddizione e contaminazione. Tali percorsi sono spesso ignorati dalle rappresentazioni esterne, incentrate su una visibilità normalizzante e sensazionalistica delle violenze esperite durante il conflitto o la dittatura.
Risulta in questo senso rilevante mantenere alta l’attenzione sulle strumentalizzazioni e le universalizzazioni delle categorie femministe. L’uso istituzionalizzato delle prospettive fornite dall’intersezionalità nelle Relazioni Internazionali rischia di separare l’esito delle rivendicazioni dalla contestazione stessa, vanificando la critica alle strutture di potere comprensive (di repressione politica legalizzata, esclusione e militarizzazione in Siria) che solitamente informano la necessità di un approccio intersezionale utile a decorticarle per l’identificazione di episodi e possibilità di prassi comuni. L’adozione prescrittiva e acritica dell’intersezionalità agevola discorsivamente la divisione e la riproduzione delle categorie sociali, fissandole, negandone la fluidità, includendone alcune ed escludendone altre, a spese dell’attivismo intersezionale e convergente non nuovo alle aperture pluraliste dei femminismi. Le rappresentazioni intersezionali vengono così mediatizzate e integrate da narrazioni che si situano all’origine di rapporti gerarchici, di oppressione e marginalizzazione, e necessitano di una critica analoga a quelle mosse contro il femminismo istituzionalizzato, il quale tende a depoliticizzare le origini delle necessità strumentalizzando una comunicazione cosmetica focalizzata sul carattere “femminile” (emancipazione, empowerment, partecipazione, rappresentazione, leadership, imprenditoria, ecc.), senza far luce sulle istanze femministe che vorrebbero informare processi di liberazione più aperti e olistici – di donne e di uomini, di soggettività e comunità – da meccanismi di oppressione e di violenza strutturale e quotidiana innervati attorno a genere e sesso.
A partire dal suo lavoro di ricerca, diffusione, formazione e mobilitazione, l’organizzazione siriana Women Now For Development cerca di integrare più approcci, contrastando quei processi e agenti che sembrano imporre un’identità all’insieme di posizioni eterogenee, molteplici e interminate delle donne siriane e delle loro esperienze divergenti all’interno o all’esterno del paese. In collaborazione con organizzazioni come Dawlaty e Families for Freedom, Women Now cerca di informare e beneficiare di reti di solidarietà che intendono formulare discorsi di ri- o de-costruzione sociale in grado di mettere in discussione modelli, valori e pratiche patriarcali all’origine di alcune dinamiche violente e delle strutture sociali, politiche ed economiche presenti in Siria prima e durante la guerra. Questi gruppi della società civile siriana, spesso facilitati da strutture diasporiche (non omogenee), permettono la contaminazione transnazionale (e intersezionale) tra femminismi, non scevra da scontri e tensioni tanto all’esterno quanto all’interno del paese, nello sforzo di orientare e immaginare processi di trasformazione ibridi già in corso. Tali meccanismi possono prendere spazio lungo fasi di transizione formali o non formali, disegnate attraverso dispositivi di riparazione sensibili ai danni subiti e mediante strumenti di ricostruzione e riabilitazione legittimi e reattivi a reali bisogni e condizioni. Nella produzione del sapere, queste organizzazioni vogliono mantenere l’attenzione sulla legittimità, la complessità, la praticità e l’efficacia di varie forme di femminismo nelle diverse aree della Siria apparentemente escludenti. Nel tentativo di contrastare l’uso strumentale della violenza di genere in Siria, esse si contrappongono quando possibile alla rappresentazione riduttiva associata talvolta alla categoria di “vittime”, che individualizza coloro che hanno subìto violenza secondo criteri che ne disattivano la soggettività politica, l’agency, l’influenza e ne marginalizzano la voce, l’esperienza, la prospettiva. Una prospettiva collettiva che alcuni femminismi cercano di tracciare e di integrare in opposizione agli obiettivi programmatici di pace e sviluppo liberali a cui gli aiuti e l’assistenza sono spesso vincolati anche nei contesti di conflitto e post-conflitto.
Per saperne di più:
Ali, Z. (2019) Gender Justice and Feminist Knowledge Production in Syria. Women Now for Development. Disponibile su: https://women-now.org/gender-justice-and-feminist-knowledge-production-in-syria/
Dawlaty e WILPF (2021) The human rights of women in Syria between discriminatory law, patriarchal culture and the exclusionary politics of the regime. Disponibile su: https://dawlaty.org/en/publications/the-human-rights-of-women-in-syria-between-discriminatory-law-patriarchal-culture-and-the-exclusionary-politics-of-the-regime/
Meger, S. (2021) “Sexual Violence in Times of War and Peace” in: Väyrynen, T., Parashar, S., Féron, É., e Confortini, C.C. (a cura di) Routledge Handbook of Feminist Peace Research a cura di Tarja Väyrynen, Swati Parashar, Élise Féron, Catia Cecilia Confortini. Disponibile su: https://www.taylorfrancis.com/chapters/edit/10.4324/9780429024160-13/sexual-violence-times-war-peace-sara-meger
Saleh, F. (2020) “Queer/Humanitarian Visibility: The Emergence of the Figure of The Suffering Syrian Gay Refugee”, Middle East Critique, 29(1). Disponibile su: https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/19436149.2020.1704501
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