Il 1° febbraio 2021 i generali birmani sono tornati al governo del Myanmar con un colpo di mano, appena dieci anni dopo aver abbandonato, almeno in apparenza, il timone che reggevano ininterrottamente dal 1962. Nel 2010, infatti, si tennero le prime elezioni dal 1990, ma a differenza di quanto avvenne vent’anni prima, in questo secondo caso un governo civile prese effettivamente la guida del paese. Per quanto incoraggianti, le elezioni del 2010 e il successivo insediamento del governo di Thein Sein non scaldarono più di tanto i cuori di coloro che desideravano una democratizzazione profonda del Myanmar. Thein Sein, infatti, è un ex generale e il partito che guidava – lo United Development and Solidarity Party (USDP) – era ed è di fatto il partito proxy del Tatmadaw, ovvero delle forze armate birmane. I ranghi dell’USDP erano, e sono ancora, pieni di ex militari che hanno dismesso l’uniforme per dedicarsi alla carriera politica.
Benché l’inizio del processo di democratizzazione fosse stato timido, le cose parvero migliorare progressivamente, anche relativamente in fretta. Nel 2010 il maggiore partito di opposizione, cioè la National League for Democracy (NLD) guidata dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, decise di boicottare le elezioni poiché non aveva fiducia nella volontà dei militari di democratizzare sul serio e – soprattutto – poiché molti suoi esponenti (fra cui la stessa Aung San Suu Kyi) si trovavano agli arresti. Tuttavia, subito dopo essersi insediato, il governo Thein Sein decise di rilasciare un numero significativo di prigionieri politici, tra cui la stessa Aung San Suu Kyi. In seguito a questo gesto di buona volontà, l’NLD prese parte alle elezioni suppletive del 2012, conquistando diversi seggi e sancendo l’ingresso formale di Aung San Suu Kyi in parlamento.
Nel 2015 si tennero le nuove elezioni generali. Questa volta l’NLD partecipò, vincendo a mani basse e conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. Il governo uscente, l’USDP e il Tatmadaw accettarono senza battere ciglio il risultato, e si insediò dunque un governo guidato formalmente da Aung San Suu Kyi. La Costituzione birmana creata dai militari nel 2008 non consente a chi ha coniuge o figli stranieri di assumere la carica di presidente (una norma voluta per limitare le ambizioni politiche di Aung San Suu Kyi, sposata con lo storico inglese Michael Aris dal 1973), ma la cosiddetta “Lady” aggirò questo limite creando per sé la carica di “State Counsellor”, di fatto una posizione di primo ministro non prevista dalla Costituzione.
Le ultime elezioni si sono tenute nel novembre del 2020. L’NLD non ha solo riconfermato il proprio risultato elettorale del 2015, ma ha addirittura guadagnato un pugno di seggi in più in entrambi i rami del parlamento. Fino all’inizio del 2021, dunque, il regime politico birmano sembrava seguire un processo di progressiva e incrementale democratizzazione. Il 1° febbraio 2021, però, il Tatmadaw ha premuto il tasto “stop” e, proprio il giorno in cui il nuovo parlamento avrebbe dovuto insediarsi, ha arrestato numerosi esponenti politici e si è posto forzosamente di nuovo alla guida del paese.
Il golpe del 1° febbraio ha colto di sorpresa chi osserva il Myanmar per tre motivi principali. In primo luogo, il risultato delle elezioni del 2020 non è significativamente diverso da quello delle precedenti: su un totale di 664 seggi parlamentari (di cui il 25% assegnato per Costituzione a rappresentanti militari non eletti), rispetto al 2015 l’NLD ha guadagnato 6 seggi e l’USDP ne ha persi 9. Nei fatti, si trattava della riproduzione di un risultato già visto. In secondo luogo, indipendentemente dai risultati elettorali nessuna forza politica in Myanmar può riformare la Costituzione senza l’approvazione del Tatmadaw perché questo tipo di operazione richiede una maggioranza parlamentare del 75%+1 e, come ricordato poco sopra, un quarto dei seggi sono di default occupati dai militari. Non esiste dunque vittoria elettorale che consenta di smantellare nessuno dei privilegi costituzionalmente garantiti ai militari (tra i quali il controllo del Ministero dell’Interno e l’assoluta indipendenza giudiziaria ed economica del Tatmadaw) senza il consenso dei militari stessi. Ultimo ma non meno importante, i vertici del Tatmadaw che erano in carica il 1° febbraio erano gli stessi che occupavano la posizione già quando l’NLD aveva vinto le elezioni e si era insediato al governo la prima volta. Anzi: l’attuale comandante in capo del Tatmadaw, Min Aung Hlaing, guida le forze armate dal 2011, ovvero da quando l’ultimo dittatore birmano, Than Shwe, ha fatto un passo indietro e ha lasciato le redini del governo a Thein Sein. Quindi non si tratta di certo di una diversa sensibilità del Tatmadaw a uno stesso risultato politico, e nemmeno una scorciatoia per uno o più ufficiali ambiziosi che hanno deciso di accelerare la propria carriera via colpo di stato.
Ma il fatto che il golpe sia stato sorprendente significa anche che sia altrettanto inspiegabile? Lo è solo se lo si valuta esclusivamente sulla base degli eventi degli ultimi dieci anni e non si considera come il regime militare birmano si sia preparato alla democratizzazione negli anni che precedono il 2010, stabilendo limiti precisi alla propria cessione volontaria di potere. Si tratta di una storia che parte dalla sanguinosa repressione del 1988 e che porta progressivamente la giunta militare ad abbracciare l’idea di ammorbidire il regime per rilanciare la stagnante economia birmana, ridurre l’opprimente dipendenza dalla Cina e migliorare le relazioni esterne (in primis con i paesi dell’ASEAN, ma anche con Giappone, Australia, Europa e Stati Uniti). Con questa agenda in mente, Than Shwe ha avviato una cauta liberalizzazione politica che si è sostanziata nella Costituzione del 2008 e nei tre cicli elettorali che ne sono seguiti. Nella mente dei suoi architetti militari, la democratizzazione avrebbe dovuto essere assai parziale e produrre un regime in cui il potere del Tatmadaw era ingentilito e “in borghese”, ma comunque dominante rispetto a qualunque altro.
Il Tatmadaw ha portato avanti questa agenda in molti modi. Sul piano più prettamente formale, ha prodotto una Costituzione (entrata in vigore due anni prima delle elezioni del 2010) che, come è stato detto prima, cristallizza il potere dei militari, rendendolo indipendente e superiore a qualunque altro. La Costituzione, inoltre, prevede un meccanismo che consente ai militari di re-insediarsi alla guida del paese. In questo senso, la presa di potere a cui abbiamo assistito il 1° febbraio è stato un golpe letteralmente “da manuale” perché ha sfruttato tutti gli strumenti messi in mano ai militari dalla Costituzione stessa: in primo luogo, il Tatmadaw ha impiegato il proprio controllo del Ministero degli Interni – e dunque delle forze di polizia – per arrestare le cariche chiave dello stato; dopodiché, una volta sgombrato il campo da qualunque possibile interferenza da parte di forze politiche considerate ostili, è stato dichiarato lo stato di emergenza con conseguente trasferimento del potere nelle mani dei militari seguendo le procedure costituzionalmente previste. Il fatto stesso che questo tipo di passaggio di consegne fosse previsto nella Costituzione è indicativo del fatto che il costituente birmano – cioè il Tatmadaw – si aspettasse di dovervi ricorrere prima o poi. E così ha fatto, il 1° febbraio.
Ma la domanda resta: perché mai i militari hanno deciso di riprendere in mano le redini del paese? Erano forse stufi della parentesi semi-democratica che loro stessi hanno disegnato e volevano tornare al vecchio modello di governo diretto? O hanno avvertito la presenza di qualche minaccia non immediatamente visibile? Piuttosto che speculare sulle loro intenzioni, è di gran lunga più rivelatorio osservare che cosa hanno fatto una volta tornati al governo e provare a stilare qualche ipotesi a partire da questo. Con riferimento alla dimensione politica, tre elementi sopra gli altri si presentano come rilevanti. Primo: la riforma del sistema elettorale. Attualmente in Myanmar vige un sistema maggioritario, il che comporta che il partito che ottiene la maggioranza in un determinato collegio elettorale si aggiudichi tutti i seggi di quel collegio, a scapito dei partiti di minoranza. L’attuale governo militare ha ripetutamente dichiarato di voler sostituire il sistema maggioritario con quello proporzionale e ha avviato consultazioni in tale senso. Come è facile immaginare, questo andrebbe a vantaggio dell’USDP, che potrebbe capitalizzare quelle piccole sacche di consenso spazzate via dalla dominanza dell’NLD in un sistema maggioritario.
Secondo: la riforma della Union Election Commission (UEC), la commissione di controllo elettorale incaricata di bandire e verificare i risultati elettorali. Una commissione indipendente è un prerequisito per elezioni libere da interferenze indebite, ma in Myanmar questo presupposto non si è mai verificato perché la UEC è di fatto sotto il controllo dell’esecutivo. Nonostante questo, le elezioni sono sempre state relativamente regolari. Tuttavia, il fatto che la UEC sia a controllo governativo significa anche che la sconfitta elettorale del 2015 ha sottratto ai militari la possibilità di usare la UEC per “aggiustare” i risultati sgraditi tramite brogli. Subito dopo il golpe, i membri della UEC sono stati rimpiazzati ed è lecito immaginare che in futuro a tale organo non sarà garantito spazio di manovra distante dalla volontà del Tatmadaw, indipendentemente da chi sia al governo.
Terzo: la revisione al ribasso della competizione politica, mettendo al bando l’NLD. I membri della “nuova” UEC insediata dai militari hanno rilasciato numerose dichiarazioni in cui ritengono l’NLD responsabile di frodi elettorali (delle quali non vi è traccia) e dunque indegna di partecipare alla vita politica birmana. L’NLD è l’unico partito in grado di sfidare lo USDP sul piano nazionale, poiché gli altri partiti sono sovente definiti su una base etnica o locale. Di per sé, già la riforma del sistema elettorale e della UEC sarebbero sufficienti a garantire ripetute vittorie al partito appoggiato dai militari in eventuali elezioni future, ma evidentemente il Tatmadaw preferisce ridurre i rischi al minimo.
Ai tre punti appena indicati va aggiunto quanto citato in precedenza, ovvero le modalità stesse di ritorno al potere impiegate dai militari: sfruttare, invece di calpestare, i canoni previsti dalla Costituzione e con essa l’ordine costruito nei decenni passati. Una volta messi in prospettiva tutti questi elementi, l’impressione che se ne deriva non è che il Tatmadaw si sia stufato del cosiddetto “gioco democratico” – che in Myanmar è sempre rimasto limitato, e ha favorito la loro parte più di qualunque altra – quanto che vogliano piuttosto riformare il regime che hanno inventato per evitare che questo evolva in direzioni indesiderate.
Ma perché lo vogliono riformare? Il replay della sconfitta elettorale del 2015 ha reso evidente che l’USDP sarebbe probabilmente rimasto un partito di minoranza a tempo indeterminato, ridotto a una nicchia parlamentare così piccola da non poter dettare la politica nazionale a livello formale nemmeno combinando i suoi voti con quelli dei delegati militari in parlamento. Questo avrebbe sistematicamente tagliato fuori il Tatmadaw da una serie di possibilità, prima tra le quali la determinazione del presidente del paese, una posizione chiave anche nel definire il rinnovo delle stesse alte cariche militari. Dal momento che Min Aung Hlaing deve andare in pensione – e che ha già rimandato tale passaggio nel 2015, proprio dopo la vittoria dell’NLD – il rischio che si andava profilando era quello dell’ascesa di un nuovo comandante in capo di compromesso, potenzialmente più tollerante verso le richieste di riforma. Questo a sua volta avrebbe potuto minare alle fondamenta la democrazia limitata voluta dai militari e sancita nella Costituzione del 2008, aprendo la porta a successive riforme.
Per prevenire questo rischio, piuttosto che fare i conti con i suoi effetti, il Tatmadaw ha deciso di ricorrere al sistema di emergenza che esso stesso ha progettato, dandosi lo spazio per riformare le regole del gioco in modo da eliminare anche eventuali rischi futuri. Non casualmente il programma di riforme politiche presentato dal regime militare nel 2003 aveva come obiettivo finale dichiarato una “democrazia disciplinata”. La fase 2010-2020 è stata dunque il periodo in cui il Tatmadaw ha messo “alla prova”, per così dire, il prototipo di regime che esso stesso ha progettato. Una volta vista la macchina in azione, ha individuato i bug e ha tirato il freno di emergenza al fine di arrestare il motore e cesellare via gli elementi sgraditi. Naturalmente resta da vedere se i militari saranno in grado di realizzare la loro agenda anche questa volta oppure se le cose andranno diversamente. Quello che è chiaro è il regime che il Tatmadaw sogna: un sistema in cui le elezioni sono concesse, ma il cui esito è sostanzialmente scontato; che lasci dunque le redini del governo indirettamente in mano al Tatmadaw, consentendo al contempo di evitare di pagare i costi economici e diplomatici che di norma colpiscono i regimi palesemente autoritari.
Per saperne di più
Ruzza, S., Gabusi, G. e Pellegrino, D. (2019) “Authoritarian resilience through top-down transformation: Making sense of Myanmar’s incomplete transition”, Italian Political Science Review, 49(2). Disponibile su: https://doi.org/10.1017/ipo.2019.8
Ruzza, S. (2021) “Alive but not well: It’s a hard life for Myanmar’s democracy”, The Loop: ECPR’s Political Science Blog. Disponibile su: https://theloop.ecpr.eu/alive-but-not-well-its-a-hard-life-for-myanmars-democracy/
Ruzza, S. (2021) “The end of Myanmar’s semi-democratic experiment? Not yet. Making sense of 1st February”, T.note n. 96. Disponibile su: https://www.twai.it/journal/tnote-96/
Ugolini, E. (2021) “Colpo di stato in Myanmar. Parla Stefano Ruzza”, Geopolitica.info. Disponibile su: https://www.geopolitica.info/colpo-di-stato-in-myanmar-parla-stefano-ruzza-unito/
“The public discourse in Italy about international affairs is often hijacked by amateurs posing as geopolitical analysts. They resort to maps and other visual... Read More
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