[LA RECENSIONE] Le figlie delle catastrofi: Un’etnografia della crescita nella ricostruzione di Ace

Le figlie delle catastrofi

Silvia Vignato, Le figlie delle catastrofi: Un’etnografia della crescita nella ricostruzione di Aceh, Milano: Ledizioni, 2020

Aceh è un territorio con autonomia speciale situato all’estremità settentrionale dell’isola di Sumatra, in Indonesia. Il 24 dicembre 2004 uno tsunami proveniente dall’Oceano Indiano si abbatte sulle sue coste, provocando circa 200.000 vittime, quasi il 5% della popolazione totale (4.500.000 abitanti). La tragedia si aggiunge alle devastazioni provocate da una lunga guerra di resistenza, iniziata nel 1974 e conclusasi nel 2005, di una parte della popolazione contro l’esercito indonesiano.

Questa doppia catastrofe non solo genera morte e distruzione fisica, ma provoca anche disarticolazioni profonde del tessuto sociale e istituzionale. A farne le spese sono in primo luogo le bambine e i bambini, affidati alle istituzioni caritatevoli (spesso di matrice islamica) da genitori troppo poveri per mantenerli, o da parenti di genitori che non ci sono più. Della storia di alcune bambine nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, passando per l’adolescenza, si occupa “Le figlie delle catastrofi”, il libro di Silvia Vignato, antropologa presso l’Università di Milano-Bicocca (e membro del comitato di redazione di questa rivista, ndr). Frutto di un lavoro etnografico durato molti anni, il volume offre un resoconto delle “traiettorie frastagliate di crescita” delle protagoniste, attraverso la “restituzione evolutiva” della scena “e delle persone che la compongono” (p. 20).

Le storie personali si svolgono sulla scena in movimento della ricostruzione, della pace e dello sviluppo economico, confuso e contraddittorio come accade nei Paesi di recente modernizzazione. L’autrice ammette quindi l’instabilità del suo campo di ricerca, con l’eccezione di una costante: le protagoniste “erano povere quando le ho conosciute e povere sono restate” (p. 22). Tuttavia, il contesto di accelerato cambiamento sociale rende la povertà una condizione in continuo divenire: “i figli della catastrofe e della ricostruzione si destreggiano oggi fra lavori mal pagati, ideali irraggiungibili, uno Stato dal quale si vivono come esclusi e una rete di relazioni legate al villaggio d’origine debole e spesso inaffidabile” (p. 22). Citando Pierre Bourdieu, Vignato ricorda quindi la condizione di miseria delle sue interlocutrici, “una modalità affettiva e percettiva che qualifica ogni aspetto della vita delle persone povere, destinando […] ogni politica di intervento a confermare e ribadirne la condizione di subalternità” (p. 22). Gli effetti delle catastrofi e le esigenze della tumultuosa crescita globalizzante si incontrano e si scontrano con l’eredità e il ricordo (o è nostalgia?) della vita in una società tradizionale, in cui vi sono meno possibilità ma anche meno illusioni e più sicurezza: queste ragazze infatti “vivono il lavoro come una condizione transitoria e priva di valore, slegata da diritti e simile a un apprendistato che preluda alla loro “vera” identità di madre, moglie e padrona di casa” (p. 23).

Nei cinque capitoli che compongono il libro, Vignato organizza il racconto attorno a diverse “matrici simboliche trasformative”, degli “snodi esistenziali determinanti” (p. 24) che segnano la vita delle protagoniste nel rapporto con se stesse e il contesto sociale: le catastrofi, innanzitutto, l’autonomia e l’accudimento, cifra del percorso di crescita negli orfanotrofi e nelle scuole coraniche, la sessualità fuori dal matrimonio, il lavoro urbano – l’unica scena in cui “compare direttamente un personaggio maschile” (p. 29).

Perse tra desiderio di autonomia e aspirazione al matrimonio, tra pesanti turni di lavoro per impieghi malpagati e poco tempo libero da dedicare alle amiche o al giro in motorino con un potenziale fidanzato, Esti, Eka, Lisa/Puput, Yana e le altre non riescono a emanciparsi da una marginalità diffusa che le esautora dei diritti. Nell’ideologia dell’Ordine Nuovo ai tempi di Suharto, e che evidentemente ha lasciato tracce profonde, la donna non lavora, e se lavora dice “di far qualcosa solo “per aiutare il marito” “ (p. 174). C’è quindi spesso una dimensione di attesa del tempo che verrà e che contribuisce a rinnovare una spirale di precarietà-sfruttabilità-indigenza-infelicità: “il matrimonio e il cambiamento si configurano come sempre possibili, sempre desiderati e sempre legittimi e il lavoro mal pagato risulta come una accidente a cui sarà presto posto riparo, e che non merita perciò soverchio interesse” (p. 168). Senza contare che “l’accesso al lavoro tradizionalmente maschile […] [è] un privilegio” concesso a chi ha saputo costruire una rete clientelare con il partito giunto al potere dopo il conflitto (p. 162).

C’è disillusione: più passavano gli anni – in un ambiente di rapido progresso tecnologico e infrastrutturale, di creazione di una società consumistica, di ridefinizione della moralità in senso islamico, di rafforzamento delle istituzioni locali – , più “le ragazze si trovavano […] lontane dagli ideali proposti dalla ricostruzione” (p. 213). Non vi è però spazio per la rassegnazione, e tra le pagine si scorge la speranza come necessità: forse perché lo spirito del tempo, nei Paesi in rapida trasformazione, ha lo sguardo rivolto al futuro, in questo “muoversi fra diverse esperienze di sé”, “al contempo emotive, affettive, corporee, cognitive e relazionali” (pp. 214-215), le protagoniste si inventano e si re-inventano come soggetti in movimento sul palcoscenico dell’esistenza, facendosi trovare pronte a un mondo futuro in grado di concedere una possibilità, da cogliere al volo.

Malgrado il testo sia frutto di una ricerca accademica rigorosamente condotta sul campo (o forse proprio per questo), il libro è di affascinante lettura anche per il pubblico non specialista, grazie alla capacità dell’autrice di descrivere con vivacità letteraria i pensieri, i sentimenti, i rapporti sociali delle “figlie delle catastrofi”, in un processo di costruzione individuale e del loro stare nel mondo che rivela la grandezza, e allo stesso tempo la fragilità, dell’universale condizione umana. Se solo la narrazione della Storia mettesse al centro le persone, avremmo forse un’altra visione dei grandi fenomeni del nostro tempo, e saremmo maggiormente consapevoli dei loro effetti concreti.


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