Il contenzioso sul Mar Cinese Meridionale rappresenta uno degli snodi geopolitici più importanti a livello globale, sia per l’importanza degli attori coinvolti sia per il valore intrinseco della vasta regione marittima. Gli stati coinvolti direttamente nella disputa sono infatti Brunei, Cina (sia la Repubblica Popolare Cinese sia Taiwan), Filippine, Malaysia e Vietnam. Le rivendicazioni di questi cinque stati si estendono su una superficie di circa 3,5 milioni di km² in cui sono presenti più di duecento tra isole, rocce e promontori, ma in realtà si focalizzano principalmente su quattro arcipelaghi di isole: Macclesfield Bank, le Paracel, le Pratas e le Spratly. L’area si presenta come un ecosistema altamente integrato, uno dei mari più ricchi al mondo in termini di ricchezza di flora e fauna, oltre a essere di vitale importanza per gli stati rivieraschi a causa della presenza di importanti risorse naturali come gas, petrolio, gomma e risorse ittiche.
Lasciando da parte le istanze irredentistiche e le pretese di sovranità sulle isole sollevate dai diversi contendenti, la rilevanza strategica del Mar Cinese Meridionale è ascrivibile all’insieme delle risorse materiali e immateriali (come le vitali rotte marittime e il controllo sulle acque) presenti al suo interno. La presenza di vasti giacimenti di petrolio e gas naturali ha consentito la stipula di contratti di esplorazione e sfruttamento congiunto, sia tra i contendenti sia includenti terze parti. Nel 2005 venne stipulato un importante accordo tra la Chinese National Offshore Oil Company, la Philippines National Oil Company e la PetroVietnam. Nel corso degli ultimi quindici anni sia il governo cinese sia quello vietnamita hanno firmato accordi con compagnie australiane e statunitensi, la cui validità viene sistematicamente rigettata dagli altri contendenti.
Malgrado ciò, lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo marino non è mai stato motivo di frizione quanto il controllo delle rotte marittime e delle risorse ittiche. Alcune delle più importanti rotte commerciali, attraverso le quali il petrolio proveniente dal Medio Oriente arriva nei porti cinesi, coreani e giapponesi, sono tracciate infatti all’interno dello spazio marittimo. Più dell’80% delle importazioni di greggio di Giappone, Corea del Sud e Taiwan passa per le acque del Mar Cinese Meridionale, e più della metà della flotta mercantile mondiale transita annualmente per gli stretti di Malacca, Lombok e Sonda. Circa i due terzi delle forniture energetiche sudcoreane e il 60% di quelle giapponesi e taiwanesi transitano su queste acque. Di conseguenza, garantire sicurezza al massiccio flusso di trasporti è un requisito necessario per sostenere un tale volume commerciale.
La crescente dipendenza dalle importazioni di petrolio e gas viene vista dall’élite politica cinese come una debolezza, e come una vulnerabilità strategica. Per il governo di Pechino mantenere il controllo su rotte e risorse è un imperativo, nonché una priorità nazionale, e la bulimia di materie prime ha progressivamente convinto la Cina a rinnovare la propria assertività marittima, chiudendo di fatto qualsiasi possibilità di ridiscutere lo status quo e cercando di promuovere e affermare la propria supremazia regionale. Il controllo sulle rotte che attraversano il Mar Cinese Meridionale, ancor più dei giacimenti sotto i suoi fondali, è la vera fonte di potere in grado di garantire sicurezza, prosperità e stabilità interna. L’evoluzione strategica della marina militare cinese, in grado ora di operare anche a grande distanza dalla costa, così come l’ampliamento e la costruzione di isole artificiali, deve essere interpretata anche alla luce di queste necessità. Soprattutto i lavori portati avanti nell’arcipelago delle Spratly, aspramente criticati da Filippine e Vietnam, si sono concretizzati nella costruzione di strutture polifunzionali capaci di ospitare imbarcazioni sia militari sia civili.
Se la dimensione militare di questa strategia è finalizzata proprio a securizzare le rotte marittime fondamentali, la componente civile, costituita principalmente da pescatori, ha il compito di rendere operative alcune delle decisioni politiche prese per tutelare il pressoché totale monopolio cinese sulle risorse ittiche. Le problematiche generate dalla scriteriata gestione delle risorse ittiche vengono spesso minimizzate e sottovalutate, ma in realtà rappresentano il più plausibile detonatore per uno scontro nella regione. L’autoproclamata sovranità cinese sulle acque contese si è concretizzata nella calendarizzazione di turni e divieti di pesca, stabiliti unilateralmente da Pechino, che hanno inevitabilmente causato l’irrigidimento del rapporto con gli altri stati rivieraschi. Paesi come Filippine, Indonesia e Malaysia non hanno intenzione di accettare supinamente le disposizioni cinesi e hanno provveduto a rafforzare le rispettive flotte, in modo da salvaguardare i propri interessi e le necessità nutrizionali della popolazione. Il pesce è infatti un alimento fondamentale nella dieta di tutte le popolazioni estremorientali, e il suo consumo è in costante ascesa. L’ultimo rapporto della FAO sull’argomento, pubblicato nel 2013 e intitolato “Fish to 2030: Prospects for Fisheries and Aquaculture”, conferma questa tendenza e presenta dei dati decisamente significativi se rapportati al Mar Cinese Meridionale. Secondo il documento, entro il 2030 l’Asia Meridionale e l’Asia-Pacifico conteranno per il 70% del consumo mondiale di pesce. All’interno dello stesso dato, solamente la proiezione di consumo della Cina ammonta al 38% del totale.
L’eccessivo volume di pesca, senza dimenticare i problemi ambientali causati dalle operazioni cinesi nelle Spratly, ha pressoché dimezzato la ricchezza ittica del Mar Cinese Meridionale e spinto i pescatori, in particolare quelli cinesi, sempre più lontano dalle proprie zone di competenza. Nel mese di agosto la Cina ha inaugurato un nuovo porto nell’isola di Hainan, non lontano dalla base militare di Sanya. La struttura ha il compito di sostenere le operazioni di pesca nel Mar Cinese Meridionale e sarà fondamentale per la salvaguardia dei diritti arrogati da Pechino nella regione. L’assertività cinese sta dunque trovando un nuovo modo di esprimersi, ponendo quasi in secondo piano la questione irredentistica per concentrarsi sulla tutela delle fondamentali risorse materiali e immateriali. Le autorità cinesi hanno ribadito la volontà di perseguire qualsiasi peschereccio straniero sorpreso a operare nelle proprie acque territoriali. Ne è scaturito un effetto domino che ha portato gli stati rivieraschi, che si sono visti quasi alienati dei propri diritti alla pesca, a rispondere in maniera altrettanto assertiva. Indonesia e Malaysia hanno provveduto a organizzare dei pattugliamenti intensivi nelle proprie acque, bloccando e sequestrando qualsiasi imbarcazione sconosciuta. La marina indonesiana ha addirittura deciso di far saltare in aria alcune imbarcazioni sequestrate, riprendendo l’accaduto e diffondendolo poi ai principali media come monito. Le autorità malesi hanno deciso di adottare la stessa linea, escludendo però le esplosioni in mare aperto.
In conclusione, spesso dimentichiamo quanto siano importanti determinate risorse, soprattutto quelle con una dimensione principalmente locale, per concentrarci su quelle di portata globale. L’ossessiva ricerca di risorse energetiche ha probabilmente esasperato la prospettiva di una guerra per il petrolio nel Mar Cinese Meridionale, che è in realtà improbabile data la disponibilità cinese a condividere tali risorse, come testimoniato dall’accordo firmato nel 2005 con Filippine e Vietnam. Come abbiamo potuto vedere la questione è diametralmente opposta per quanto riguarda le risorse ittiche, la cui salvaguardia è fonte di legittimità interna per tutti gli stati coinvolti nella diatriba. Questa è diventata ormai la più volatile tra le problematiche marittime nel sudest asiatico, sino a rappresentare la più probabile fonte di conflitto nel prossimo futuro.
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