L’“invenzione” della droga – dall’individuazione dei suoi principi attivi, alla creazione di uno dei mercati più vasti e proficui al mondo (l’epitome della globalizzazione) – rappresenta a tutti gli effetti uno dei massimi esempi storici di sinergia tra pubblico e privato, tra stato e capitalismo. Ed è un’impresa i cui “meriti” vanno in tutto e per tutto attribuiti al mondo occidentale: le potenze europee prima, gli Stati Uniti poi.
Innanzitutto, le droghe come sostanze psicoattive sono un’invenzione europea: il frutto delle ricerche di chimici in prevalenza tedeschi finalizzate a sintetizzare sostanze presenti in natura e note fin dall’antichità per le loro virtù terapeutiche (sia calmanti che euforizzanti), al fine di favorirne la facilità di assunzione. Questo vale per la morfina e l’eroina come derivati dell’oppio, scoperte a quasi un secolo di distanza, tra l’inizio e la fine dell’Ottocento; e così pure per la cocaina, la cui sintesi, in modo ancora più evidente, rappresenta il risultato di una ricerca deliberata del “principio attivo” della coca. La scoperta della formula della cocaina idrocloride arriva infatti, tempestivamente, a risolvere il problema della troppo facile deperibilità delle foglie di coca nel trasporto lungo le tratte transoceaniche o continentali, nel momento di massimo successo commerciale di prodotti che ne fanno uso, come l’elisir francese Vin Mariani e, più tardi, negli Stati Uniti, la Coca-Cola e la Coca-Bola (tabacco da masticare).
Poster pubblicitario Vin Mariani.
In secondo luogo, fin dall’inizio le grandi industrie farmaceutiche europee e nordamericane sfruttano a proprio vantaggio l’ambiguità e la labilità del confine tra uso terapeutico e voluttuario. Per fare un esempio, nel 1898, nello stesso periodo in cui la cocaina si afferma come componente di bevande sigarette e linimenti, l’industria tedesca Bayer avvia la produzione di un farmaco da essa denominato “eroina”, proposto come un rimedio ideale per gli acciacchi degli adulti e le malattie respiratorie dei bambini, garantendo che non crea alcun tipo di dipendenza – e, questo, un anno prima della commercializzazione della ben più nota e longeva aspirina. Da quel momento, in Europa, America e Australia si moltiplicano gli emulatori: produttori di farmaci brevettati cui, nei giornali più diffusi, vengono attribuite proprietà quasi miracolose.
In terzo luogo, nel corso del Novecento la commercializzazione delle droghe viene associata a una sempre più sofisticata strategia di marketing che sa farsi forte dello sviluppo di vere e proprie subculture che ne legittimano o esaltano l’assunzione – oltretutto, in una fase nella quale i danni da assuefazione sono già noti al punto da generare, fin dagli esordi del secolo, una lunga serie di conferenze internazionali nel tentativo di regolamentarne il commercio. Negli stessi anni in cui si moltiplicano le monografie scientifiche, fiorisce la letteratura sulle esperienze morfiniche (ma anche il laudano e l’assenzio hanno le proprie schiere di accoliti). A distanza di pochi decenni, poi, l’uso voluttuario delle droghe (eroina, cocaina, allucinogeni) è destinato a conoscere un successo ancor più di massa, grazie al fatto di poter trovare espressione, oltre che nella letteratura, anche nella musica e nel cinema. A partire dagli Stati Uniti, una prima ondata accompagna la rivoluzione culturale del 1968 e il successo del movimento hippie, per poi essere seguito da una seconda ondata “controrivoluzionaria” di yuppies nel decennio successivo.
Il dato di gran lunga più rilevante, tuttavia, è ancora un altro: fin dalle sue origini, la droga viene utilizzata come strumento di realpolitik dalle potenze egemoni, in particolare Gran Bretagna e Stati Uniti. Il primo esempio, ben noto, è quello delle due Guerre dell’oppio (1839-1842 e 1858-1860), con le quali la Gran Bretagna impone alla Cina una liberalizzazione di fatto del commercio di oppio, in particolare quello indiano per decenni contrabbandato dall’East India Company, al fine di riequilibrare i costi delle proprie importazioni di tè dall’India (per sovrapprezzo, il governo cinese sarà costretto anche a cedere Hong Kong ai britannici, garantendole lo statuto di extraterritorialità).
Monumento all’ingresso del Museo della Guerra dell’Oppio a Humen, Dongguan, in Cina.
È, tuttavia, con gli Stati Uniti e nella seconda metà del Novecento che la realpolitik della droga si spinge fino all’estremo. In un primo tempo, infatti, i governi statunitensi non si fanno alcuno scrupolo di incentivarne la produzione e il traffico, quando ritengono (sbagliando) che ciò possa rivelarsi funzionale alla vittoria nei conflitti in corso; salvo poi, successivamente, scatenare nuove guerre nei paesi di produzione, attraverso quella che gli strateghi definiscono una “proiezione di potenza”, nel tentativo di arginare il consumo in patria, dilagante al punto da essere equiparato a una minaccia alla propria sicurezza nazionale.
È una storia che Peter Andreas ricostruisce nel dettaglio nel suo libro Killer High. Qui può essere utile osservare come essa si dipani lungo tutto l’arco del secondo Novecento senza conoscere alcuna reale soluzione di continuità, facendone emergere l’intrinseca “coerenza” geopolitica. La prima fase di questa storia è ambientata nel continente asiatico e ha inizio con il finanziamento delle truppe ribelli nazionaliste, fuoriuscite dalla Cina dopo la vittoria della rivoluzione maoista nel 1949, e la nascita di quel Triangolo d’oro (compreso tra Laos, Birmania e Thailandia) che accompagnerà l’intero svolgimento della lunga guerra del Vietnam, sopravvivendo alla sua fine nel 1975. Questa prima fase prosegue poi, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, con il sostegno garantito ai capi tribù locali, che consente loro di trasformarsi in veri e propri drug lord della nascente Mezzaluna d’oro (che si estende anche al Pakistan e a parte dell’Iran).
In questa prima fase, la diffusione della produzione di droga risponde a due esigenze altrettanto importanti: garantire un’autonoma fonte di finanziamento ai gruppi belligeranti filostatunitensi e un “diversivo” ai combattenti. Non bisognerebbe mai dimenticare, infatti, che uno degli effetti collaterali di questa realpolitik è proprio la diffusione dell’abuso di droghe tra gli stessi soldati coinvolti nel conflitto – di quelli statunitensi in Vietnam, come di quelli sovietici in Afghanistan – come antidoto allo stress da combattimento.
La seconda fase della storia riguarda invece l’America Latina e può essere datata a partire dal 1986 – anche se un prologo ancora “in stile asiatico” si era già avuto in realtà nel 1979, quando la CIA aveva finanziato e addestrato un gruppo controrivoluzionario denominato Contras, ben sapendo del suo coinvolgimento nel narcotraffico, con l’intento di sovvertire il regime sandinista appena insediatosi a Managua. È in quell’anno, infatti, che l’amministrazione Reagan arriva a dichiarare formalmente che il traffico di droga costituisce una minaccia alla sicurezza nazionale, nel tentativo di arginare l’epidemia di crack (derivato della cocaina) che stava colpendo i ghetti urbani statunitensi.
Il contesto, qui, è alquanto diverso da quello asiatico. In America Latina, infatti, gli Stati Uniti hanno rivendicato con successo un ruolo da protagonista nella politica interna degli stati dell’intero subcontinente durante tutta la Guerra Fredda. Lo hanno fatto, da un lato, assecondando la loro storica propensione a militarizzare i propri conflitti domestici, ovvero armando e addestrando forze armate e gruppi paramilitari al servizio di governi reazionari, e favorendo repressioni indiscriminate e colpi di stato; dall’altro, rinunciando a qualunque serio tentativo di delegittimare la guerriglia comunista o sostenendo i partiti moderati o attraverso interventi di carattere socioeconomico miranti ad attenuare le diseguaglianze.
Da questo punto di vista, la nuova guerra alla droga si pone in assoluta continuità con il passato, limitandosi a sostituire (a volte in realtà ad affiancare, come in Colombia) i narcos alla guerriglia; con risultati, verrebbe da dire, altrettanto disastrosi: la crescente militarizzazione dello scontro può comportare, a seconda dei contesti, un più diretto coinvolgimento delle forze armate o l’adeguamento ai loro standard dei reparti di polizia attraverso l’opportuno addestramento e la dotazione di armamenti pesanti (ma, spesso, al costo di inediti conflitti di ruoli tra questi due apparati).
L’effetto è sempre, comunque, l’aumento indiscriminato della violenza ai danni della popolazione civile, con tassi di mortalità che possono arrivare a superare quelli registrati nei periodi di guerra civile, nei paesi che ne hanno fatto l’esperienza come il Guatemala o il Salvador. Il risultato è che l’America Latina è oggi la regione al mondo con il maggior numero di morti correlati al diffondersi della criminalità, organizzata e non; e nella quale i regimi che hanno fatto propria la dottrina della mano dura, sponsorizzata dagli Stati Uniti, sono quelli che hanno visto la più ampia diffusione anche delle diverse forme di violenza extragiudiziaria: le esecuzioni sommarie commesse da corpi dello stato; le operazioni di vera e propria pulizia etnica da parte di squadroni della morte composti da membri della polizia o dell’esercito; e la promozione attiva, ma segreta, di milizie guidate da imprenditori politici emergenti, anch’essi collusi con le istituzioni.
Se questo è il quadro, non c’è da sorprendersi che in questa “impresa storica” un ruolo da protagonista sia stato assunto, nel tempo, proprio dalla criminalità organizzata – la cui diffusione nel mondo va quindi letta a tutti gli effetti come un effetto collaterale della profana alleanza tra stato e mercato nel campo delle droghe.
Il successo della criminalità organizzata deriva da una serie di fattori. In primo luogo, essa mantiene nei confronti della politica un atteggiamento laico e non ideologico: può fare da spalla a regimi autoritari o corrompere quelli democratici; può colludere con la guerriglia, come con gli squadroni della morte. Ciò significa anche che essa non è mai l’antistato, perché non potrebbe nemmeno esistere senza di esso; non è anarchia, perché si alimenta dell’esistenza stessa delle norme: i suoi utili sono tanto più elevati, quanto maggiori sono i vincoli imposti dalla legge (si esalta per ogni forma di proibizionismo).
In secondo luogo, la criminalità organizzata sa godere appieno delle situazioni caratterizzate da carenza drammatica e cronica di risorse, come in tempo di guerra, assumendo in proprio la gestione del mercato nero; ma, al tempo stesso, sa come avvantaggiarsi degli eccessi della deregolamentazione nei settori dell’economia e della finanza imposti dal neoliberismo. Nel nostro caso, non bisogna dimenticare che il traffico di droga alimenta anche la circolazione del denaro sporco, risorsa indispensabile per il crescente numero di attori non statali della violenza coinvolti nel gioco e fonte inesauribile di operazioni di riciclaggio, su base regionale e transnazionale, destinate a “drogare” il sistema finanziario legale.
In sintesi, la criminalità organizzata è equidistante da stato e mercato, perché trae nutrimento da entrambi. Il compito principale che le viene affidato è quello di ridurre i costi di transazione nell’economia dei beni illeciti, che presenta peculiari condizioni di incertezza derivanti sia dalla natura dei beni stessi e, più in generale, dei fattori di produzione (luoghi di produzione, tipo di manodopera impiegata, capitali economici e sociali coinvolti); sia dalla necessità di disporre di risorse di violenza utili a garantire la sicurezza delle transazioni e dei membri stessi dell’organizzazione.
Per quanto possa dimostrarsi plausibile sostenere che nessun gruppo di criminalità organizzata, preso singolarmente, si è mai anche lontanamente avvicinato a eguagliare il potere e l’influenza della East India Company britannica, allo stesso modo è legittimo affermare che, rispetto ad allora, ciò che è davvero cambiato è la capacità dei gruppi criminali di differenziare i propri modelli organizzativi a seconda delle esigenze di mercato e del contesto geografico e culturale di appartenenza; e, soprattutto, di fare sistema, di associarsi in cluster su base territoriale o funzionale, in modo da rispondere nella maniera più efficiente alle domande provenienti dal mercato e alle loro possibili variazioni determinate dalla richiesta di nuove droghe (basti pensare alle anfetamine) o dalla necessità di differenziare le rotte del narcotraffico (in modo, tra l’altro, da vanificare qualunque possibile strategia di contrasto).
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