Takoua Ben Mohamed, Un’altra via per la Cambogia. 15 giorni nel cuore del Sud-Est asiatico con gli operatori umanitari della ONG WeWorld, Padova: BeccoGiallo editore, 2020.
Negli ultimi anni, la forma del Graphic Journalism, o, più prosaicamente, del reportage su fumetto, ha conosciuto una grande diffusione, grazie anche ad autori come Zerocalcare, diventato una vera e propria icona del genere. Segnaliamo perciò con interesse un’opera frutto di un viaggio-inchiesta in Cambogia, per mano di Takoua Ben Mohamed, giornalista grafica italo-tunisina, già autrice di Sotto il Velo e La Rivoluzione dei Gelsomini, entrambi ambientati nel mondo islamico, e fondatrice, all’età di quattordici anni, del progetto Il fumetto intercultura. L’autrice si appoggia all’organizzazione non governativa WeWorld, particolarmente attenta alla difesa dei diritti delle bambine, dei bambini e delle donne, che in Cambogia, leggiamo nell’ultima pagina, “protegge donne, bambini e bambine da matrimoni precoci, abusi sessuali, traffico di esseri umani e dalla tratta dei migranti”.
La migrazione illegale e lo sfruttamento della manodopera sono infatti l’oggetto dell’indagine di Takoua Ben Mohamed. Come ricorda nella prefazione Stefania Piccinelli, direttrice dei programmi internazionali di WeWorld, sono un milione i cambogiani che vivono e lavorano in Thailandia: “uomini e donne che migrano in maniera più o meno volontaria, spesso irregolare (quasi nel 70% dei casi) e che finiscono, altrettanto frequentemente e inconsapevolmente, in mano a trafficanti senza scrupoli che li vendono come lavoratori a basso costo, senza alcun diritto o, nel caso delle molte donne e ragazzine, come prostitute forzate. È la schiavitù moderna, che prende il nome e le forme della migrazione” (p. 5).
Grazie anche al supporto dell’iniziativa dell’Unione Europea “EU Aid Volunteers”, diretta a creare un corpo di volontari specializzati attivabile nelle azioni di aiuto umanitario nei Paesi extraeuropei, WeWorld forma come social ambassadors donne e uomini che sono riusciti a tornare in Cambogia dopo avere vissuto sulla propria pelle lo sfruttamento, la violenza, la precarietà e l’umiliazione associabili alla condizione di migrante irregolare. Il loro compito è raccontare la propria esperienza a chi è tentato di percorrere la stessa strada, convincendoli a perseguire un’altra via, quella della migrazione legale.
Takoua Ben Mohamed racconta e illustra le storie di alcuni tra questi ambassadors, seguendoli sul campo. Ci sono i padri finiti nella rete dei trafficanti di esseri umani e venduti a un datore di lavoro per essere sfruttati sui pescherecci, diciotto ore al giorno, o nel settore delle costruzioni senza alcun diritto o assistenza, solamente per racimolare un po’ di fondi per la famiglia rimasta a casa. Scorrono le madri, tornate a casa per prendersi cura dei figli, ma rimaste sole ad affrontare le difficoltà quotidiane, in villaggi spopolati perché le altre donne sono state vendute nel mercato della prostituzione frequentato dagli occidentali, o sono sfruttate nel settore tessile, o lavorano, da sole o a fianco dei mariti, nei cantieri dell’edilizia, per una paga giornaliera di sei/sette dollari. Compaiono le nonne, chine sui campi a lavorare la terra per sfamarsi e mantenere i nipoti, lasciati dai genitori emigrati: sono anziane sole, immortalate sedute sull’amaca fuori dall’uscio di casa, “fragili fisicamente e psicologicamente, come una casa in rovina, abitata da coloro che non hanno un altro posto dove andare” (p. 113). E poi ci sono loro, i bambini e le bambine, che spesso non riescono a concludere il ciclo di studi primari, e diventano grandi troppo in fretta, subito al lavoro, sfruttati, molestati, talvolta mendicanti obbligati nelle località turistiche.
Pagina dopo pagina, l’autrice porta in viaggio con sé le lettrici e i lettori. Dopo avere illustrato brevemente la tragica ferita del genocidio per mano dei Khmer rossi, vediamo l’autrice lavarsi i denti, andare in aeroporto, affrontare le guardie di frontiera cambogiana perplesse di fronte a una viaggiatrice proveniente dall’Italia ma con passaporto tunisino, incontrare le ragazze volontarie a Siem Reap e iniziare il racconto. Siamo con lei. Vediamo con lei. Nel suo vestito rosso e nero, ci trasporta immediatamente nella dimensione profondamente umana che caratterizza l’opera. C’è colore e realismo, soprattutto nella resa della vita rurale. E quando la storia si fa tragedia, persino difficile da illustrare, le pagine si fanno completamente nere d’inchiostro – una sequenza di pagine nere con una piccola frase in bianco, o addirittura una semplice parola. Una pausa che risuona come invito alla riflessione, ad alzare lo sguardo per cercare la luce. Perché, nell’azione degli operatori umanitari che incontra, l’autrice ritrova speranza, insieme alla consapevolezza che conoscere è il primo passo per interrogarci e, quindi, agire.
Anche nel Sud-Est asiatico, come peraltro avviene in aree del mondo più vicine a noi, sembra che i governi non siano in grado di gestire un problema strutturale, che non può più essere affrontato secondo una logica emergenziale. Occorrerebbe sveltire e rendere più convenienti i processi di migrazione regolare: impariamo che per una cambogiana o un cambogiano ci vogliono tra i settecento e gli ottocento dollari statunitensi per ottenere visto e permesso di soggiorno, paragonati ai sessanta/settanta dollari per pagare un broker, senza dovere affrontare lunghe e incerte procedure burocratiche. Si alimenta così proprio quel traffico di esseri umani che le autorità dichiarano retoricamente di volere debellare.
La questione migratoria è complessa, e una delle più spinose del Ventunesimo secolo. Servirebbe un’operazione verità per illustrare alle opinioni pubbliche la mappa demografica del mondo, e fare almeno capire come le società invecchiate di molti Paesi industrializzati avranno bisogno di manodopera immigrata per sostenere la sempre più elevata spesa pensionistica. Non sarà certo una graphic novel a svolgere questa funzione, ma con tratto originale, ironia e garbo, Takoua Ben Mohamed contribuisce sicuramente a farci aprire gli occhi. Perché chi non vuole vedere ora sarà un giorno costretto a guardare, e non necessariamente come semplice spettatore.
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