[RECENSIONE] Nguyen Phan Que Mai, Quando le montagne cantano

Quando le montagne cantano

Le sfide affrontate dal popolo vietnamita nel corso della Storia sono come montagne altissime. Se sei troppo vicino, non puoi scorgerne le vette. Ma, allontanandoti dalle correnti della vita, riesci a guardarle in tutta la loro maestosità” (p. 9). Il romanzo Quando le montagne cantano è la saga di una famiglia che attraversa la tumultuosa storia del Viet Nam nel Ventesimo secolo. Quando uscì, fu definito romanzo dell’anno dal New York Times, dal Washington Post e da USA Today, e rappresenta il debutto di Nguyen Phan Que Mai, autrice ora in libreria con il nuovo lavoro Dove vola la polvere.

È la storia della famiglia Tran, narrata da Huong, la nipote nata nel 1960, e imperniata attorno alla figura della nonna Dieu Lan (n. 1920), vera protagonista del racconto. L’autrice avvisa il lettore che i personaggi e gli accadimenti sono inventati, ma la scenografia è reale, rappresentata dalle infinite guerre novecentesche del Viet Nam, con il loro carico di miserie, carestie, povertà e abiezione umana: “[] ma io e te abbiamo visto abbastanza distruzione e violenza da sapere che c’è solo un modo per parlare della guerra: onestamente. Soltanto con l’onestà, possiamo conoscere la verità. [] Più leggevo, più le guerre mi facevano paura. Le guerre avevano il potere di trasformare in mostri popoli colti e civili” (p. 95). Non c’è peraltro dubbio che la scrittrice, ora residente a Giacarta, abbia tratto ispirazione dalla sua storia personale. Come nonna Dieu Lan, infatti, ha lavorato come venditrice ambulante e coltivatrice di riso, prima di trasferirsi all’estero per – così leggiamo in terza di copertina – “dedicarsi all’analisi degli effetti a lungo termine della guerra”. In un certo senso, il romanzo costituisce l’elaborazione di un lutto devastante, individuale e collettivo: “Scrissi per la nonna, che aveva sperato tanto che si estinguesse il fuoco della guerra, sebbene alla fine anche le sue ceneri avessero continuato a bruciarla” (p. 363).

I conflitti sono la causa delle tragedie che si abbattono sulla famiglia: prima la dominazione dei francesi (che volevano “far regredire il Viet Nam, farlo tornare un Paese povero e incivile”, p. 42), poi la Seconda guerra mondiale con la presenza dei giapponesi, quindi l’invasione americana, e infine la guerra intestina tra il Nord e il Sud del Paese. Per la popolazione civile, non c’è molto da fare se non cercare di resistere e sopravvivere: “Oh, Guava, pensavo che il nostro destino fosse nelle nostre mani, ma ho imparato che, quando c’è una guerra, le persone sono solo foglie che cadono a migliaia, a milioni [un chiaro riferimento al defoliante Agent Orange utilizzato dall’aviazione statunitense per stanare i Viet Cong, N.d.R.], a causa dell’imperversare della tempesta” (p. 108). Come se non bastasse, la riforma agraria operata dalla Repubblica socialista costringe nonna Dieu Lan a fuggire dal suo villaggio natale e a peregrinare in cerca di un approdo finale: la capitale Ha Noi. Lungo il percorso è costretta ad abbandonare gran parte dei sei figli, affidandoli a datori di lavoro senza scrupoli, o a suore cattoliche dalla spiritualità buddista, gettando i semi di traumi che dureranno nel tempo, in particolare nella madre di Huong. Il romanzo è un cammino di continue cadute, seguite da ostinate rinascite che celebrano l’attaccamento alla vita – oggi si direbbe resilienza – del genere umano. È un racconto al femminile, perché l’istinto materno guida tutte le decisioni di nonna Dieu Lan, ed è fonte di sorrisi, lacrime, cadute, gioie, ferite fisiche e lacerazioni dell’anima. È anche una celebrazione dell’emancipazione della donna nelle società rurali: “Se alla maggior parte delle bambine del mio villaggio veniva insegnato solo a cucinare, pulire, obbedire e lavorare nei campi, io invece imparavo a leggere e a scrivere con uno studioso [il maestro Thinh, N.d.R.] che aveva viaggiato molto e che era stato persino in Francia” (p. 31); “[] fino a quel momento tutti gli uomini che avevo conosciuto al di fuori della mia famiglia non si curavano dell’opinione delle donne, ritenevano inutile parlare con loro, partendo dal presupposto che fossero inferiori” (pp. 42-43).

All’inizio il lettore può trovarsi spiazzato. Non solo ha il dubbio che si tratti dell’ennesimo affresco storico del Viet Nam, visto e rivisto, ma è quasi infastidito dal linguaggio molto semplice e diretto utilizzato sia da Huong, la voce narrante, sia dagli altri personaggi. A poco a poco, però, l’autrice conduce chi legge nella storia della famiglia, e la storia del Viet Nam non resta sullo sfondo, ma entra a gamba tesa nella quotidianità di padri e madri, vicine e vicini di casa, zie e zii, figlie e figli, nipoti: le due storie – quella con la esse minuscola e quella con la esse maiuscola – si intrecciano, e la seconda acquista una luce nuova. Il linguaggio semplice, poi, lungi dal costituire una debolezza, si manifesta essere la forza del testo, riflettendo il modo di esprimersi di una famiglia assolutamente ordinaria, legata dalla comune aspirazione a una vita che offra lavoro, benessere, amore.

Straordinaria è invece la forza morale della protagonista, capace di rialzarsi sempre dopo ogni singola bastonata. L’autrice non risparmia tragedie alla famiglia Tran, tanto che ad un certo punto viene da chiederle pietà. Per quanto la violenza sia raccontata senza indugiare in particolari raccapriccianti, la tristezza, la sfortuna e lo sconforto (“Cosa avrei fatto adesso che ero di nuovo senza un lavoro? Quando sarei riuscita a riabbracciare i miei figli?”, p. 284; “Mi si spezzò il cuore per la nonna. Come avrebbe fatto ad accettare una notizia così tremenda?”, p. 337) di cui le pagine sono intrise non rendono il libro un testo da tenere sul comodino per addormentarsi sereni: “le lucciole sembravano gli occhi infuocati degli spiriti maligni che si erano impossessati del nostro mondo. Sbattei le palpebre, ma era troppo buio perché riuscissi a vedere. [] Avrei voluto piangere, ma avevo finito le lacrime” (p. 166).

Ma è il germe di speranza che fiorisce in nonna Dieu Lan a far rimanere attaccato il lettore alla pagina, avvolgendolo nel bianco e nero dello ying e dello yang, in cui la luce ha sempre un puntino di oscurità, e le tenebre mostrano sempre una scintilla: “Guardai il fuoco. La vita degli uomini era breve e fragile. Il tempo e le malattie ci consumavano, come facevano le fiamme con la legna. Ma non importava quanto a lungo vivessimo. Importava solo la luce che riuscivamo a trasmettere ai nostri cari e quante persone riuscivamo a toccare con la nostra compassione” (p. 337). Nonna Dieu Lan non prova risentimento verso i malvagi, come se essi stessi fossero vittime di forze più grandi, pedine di un gioco che nemmeno per loro finisce con una vittoria.

Oltre alla malattia, all’abbandono, alle ferite di guerra, la famiglia deve anche fare i conti con la divisione ideologica tra chi finisce a combattere per il Sud e chi intraprende una carriera da funzionario del nuovo regime comunista del Viet Nam riunificato. Tra proclami ideologici, furia anticapitalista, desiderio di vendetta, la protagonista deve cercare di tenere insieme gli affetti più cari, che le danno forza e coraggio. Le figlie e i figli possono anche distaccarsi da lei, affrontando da soli i propri demoni, ma a lei tornano, riconoscendole un inconsapevole ruolo da matriarca.

Definito da Viet Thanh Nguyen, l’autore premio Pulitzer del bestseller Il simpatizzante, già recensito positivamente in un precedente numero di RISE, “un romanzo memorabile… intimo e allo stesso tempo di ampio respiro, trascinante e commovente”, Quando le montagne cantano (originariamente pubblicato in inglese) è meno dolente, spietato o fosco de Il simpatizzante. Beninteso, non c’è alcun finale hollywoodiano, ma almeno c’è un giardino da coltivare, fatto di pace e riconciliazione (a un certo punto la protagonista, in piena invasione, regala alla nipote un romanzo americano, invitandola a distinguere tra le fila del “nemico”) che permette alla famiglia Tran di rinascere in un nuovo ciclo vitale e di guardare al futuro con relativo ottimismo. La saga diventa quindi una metafora del Viet Nam pacificato, che nel Ventunesimo secolo, anche grazie alla vigorosa crescita economica, può curare i traumi e gettare le basi per i giorni migliori.

Quando le montagne cantano è per questo una lezione di vita, un invito a guardare sempre il bicchiere mezzo pieno e a ricordare la grazia, sovente data per scontata, di un tempo in cui il pane è assicurato e le donne e gli uomini sono liberi di perseguire un progetto di vita individuale senza rischiare di essere fisicamente annientati dalla violenza di matrice politica: “Rimasi a lungo lì sdraiata a pensare ai calvari che ciascuno dei membri della mia famiglia aveva dovuto affrontare. Se avessi potuto esprimere un desiderio, avrei chiesto solo di poter trascorrere una giornata tranquilla tutti assieme. Una giornata in cui avremmo potuto cucinare, mangiare, parlare e ridere. Chissà quanta gente nel mondo, in quel momento, stava trascorrendo una giornata simile senza sapere quanto fosse sacra e speciale” (p. 171).

Un consiglio al lettore: per gustare appieno il racconto ed evitare di perdere il sentiero tra svariati nomi ed eventi, e continui flashback, è consigliabile leggere il romanzo in un tempo concentrato. L’albero genealogico della famiglia Tran all’inizio del romanzo è peraltro un utile strumento, da consultare spesso durante la lettura.

Published in:

  • Events & Training Programs

Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved

  • Privacy Policy
  • Cookie Policy