[LA RECENSIONE] Max Havelaar ovvero le aste del caffè della Società di Commercio Olandese

Multatuli, Max Havelaar ovvero le aste del caffè della Società di Commercio Olandese, Iperborea, Milano, 2007

Nel 1860, conlo pseudonimo di Multatuli (“molto ho sopportato”) Eduard Douwes Dekker (1820-1887) pubblica Max Havelaar, un libro che a distanza di centocinquanta anni conserva ancora la sua forza dirompente. Nominato dalla Società della Letteratura Nederlandese come il più grande scrittore olandese di tutti i tempi, Multatuli è nella lista degli eroi nazionali dell’Indonesia indipendente, e si capisce perché: Max Havelaar è un durissimo atto di accusa contro il colonialismo nelle Indie olandesi. Non solo – come è prevedibile – l’autore evidenzia le forme di sfruttamento della popolazione locale, ma a ciò aggiunge uno sguardo illuminante sull’autoreferenzialità della burocrazia coloniale, che a tratti ricorda Giorni in Birmania di George Orwell, ma in modo più tagliente e sferzante, senza la malinconica elegia che invece pervade l’opera dell’autore di “1984”. I protagonisti del romanzo sono in realtà più di uno. Dapprima incontriamo Batavus Droogstoppel, un sensale di caffè, che ad Amsterdam vive e lavora, intriso di etica protestante e di dedizione al commercio, incrollabile nelle sue salde convinzioni: “Che diavolo! Chi è povero può pur dire che è povero; poveri ce ne devono essere, è necessario per la società. Purché il povero non pretenda elemosine e non scocci nessuno, io non ho proprio nulla contro il fatto che è povero…” (p. 35). Entra in scena quindi “l’Uomo dallo Scialle”, uno squattrinato – e perciò, agli occhi di Batavus, indegno di rispetto – figuro, che muovendosi sfuggente in androni oscuri consegna un pacco di carte e documenti, di trattati e saggi, dal contenuto più vario. Molti di essi fanno però riferimento a Giava, e alle Indie Olandesi. Batavus decide di affidare parte del materiale a Ludwig Stern, giovane a bottega di origine (orrore!) tedesca, con il compito di scrivere un libro sulle aste del caffè della Società di Commercio Olandese. Mentre Stern consegna i singoli capitoli, a poco a poco il commerciante scopre che sta prendendo forma un libro dal contenuto profondamente ostile al colonialismo olandese, e che vorrebbe mettere in discussione le sue inattaccabili credenze: “No, la nostra fortunata Olanda non vuole tenersi tutta la beatitudine per sé; noi desideriamo distribuirla anche alle infelici creature che in lidi remoti giacciono avvinte nei ceppi della miscredenza, della superstizione e dell’immoralità” (p. 157). Ma, dalla lettura del libro, Batavus apprende la drammatica verità dello sfruttamento, dei soprusi e delle malversazioni a cui sono quotidianamente sottoposti i giavanesi: “Un giorno però vennero dall’Occidente stranieri che s’impadronirono del paese. Volevano sfruttare la fertilità del terreno, e ordinarono agli abitanti di dedicare una parte del loro lavoro e del loro tempo alla coltivazione di altri prodotti che avrebbero reso di più sui mercati d’Europa. Per convincere anche l’uomo comune fu sufficiente una politica semplicissima. Poiché il  giavanese era molto ligio ai suoi capi, bastava conquistarsi questi capi promettendo loro una porzione dei profitti – e il piano riuscì perfettamente”  (p.  80). La political economy  delle  colonie delle Indie orientali esigeva infatti, per generare profitto dalla vendita dei prodotti locali in Europa, il pagamento di un salario appena al di sopra della soglia di sopravvivenza, per garantire adeguata produttività e riproduzione della forza lavoro. Il nostro mercante di caffè non arretra nemmeno  davanti all’evidenza dell’ipocrisia che circonda il sistema coloniale: “Il governo delle Indie Olandesi scrive volentieri al suo padrone nella madrepatria che tutto va bene. I  residenti dicono volentieri la stessa cosa al governo. A loro volta i vice-residenti non mandano mai notizie spiacevoli ai residenti. Da ciò deriva, nelle relazioni ufficiali e scritte, un ottimismo artificiale che è in contrasto non solo con la verità, ma anche con l’opinione personale di questi ottimisti” (p.  235). Per mantenere  intatta la propria posizione all’interno dell’Amministrazione coloniale olandese – e salvaguardare il salario  e le prospettive di carriera – i diversi funzionari chiudono gli occhi davanti alla realtà – fatta di continue  violazioni delle stesse  regole  volute dalla civilizzata e cristiana madrepatria –, contribuendo a perpetrare gli abusi nei confronti della popolazione locale. Ed è a questo punto che inizia la storia di Max Havelaar, il Vice-residente del Lebak che ha il coraggio di prendere direttamente  posizione contro questa prassi, pagando direttamente  di persona per la sua onestà e trasparenza.

Definito “il libro che ha ucciso il colonialismo”, Max Havelaar è un testo spiazzante nella sua lucida trattazione, che tuttavia non disdegna l’ironia e il sarcasmo, come quando  definisce i due stadi della malattia dei governatori, il primo caratterizzato da vertigini e superbia, il secondo da paura e sconforto: “Come passaggio tra i due stadi (ma forse causa del passaggio) vi sono disturbi dissenterici” (p. 259). Di lettura non sempre agevole, in un testo a tratti labirintico, che si compone  di più voci, di digressioni e di digressioni nelle digressioni, che a un lettore superficiale dell’era digitale appare  condurre a un’inutile perdita di tempo, il  libro si svela nelle ultime cento  pagine, approdando  al “gran finale” in cui l’autore – egli stesso un Max Havelaar con  alle spalle diciott’anni nelle Indie Olandesi – strappa di mano a tutti la penna, dichiara la sua passione per la funzione sociale della letteratura, e lancia l’Indonesia verso l’emancipazione,  che  sarebbe  arrivata molti anni  più  tardi: “Salvezza e aiuto, per via legale se si può; per la via legale della violenza se si deve” (p. 353).  E se ancora leggiamo il suo libro a distanza di svariati decenni, la prosa di Multatuli è un’ulteriore prova  della  forza  scardinante  della  parola  scritta, quando denuncia l’ingiustizia e l’ipocrisia.

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