All’inizio dell’anno, Zheng Yuesheng, funzionario dell’amministrazione centrale delle dogane cinesi ha reso noto che il commercio di beni (sommando le importazioni e le esportazioni) della Repubblica popolare cinese ha raggiunto nel 2013 la cifra di 4.160 miliardi di dollari Usa. Oggi la Cina è quindi la prima potenza commerciale al mondo per valore di merci scambiate. Infatti, malgrado le statistiche riguardanti il commercio statunitense vengano pubblicate solamente a febbraio, gli analisti sono concordi nel valutare che gli Stati Uniti si attesteranno attorno al valore di 3.900 miliardi di dollari. Il raggiungimento della vetta è lo scontato coronamento di un’ascesa costante: la quota della Rpc nel commercio mondiale era del 3% nell’anno 2000, ma alla fine del 2013 era salita a più del 10%. Nello stesso periodo, la quota delle importazioni americane sul totale mondiale è passata dal 17 al 12%, e la quota delle esportazioni è scesa dal 12% all’8%. Se letti insieme, questi dati sembrano confermare il lento ma inesorabile declino degli Stati Uniti, e l’ascesa della Cina. A ben guardare, invece, essi nascondono una realtà molto più complessa di un gioco a somma zero – e senza considerare, per inciso, che (1) se si considera anche il commercio dei servizi, gli Stati Uniti rimangono comunque davanti alla Cina, e (2) il blocco commerciale che vanta il primato assoluto è l’Unione europea.
Iniziamo dalla ben nota questione relativa all’affidabilità delle statistiche cinesi: come ha sottolineato l’agenzia Forbes, malgrado la maggiore accuratezza di un tempo, non disponiamo di sufficienti informazioni per potere verificare il dato reale del commercio cinese. L’agenzia ricorda che tra gennaio e aprile dell’anno scorso si registrò un’improvvisa impennata delle esportazioni a Hong Kong, che è un territorio doganale separato dalla madrepatria, quindi ricompreso nelle statistiche del commercio internazionale. Questo dato anomalo si spiega con il diffuso ricorso alla falsificazione di documenti per l’esportazione, allo scopo di far entrare valuta estera (hot money) in Cina a fini speculativi, aggirando i controlli sui movimenti di capitale e scommettendo su un apprezzamento del renminbi: nel primo trimestre dell’anno, la differenza tra le esportazioni cinesi a Hong Kong registrate a Pechino e le importazioni dalla Cina registrate a Hong Kong ammontava a 54,6 miliardi di dollari Usa. Il fenomeno si ripeté in estate e in autunno. La discrepanza non riguarda soltanto Hong Kong, ma anche altri partner commerciali: nel 2012, ad esempio, secondo Pechino le esportazioni in Corea del Sud aumentarono del 5,7%, mentre per Seul in quell’anno le importazioni cinesi diminuirono del 6,8%. Tuttavia, queste cifre – in termini relativi – sono comunque troppo basse per inficiare il trend di crescita e per impedire alla Cina – se non ora, in un prossimo inevitabile futuro – di diventare incontrovertibilmente la massima potenza commerciale mondiale.
È su un altro piano, invece, che occorre ridimensionare la rilevanza storica di questa notizia, e, al tempo stesso, trarne costruttivo insegnamento. Il commercio mondiale ruota ormai attorno alle global value chains, di cui la Cina – grande assemblatore di prodotti finiti – costituisce un perno. In questo contesto, le statistiche ordinarie sul commercio rivelano poco, e gli uffici statistici nazionali si stanno sempre più orientando sulla misurazione della componente di valore aggiunto dei beni importati ed esportati. L’Ocse, in uno studio citato dal South China Morning Post, ha stimato che solamente il 67% delle esportazioni rappresenta valore aggiunto in Cina, mentre il valore equivalente per gli Stati Uniti è dell’89%, il che ne fa l’esportatore di più alto valore aggiunto a livello mondiale, se si escludono tre grandi esportatori di materie prime quali Arabia Saudita, Brasile e Russia. Quindi, scontando i flussi di capitale speculativo mascherati da proventi delle esportazioni, il basso valore aggiunto delle stesse, e il transhipment (merci sdoganate a Hong Kong ma destinate a un altro porto della mainland China), il quotidiano di Hong Kong ricalcola il valore del commercio cinese a 3.000 miliardi di dollari Usa, a fronte della cifra di 3.700 miliardi di dollari per gli Stati Uniti.
Wang Haifeng, ricercatore dell’Istituto per la ricerca economica internazionale della National Development and Reform Commission, citato dal China Daily, ha sottolineato: “L’ammontare del valore del commercio in beni è solo una faccia della medaglia. L’altra è che la competitività delle esportazioni cinesi, così come la competitività della struttura commerciale della Cina, sono molto inferiori a quelle americane. Il vantaggio competitivo delle esportazioni Usa risiede nella loro tecnologia, qualità e brand, con un valore aggiunto molto significativo”. Sulla stessa linea, il quotidiano di linea nazionalista Global Times ha scritto che “i volumi commerciali non bastano di per sé a trasformare un paese in una potenza commerciale”, ma che sono necessarie aziende di portata globale, e la frequentazione assidua della frontiera tecnologica.
Le nuove teorie economiche che sottolineano, a partire dal successo giapponese di fine anni ’80, l’importanza dell’innovazione, della competitività, e dell’investimento tecnologico ci aiutano a comprendere la resilienza dell’economia americana, che continua perciò a costituire una componente essenziale dell’egemonia statunitense. Secondo la letteratura in ambito di international political economy, un egemone liberale deve offrire alcuni beni pubblici quali mercati aperti (a partire dal proprio), la creazione di un regime valutario con possibilità di essere prestatore di ultima istanza, l’erogazione di capitali, un minimo di coordinamento macroeconomico. Se è vero che la funzione di erogazione di alcuni di questi beni da parte di Washington scricchiola in più punti, in molti casi il presunto nuovo egemone cinese non è per ora in grado di svolgerla affatto.
Neanche la versione realista/nazionalista (Robert Gilpin e Stephen Krasner) del discorso sull’egemonia, secondo cui l’egemone crea un’economia liberale per promuovere i propri interessi di sicurezza (inclusi gli interessi economici e militari degli alleati) regge alla prova dei fatti, se si osserva il crescente senso di disagio in Asia orientale provocato dalla posizioni fortemente assertive della Cina negli ultimi mesi. Anzi, la notizia del “sorpasso” aggiunge fuoco alle polveri. Non è un caso che la reazione del quotidiano coreano Chosunilbo sia intrisa di allarmismo: è giunto a sostenere che “è venuto il momento per la Corea di esaminare se la sua crescente relazione commerciale con la Cina sia interamente una buona cosa” (ricordiamo che l’intero settore delle piccole e medie imprese coreane è entrato in sofferenza a causa della concorrenza cinese). Si è già segnalato altrove come le tensioni commerciali e i negoziati per accordi preferenziali tra Ue, Cina e Stati Uniti in tempo di crisi e transizioni politiche contribuiscano all’aumento dell’insicurezza globale, e come sia necessario ripensare le regole dell’economia globale, tenuto conto dell’ascesa della Cina e di altri paesi emergenti. Almeno, notizie di questo tipo – per quanto amplificate dai media in maniera spesso semplicistica e distorta – dovrebbero contribuire a porre con forza il problema della gestione della complessità in un mondo assai diverso da quello della fine degli anni ‘40 del XX secolo, quando l’ordine liberale venne concepito e istituzionalizzato.
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