Sono trascorsi cinquant’anni dall’inizio della Rivoluzione culturale, ma il dibattito sul suo significato e sulla sua rilevanza resta aperto. Dal 1981 vige l’inequivoca condanna del Partito comunista cinese (Pcc), secondo cui il movimento ha rappresentato “un grave errore di sinistra […], causa del più serio arretramento e delle più pesanti perdite sofferti dal Partito, dallo Stato e dal popolo in seguito alla fondazione della Repubblica popolare”. Nonostante ciò, la tarda età maoista rimane oggetto di accesa discussione, particolarmente su internet, dove gli internauti cinesi restano profondamente divisi sull’eredità di Mao. Il 29 marzo 2016, pochi mesi prima dell’anniversario dell’inizio della Rivoluzione culturale, l’edizione cartacea del Global Times – controllato dal Quotidiano del popolo, organo del Pcc – metteva profeticamente in guardia dalla comparsa di “piccoli gruppi” artefici di un “fraintendimento totalmente caotico” di quel periodo, ricordando ai propri lettori che “la discussione non deve assolutamente allontanarsi dalla politica e dal pensiero stabiliti dal Partito”.
Ma si trattava soltanto dell’ultimo colpo di un fuoco di sbarramento volto a prevenire qualsivoglia tentativo di rivalutare la tarda età maoista. Come molti ricordano, l’ascesa e la caduta di Bo Xilai – già segretario municipale del Pcc a Chongqing e uomo-simbolo della sinistra del Partito (1) – furono accompagnate dalle preoccupazioni che le sue iniziative rappresentassero un ritorno alle pratiche della Rivoluzione culturale (2). Tale accusa fu alimentata dal primo ministro allora uscente, Wen Jiabao, che nella sua ultima conferenza stampa a marzo 2012, nel rispondere a una domanda sui recenti eventi a Chongqing, pronunciò un profetico avvertimento (in cinese): “L’eredità nefasta degli errori della Rivoluzione culturale e l’influenza del feudalesimo non sono stati ancora del tutto sradicati […] Se non saremo capaci di risolvere dalle fondamenta i nuovi problemi sociali, una tragedia storica della portata della Rivoluzione culturale potrà ripetersi. Ogni dirigente del Partito e ogni iscritto dovrebbero sentirne l’urgenza”. Le parole di Wen inchiodarono allora la bara politica di Bo Xilai, ma svelavano anche tutta la preoccupazione della dirigenza cinese per il rischio che le eredità irrisolte della Rivoluzione culturale possano far deragliare il presente e il futuro della Cina. Da dove origina questa preoccupazione?
La Grande rivoluzione culturale proletaria è stata condannata come “decennio di caos”, dieci anni inondati di sangue innocente, devastati da orde di giovani dediti a regolare vecchi conti e a terrorizzare i detentori del potere incamminati lungo “la strada capitalista”. I gruppi spontanei delle Guardie rosse di allora, che si fronteggiavano gli uni contro gli altri in aspre lotte di corrente, contavano fra i propri membri molti degli esponenti dell’attuale dirigenza comunista. Bo Xilai e i suoi fratelli giocarono un ruolo significativo nelle organizzazioni delle Guardie rosse, mentre l’università in cui studiava Wen Jiabao era sede della fazione responsabile del rapimento e probabilmente anche dell’uccisione della madre di Bo. Alcuni mesi dopo la sua morte, con il padre confinato ai lavori forzati, Bo Xilai e suo fratello sarebbero stati detenuti in un campo per figli di alti quadri deposti, dove si trovava anche il giovane Xi Jinping. Le condizioni del campo di detenzione erano così disperate che Bo Xilai e i suoi compagni attirarono un passero nella propria cella per ucciderlo e mangiarlo; si dice che Bo abbia contratto una dissenteria così grave che per poco non ne rimase ucciso. Eppure, lui e la maggior parte degli altri prigionieri sopravvissero e molti riuscirono a raggiungere importanti posizioni nel Partito-Stato, nel mondo accademico o in quello economico.
Cinquant’anni dopo, gli esponenti della generazione delle Guardie rosse hanno raggiunto il culmine della propria carriera. Ma le lezioni apprese in età giovanile restano in buona parte taciute, e si collocano scomodamente nel più ampio contesto di tutto ciò che si è verificato dopo la morte di Mao nel 1976. E proprio qui si annidano la tensione e il pericolo: la Cina postmaoista ha intrapreso un percorso radicalmente alternativo a quello cui questa generazione aveva promesso la propria lealtà con straordinario fervore giovanile, lasciando le ex Guardie rosse dell’una e dell’altra parte – coloro che cercarono di proteggere la posizione privilegiata del Partito e la struttura di classe che essa aveva generato, e coloro che erano stati mobilitati per rovesciare le gerarchie esistenti e per “bombardare il quartier generale” – a interrogarsi sul significato morale e politico di una vicenda storica decisiva per la loro maturazione. La lotta tra le “due linee” non è mai stata pienamente risolta, ma solo messa a tacere all’insegna della massima di Deng: “nessun dibattito per cent’anni”. Xi Jinping, le cui opinioni private restano ignote, non ha certo aiutato con il suo editto del novembre 2013: “I due periodi storici [vale a dire prima e dopo le riforme, N.d.A.] non possono essere in alcun modo separati l’uno dall’altro, né tanto meno contrapposti l’uno all’altro”(3). Veniva così messo da parte il problema centrale: se cioè la storia abbia dato ragione o torto a Mao sui pericoli di una burocratizzazione del Partito e sulle tentazioni del capitalismo globale.
Come osservato da una ex Guardia rossa, la Rivoluzione culturale “si è dimostrata un irripetibile incubatore per la Storia che ne seguì e continua a dar vita tanto a straordinari successi quanto a improvvise crisi”, invitandoci perciò a “scrutare, ancora una volta, lo specchietto retrovisore della Storia”(4) . Ma, come sempre, il Partito incombe alle nostre spalle, nel tentativo di orientare altrove il nostro sguardo.
(1) Mark MacKinnon, “China’s ‘Moral Qualities’ Need Improving, Leaders Say”, The Globe and Mail (Canada), 19 ottobre 2011, p. A17, http://fw.to/MApOyig; Cary Huang, “An Article in the Party Mouthpiece Heaping Praise on Chongqing Boss Bo Xilai’s Campaign Is Part of a Political Balancing Act by Some of the Top Leaders”, South China Morning Post, 14 ottobre 2011, p. 8, http://www.scmp.com/node/981853.
(2) Mark MacKinnon, “Which Is the Face of China’s Future?”, The Globe and Mail (Canada), 8 ottobre 2011, p. F1, http://fw.to/ECmJiQT.
(3) Ufficio del Comitato centrale per la ricerca sulla storia del Partito, “Zhengque kandai gaige kaifang qian hou liangge lishi shiqi” (Vedere in modo corretto i due periodi storici prima e dopo la Riforme e Apertura), Renmin ribao (Quotidiano del popolo), 8 novembre 2013.
(4) Han Shaogong, “‘Wenge’ weihe jiesu?” (Perché la Rivoluzione culturale è finita?), prefazione a Chen Yinan, Qingchun wuhen. Yige gongren de shinian “wen ge” (Gioventù senza tracce. I dieci anni della “Rivoluzione culturale” di un operaio) (Hong Kong: Xianggang Zhongwen Daxue Chubanshe: 2006), p. viii.
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