La nuova Free trade zone (Ftz) di Shanghai, creata nel settembre 2013 dal governo cinese, potrebbe essere una risorsa per le aziende italiane che intendono aprirsi ancora di più alla Cina e ai mercati asiatici. Fin da prima della sua inaugurazione ufficiale, la Ftz è stata giudicata una cartina di tornasole del nuovo percorso che la Cina intende compiere per il cambio di passo della sua economia, ancora troppo fondata sulle esportazioni e sugli investimenti, e troppo poco sui consumi interni, come invece vorrebbe la nuova dirigenza cinese. Le decisioni del terzo Plenum del novembre scorso sulle riforme da compiere nei prossimi dieci anni lasciano intravvedere maggiori aperture per le imprese straniere. Dei nuovi provvedimenti potrebbero avvantaggiarsi anche le aziende italiane. AGIChina24 ha chiesto a Giovanni Pisacane, managing partner dello studio legale GWA di Shanghai che dal 2004 si occupa di diritto societario e fiscale, quali potrebbero essere gli scenari che si aprono per le nostre imprese in Cina.
La nuova China Shanghai Pilot Free Trade Zone inaugurata a fine settembre 2013 ha destato molto interesse e molta curiosità tra gli investitori esteri in generale e tra le società italiane. In prevalenza si tratta di aziende che intendono fare attività di trading non solo all’interno della Cina, ma utilizzare la Ftz come hub per i vicini paesi asiatici, usufruendo di una serie di vantaggi in tal senso, dalla semplificazione burocratica (in fase di approvazione dell’investimento e con le negative list) a quella doganale e valutaria (per esempio con un conto in valuta non soggetto a controllo preventivo della State Administration of Foreign Exchange). Inoltre, in molti dimenticano di citare il fatto che si tratta di un progetto pilota, che segna un trend della Cina verso una semplificazione normativa confermata a livello nazionale dall’entrata in vigore della recente riforma societaria.
Quando ho iniziato la mia attività in Cina fondando la GWA nel 2004, il renminbi era a circa 12:1 rispetto all’Euro. Effettivamente, il costo della manodopera e della vita in genere era molto basso. Anche considerando la situazione globale di quel periodo, le aziende venivano a produrre in Cina per ri-esportare in Europa o nel resto del mondo. Oggi, invece, le imprese italiane vengono per produrre e vendere sul mercato locale, che è ancora in forte espansione. Quelle italiane, spesso, hanno seguito i loro clienti, come le multinazionali o le aziende automobilistiche, per non perdere fette di mercato. Comunque, in generale, oggi la Cina cerca aziende di un certo tipo, con un investimento minimo più consistente e possibilmente non inquinanti. La buona notizia è che in dieci anni di Cina abbiamo chiuso solo un paio di aziende, per motivi non legati prettamente al business ma alla governance della società. Dunque, ancora oggi il flusso è positivo, gli investimenti sono in aumento (sia produttivi che di servizio) e i bilanci in utile.
Nel futuro prevediamo tanti cambiamenti. La Cina è un’economia ormai in fase di “normalizzazione”, con riforme in vari settori dell’economia e della finanza. Certamente il paese andrà verso la semplificazione burocratica, lo sviluppo del settore terziario, dei servizi e delle banche, che attualmente supportano molto poco il business delle aziende straniere. Anche la Ftz di Shanghai ha dato il via a una riforma del settore, prevedendo maggiore facilità di ingresso per le banche straniere. Per alcuni versi, le riforme gioveranno ai nuovi investimenti stranieri; per altri meno, come nel caso dell’irrigidimento del sistema di protezione ambientale, che sta rendendo più difficile creare uno stabilimento produttivo in aree vicine alle grandi città. Ci sono poi le recenti riforme in materia di tutela del diritto di proprietà intellettuale (come la legge sui marchi), di protezione dei consumatori, la riforma societaria e la modernizzazione del sistema fiscale.
I memorandum, come gli accordi bilaterali Cina-Ue, sono certamente importanti in sede diplomatica e segnalano le tappe della cooperazione. In un articolo apparso su AGIChina24 a novembre scorso, a seguito della firma dell’accordo tra Ue e Cina, venivano riportate le parole del commissario al Commercio dell’Unione, Karel De Gucht: “Credo che non sia di alcun interesse un accordo sugli investimenti mirato solo a proteggere gli investimenti. Un accordo di questo tipo ha senso solo se c’è un’apertura del mercato”. Penso, appunto, che una maggiore apertura del mercato cinese, ancora molto protezionista, possa aiutare in tal senso. Inoltre, lo sviluppo del mercato interno mi sembra vada nella direzione di apprezzare sempre di più il prodotto made in Italy in tutte le sue declinazioni. E il memorandum firmato a gennaio da Zanonato richiama alcuni settori in cui l’Italia ha effettivamente qualcosa da dire: urbanizzazione, settore agro-alimentare e della sicurezza alimentare, sanità.
La Cina ha un forte e storico legame con l’Italia, di amicizia e di scambi commerciali. La presenza di investimenti italiani è, nonostante la crisi, in aumento, anche se non sempre paragonabile a quelli tedeschi o francesi. Il flusso turistico verso l’Italia è certamente in aumento, così come gli investimenti cinesi nel nostro paese, quindi le relazioni saranno sempre più forti e solide. Ovviamente si deve considerare che l’Italia è parte della Ue, e le relazioni passano anche attraverso un più complessivo rapporto di equilibri. In alcuni casi abbiamo assistito a vere e proprie ritorsioni commerciali anche dirette contro l’Italia: ricordo, qualche tempo fa, il provvedimento amministrativo con cui si vietava l’importazione di farina italiana in Cina, colpendo, in questo modo, una ristrettissima fascia di business, ma significativa dal punto di vista diplomatico.
Intervista pubblicata con il titolo “La Ftz di Shanghai e le sue opportunità”, in AGIChina24, 22 aprile 2014.
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