1949: il senso di un anniversario fra storia e memoria

L’anniversario dei settanta anni dalla fondazione della Repubblica popolare cinese costituisce un’occasione importante sia per comprendere in che modo l’élite cinese, e in primo luogo il Partito comunista, guardi all’identità del Paese, sia per riflettere sul significato storico di quell’evento.

La leadership di Xi Jinping, alle prese con la più importante crisi (in senso cinese, come opportunità rischiosa, wēijī, 危机) che il governo della Rpc si sia trovato a fronteggiare dal 4 giugno 1989 (tanto per la guerra commerciale con gli Stati Uniti e per la crescente diffidenza europea nei confronti della Cina, quanto per il generale rallentamento economico e l’esplosione di inquietudine di una periferia “centrale” come Hong Kong), ha certamente intenzione di trasformare questo anniversario in un’occasione per celebrare la “nuova era” (xīn shídài, 新时代), la potenza militare ed economica cinese e per enfatizzare il carattere anche moralmente legittimato del potere politico, ricorrendo a un repertorio di pratiche ancorate nella tradizione – quali l’amnistia per i reati minori annunciata a inizio estate.[1]

Celebrare il punto di arrivo non significa necessariamente, però, ripensare al passato in modo critico: gli anniversari, d’altronde, sono strumenti adatti soprattutto a plasmare e nutrire la memoria collettiva. Ma è proprio guardando al tempo stesso alla storia e alla memoria che si deve tentare di comprendere il significato del 1949, per quanto da entrambe le prospettive – quella teoricamente informata e basata sui documenti propria delle letture storiche, e quella identitaria e inevitabilmente anche emotiva che attiene alla memoria – ci si trovi a fare i conti con le contraddizioni, le aporie e i vuoti che sono parte ineludibile del dialogo con il passato. Se, infatti, il 1° ottobre nella Repubblica popolare cinese si festeggia la “nascita della nazione”, i tempi – lunghi o brevi – della storiografia offrono letture diverse sull’interpretazione di quella data come momento di cesura fondamentale per la Cina del Novecento.

Parimenti, anche il complicato rapporto fra memoria pubblica ed esperienze private di quel passaggio – e di quelli che  vi hanno fatto seguito – riflette la difficoltà nel costruirne una visione coerente. Settant’anni, d’altra parte, sono il tempo vitale di due generazioni in termini demografici, mentre nella storia politica hanno visto il succedersi di ben cinque generazioni di leader, e trasformazioni profonde sul piano delle relazioni estere e della strategia di sviluppo economico. Lo stratificarsi di significati e interpretazioni diverse è, dunque, inevitabile.

 

1949: cesura o passaggio?

Se è impossibile negare il fatto che il 1949 non possa che essere considerato, tanto nel contesto cinese quanto per il quadro globale, un anno di fondamentale importanza nella costruzione della Cina moderna, è nondimeno ben più complesso valutare la sua centralità come “il” momento fondante della nazione moderna cinese. Il dibattito sul significato del 1949 implica in realtà due questioni, collegate ma distinte.

La prima è se e in che modo esso costituisca effettivamente un punto di svolta, una cesura nel XX secolo cinese – che è già una prospettiva temporale più limitata all’interno della complicata ricerca delle origini della modernità cinese a partire dal tardo periodo imperiale – un evento, dunque, destinato a mettere in moto trasformazioni “rivoluzionarie”, inedite rispetto al passato recente che lo precede.[2]

La seconda invece, partendo dalla prospettiva della Cina delle riforme, si interroga sull’importanza del 1949 per la genesi dell’attuale ascesa cinese, in breve sul rapporto fra la Cina di oggi e l’eredità – reale o immaginata, riconosciuta o negata – dell’età maoista.[3] In altre parole, il 1949 è l’inizio di una fase specifica e in qualche modo unica della storia della Repubblica popolare cinese, quell’età maoista destinata a terminare, irreversibilmente fra il 1976 e il 1978, o è il momento in cui nasce anche la Cina del XXI secolo?

Ad accomunare le due questioni è, di fatto, la necessità di comprendere la “rivoluzione di Mao” e il suo significato rispetto ad altre date capitali precedenti, quali il 1911 (la fondazione della Repubblica di Cina), il 1919 con le trasformazioni culturali e politiche che favorirono la nascita di nuove forze politiche come il Pcc, la vittoria cinese nella Seconda guerra mondiale nel 1945, ma anche successive, in particolare il 1978-79 con l’avvio delle riforme economiche.  Negli ultimi decenni, la storiografia – tanto in Cina quanto all’estero – ha certamente mirato a ridimensionare la portata delle trasformazioni rivoluzionarie innestate dalla vittoria del Partito comunista cinese sotto la guida di Mao nel 1949. Questa svolta è stata innescata dalle tendenze storiografiche dominanti. Nel contesto della pratica sempre più diffusa di privilegiare una storia economica, sociale e culturale interessata maggiormente alle analisi di lungo e medio periodo, le valutazioni fondate sul primato dei processi politico-ideologici, spesso dominate dagli studi sulla élite politics e i suoi tempi brevi, sono passate in secondo piano rispetto agli imperativi di una visione tesa a sottolineare più le continuità che le discontinuità fra il 1949 e il periodo precedente.

La fondazione della Repubblica popolare cinese, dunque, più che una rottura avrebbe rappresentato il momento di compimento – e la sua proiezione sulla gigantesca scala nazionale – di un percorso di modernizzazione caratterizzato, da un lato, dall’emergere della politica di massa fin dagli anni Venti del Novecento, e, dall’altro, dai processi di costruzione di un moderno Stato nazionale, avviati, seppure con limitati successi, fin dalla fondazione della Repubblica nel 1911 (se non anche in età tardo imperiale) e acceleratisi negli anni del dominio nazionalista, soprattutto a seguito dello scoppio della guerra di resistenza contro l’occupazione giapponese. Due elementi non da leggersi come contrapposti, quanto piuttosto come complementari.

Nel primo caso, un ruolo centrale è implicitamente attribuito all’evoluzione del Partito comunista cinese, e in particolare alla sua capacità di sviluppare e mettere in pratica strumenti e metodi di mobilitazione politica di massa adattando in modo creativo le risorse culturali proprie della società cinese alle filosofie e visioni rivoluzionarie di ispirazione e circolazione globale. La “sinizzazione del Marxismo” identificata con il pensiero di Mao Zedong e ufficializzata negli anni della guerra di resistenza non è stata, dunque, solo un processo di adattamento teorico-ideologico di Marx e dei suoi interpreti al contesto rurale cinese, ma anche una somma di esperienze di “localizzazione” delle pratiche politiche e sociali rivoluzionarie di matrice internazionale. Queste sarebbero state fondamentali, fin dagli anni Venti, per costruire il consenso di massa verso il Pcc destinato a durare nel tempo e fino ad oggi. All’interno di questa lunga tradizione rivoluzionaria, in cui il globale e il locale si intrecciano, il 1949 costituisce un passaggio da considerarsi alla luce delle continuità e non solo delle discontinuità, attraverso un’attenzione specifica alla dinamiche di negoziazione culturale fra Partito e società. [4]

Nel secondo caso, al centro delle prospettive si pone soprattutto una visione “stato-centrica” che lega il processo rivoluzionario soprattutto a quello di state-building in età moderna, in particolare rispetto alla precedente età repubblicana (1911-1949). In particolare, il regime nazionalista viene considerato come l’anticipatore del successivo regime del Pcc, tanto nell’ambito economico (per il ruolo dello Stato nella promozione dello sviluppo), quanto nel ridisegnare il rapporto fra Stato e società a favore di una lenta, ma inesorabile penetrazione delle strutture statali all’interno della società locale. La rivalutazione del ruolo del regime nazionalista nella storia del Novecento cinese finisce con l’indebolire la portata dei cambiamenti “rivoluzionari” nel 1949 e la centralità di quel passaggio in una prospettiva di lungo periodo.[5]

In posa davanti alla bandiera nazionale cinese che fu issata il 1° ottobre del 1949 in Piazza Tian’anmen, Museo nazionale della Cina, Pechino, agosto 2019 (immagine: Wang Zhao/AFP/Getty Images).

Tale tendenza si rafforza inoltre con i rinnovati studi sulla guerra della Cina contro il Giappone e anche sulla guerra civile fra il 1946 e il 1949.[6]  Sul piano della storia sociale, la guerra, con i suoi sconvolgimenti e drammi umani, avrebbe creato le condizioni per le successive trasformazioni rivoluzionarie del periodo post-1949, distruggendo le relazioni sociali e aprendo la strada a un rinnovamento rivoluzionario della società sotto l’egida del Partito-Stato, e per le trasformazioni culturali che lo hanno accompagnato. Similmente il trauma della violenza sperimentato nei durissimi anni del conflitto (pur senza dimenticare che la violenza ha costituito, per una gran parte dei cinesi vissuti nella prima metà del secolo, il pane quotidiano) diventa, in alcune interpretazioni, un fattore causale della drammaticità della lotta politica, anche a livello base, e del continuo processo rivoluzionario che caratterizza l’età maoista dopo il 1949, con la sua diffusa e consolidata percezione di minacce interne ed esterne.[7]

Ma la rivalutazione della centralità del conflitto contro il Giappone nel XX secolo cinese influenza anche un altro elemento portante della centralità del 1949 nella storia della Cina, quello delle relazioni internazionali e del rapporto con il mondo. Se la vittoria comunista nel 1949, e quindi all’inizio della Guerra fredda, determina l’allineamento della Cina al campo socialista, modificando gli equilibri fra Est e Ovest in Asia, in realtà il passaggio significativo nelle relazioni internazionali andrebbe piuttosto identificato nel riconoscimento dell’apporto della Repubblica di Cina alla vittoria degli Alleati in quella regione, accompagnato dalla fine dei cosiddetti “trattati ineguali” e, successivamente, dalla posizione riconosciuta alla Cina nel Consiglio di Sicurezza della neonata Organizzazione delle Nazioni Unite. Un risultato conseguito in primo luogo per mezzo dell’impegno militare e diplomatico del governo del Partito nazionalista di Chiang Kai-shek, con un contributo bellico limitato da parte dei comunisti cinesi, che avrebbero ereditato in seguito questo lascito positivo del conflitto per la posizione della Cina nel contesto internazionale, riuscendo a portare a compimento l’affermazione della sovranità nazionale sul territorio della Repubblica. Il merito del ritorno della sovranità nazionale in mano alle autorità cinesi e della fine del secolo dell'”umiliazione nazionale” non andrebbe riconosciuto al Pcc, o almeno non soltanto ad esso, quanto piuttosto agli incessanti sforzi delle classi dirigenti che lo hanno preceduto.

 

I tempi della memoria e l’esperienza del reale

Un ridimensionamento del significato del 1949 nell’ambito dei processi storici di lungo e medio periodo nella Cina moderna e contemporanea, tuttavia, non implica che, per chi si è trovato a viverlo, il passaggio di quell’anno non abbia comportato la costruzione o, altrimenti, l’imposizione di un nuovo modo di vivere e pensarsi.

Certamente la trasformazione non fu, almeno per tutti, immediatamente evidente sotto tutti gli aspetti, nonostante lo sforzo del Partito comunista di ridisegnare la percezione del tempo fra un “prima della Liberazione” e un “dopo la Liberazione” in termini netti. Il rapporto fra storia e memoria, dopo il 1949, si è fatto senza dubbio più complesso a seguito dell’intervento dello stesso Partito per promuovere una rilettura delle storie individuali e collettive che potesse fare del ricordo e del racconto del passato strumenti potenti di legittimazione per le proprie politiche rivoluzionarie – come, successivamente, per quelle riformiste.

La pratica del sùkǔ 诉苦 (lamentarsi, sfogare le sofferenze patite) in pubblico – con tutte le implicazioni che derivano tanto dall’uso delle emozioni in politica quanto dai rituali come strumento di controllo sociale – fu imposta fin dall’epoca delle riforma rurale (i cui inizi, è ben ricordare, datano a un paio di anni prima del 1949 nelle regioni del Nord-Est) ed è certo servita, in primo luogo, a far interiorizzare nelle comunità e negli individui i fondamenti ideologici della lotta di classe attraverso l’identificazione di chi stava dalla parte giusta o sbagliata della rivoluzione (e quindi della Storia).[8]

La politicizzazione delle memoria è certamente servita a ridisegnare l’identità delle comunità, tanto più che si è ovviamente accompagnata a una trasformazione delle gerarchie del potere politico, sociale e culturale a livello locale, ma ha anche inciso sulle narrative autobiografiche e su quelle storiche in generale.[9] Questo processo di ristrutturazione del tempo nella memoria si è affermato come pratica diffusa dopo il 1949 non senza incontrare resistenze e opposizioni, destinate ad emergere anche pubblicamente soprattutto dopo la fine dell’età maoista. Nondimeno, esso è il fondamento della costruzione del 1949 come il momento centrale della nascita della  nuova nazione cinese nella memoria collettiva e nella storia ad uso pubblico, che trova il suo climax nella celebrazione degli anniversari.

Se la manipolazione della memoria pubblica è stata uno strumento di consenso – tramite il sùkǔ ma anche attraverso il silenzio e la censura che ancora circondano tanti passaggi della storia cinese di questi ultimi decenni – la concreta esperienza storica delle trasformazioni innestate dal 1949 è seppellita e pronta a venire alla luce soprattutto attraverso il lavoro degli storici, il paziente scavo negli archivi, in particolare quelli locali, e gli scritti e le memorie individuali, preziose per indagare la realtà della rivoluzione maoista nella sua realtà quotidiana.[10]

La pratica della microstoria permessa da un uso accorto di queste fonti delinea un’estrema varietà di esperienze di trasformazione, con tempi e modalità diverse. Nel loro insieme queste vanno comunque ricondotte alla volontà di cambiamento radicale della Cina espressa dalla dirigenza centrale; ma riflettono anche discronie e aporie significative nel vissuto della realtà rivoluzionaria a livello di base. Non c’è dubbio, ad esempio, che come passaggio storico il 1949 assuma il suo pieno significato, a seconda dei diversi gruppi e classi sociali, solo alla luce di momenti successivi, come il 1956-57 per gli intellettuali, il Movimento dei Cento fiori e quello contro la Destra, o il Grande Balzo in avanti nel 1958 per gran parte dei residenti rurali, o infine, la Rivoluzione culturale per i quadri del Partito.

L’importanza del 1949, dunque, con il suo valore di spartiacque per il popolo cinese, sfuma nella microstoria di fronte a quella di altri momenti ed eventi, resi in ogni caso possibili solo dall’affermazione del Partito comunista settant’anni fa. Le diverse microstorie, d’altra parte, servono anche a evitare quei giudizi draconiani, polarizzati fra un “rosso” e un “nero” che per lungo tempo hanno dominato la percezione dell’età maoista, impedendo un più lucido giudizio su quella fase. Non è un caso che la storia della Repubblica popolare cinese, in particolare del suo primo decennio, si stia rivelando come uno degli ambiti di studio più vivaci e innovativi negli ultimi anni.[11]

 

Il 1949 e la Cina delle riforme

Se le implicazioni del 1949 si possono comprendere pienamente alla luce degli eventi successivi, in un moltiplicarsi di esperienze diversificate nei tempi e negli spazi, il rapporto fra la Cina post-1978 e quella nata nel 1949 merita una riflessione a parte. Per lungo tempo, infatti, parte della storiografia cinese e quella occidentale hanno teso a sottolineare la discontinuità dell’età delle riforme con il trentennio precedente, considerato per alcuni addirittura una deviazione da un percorso di modernizzazione in parte già avviato prima del 1949 e poi ripreso solo con la dismissione della struttura socio-economica e le utopie dell’età maoista.

In questa prospettiva la connessione sostenuta dalla dirigenza cinese di Xi Jinping con la Cina del 1949 – e quindi l’età maoista – sarebbe in primo luogo un artificio retorico, un dispositivo discorsivo mirato a depotenziare il richiamo frequente di intellettuali e parte del mondo politico a quel periodo come arma di delegittimazione della linea politica attuale, senza agganci storici alla realtà.[12] Nei fatti la Cina di oggi sarebbe figlia più dell’addio alle speranze del 1949 che di una loro piena realizzazione.

La storiografia più recente, al contrario, è più prudente. Non solo perché, sul piano strutturale, l’ascesa della Cina negli ultimi quarant’anni è stata materialmente resa possibile dai progressi avvenuti nei primi tre decenni dal 1949, in termini di miglioramento generalizzato delle condizioni sanitarie ed educative.[13] Ma anche, più in generale, perché occorre considerare gli effetti delle pratiche rivoluzionarie – nonostante il loro costo altamente drammatico in termini di perdite umane e traumi sociali – nel promuovere un senso di appartenenza nazionale e nell’offrire opportunità di partecipazione politica e sociale inedite, in particolare per alcune componenti sociali (come ad esempio le donne).[14] Infine, perché molti dei concetti e dei metodi dell’età maoista post-1949 (e ovviamente anche precedenti) non possono essere considerati come fossili di un’età oramai lontana, ma continuano a esistere, adattati al nuovo contesto, nella cultura e nelle pratiche politiche della Cina del XXI secolo.[15]

Non ha torto, dunque, Xi Jinping, a celebrare questo settantesimo anniversario come la nascita anche della “sua” Cina. Di quell’anno e di quella fase ha ereditato gli strumenti concreti e simbolici del potere, con le loro contraddizioni e limiti, e le sfide di lungo periodo, non ultima quella di garantire la sicurezza e lo sviluppo duraturo al popolo cinese, ma anche inevitabilmente il carico di aspettative e delusioni che la rivoluzione e la sua memoria, personale o trasmessa dai media, hanno lasciato ai suoi concittadini.

[1] “China grants special pardons to mark the 70th PRC founding anniversary”, China Daily, 29 giugno 2019, disponibile all’Url http://www.chinadaily.com.cn/a/201906/29/WS5d17497ea3103dbf1432b00c.html.

[2] Una delle riflessioni più autorevoli è stata quella di Paul A. Cohen, “Ambiguities of a Watershed Date. The 1949 Divide in Chinese History”, in Paul A. Cohen, China unbound: evolving perspective on the Chinese past (New York: Routledge, 2003), 131-147.

[3] Si veda George T. Wei, “Mao’s legacy revisited: its lasting impact on China and post-Mao era reform”, Asian Politics and Policy, 3 (2011) 1: 3-27; e le osservazioni di Felix Wemheuer, A social history of Maoist China 1949-1976 (Cambridge: Cambridge University Press, 2019), 278-315.

[4] Uno dei lavori recenti più significativi è Elizabeth J. Perry, Anyuan. Mining China’s revolutionary tradition (Berkeley e Los Angeles: University of California Press, 2012).

[5] La rivalutazione dell’età repubblicana è stata particolarmente in voga a partire dagli anni Novanta del secolo scorso; per un quadro si veda: Frederic E. Wakeman, Richard L. Edmonds e Jr. Frederic E. Wakeman (a cura di), Reapprasing Republican China (Oxford: Oxford University Press, 2000).

[6] Per una retrospettiva si veda Laura De Giorgi, “Verso una riscrittura della storia della seconda guerra mondiale in Cina: percorsi di ricerca”, Il mestiere di storico. Rivista della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, vol. IX, (2017):  5-20. Il lavoro più importante è quello di Rana Mitter, Forgotten ally: China’s World War II, 1937-1945 (Boston: Houghton Mifflin Harcourt, 2013).

[7] Diana Lary, The Chinese people at war: human suffering and social transformation 1937-1945 (Cambridge: Cambridge University Press, 2010); Diana Lary, China’s civil war: a social history, 1945-1949 (Cambridge: Cambridge University Press, 2015).

[8] Si veda Jeffrey Javed, “Speaking Bitterness”, in Afterlives of Chinese communism, a cura di Christian Sorace, Ivan Franceschini, e Nicholas Loubere (Canberra: Australian National University Press – New York: Verso, 2019), 257-262.

[9] Guo Wu, “Recalling bitterness: historiography, memory and myth in Maoist China”, Twentieth-Century China 3 (2014): 245-268.

[10] Si veda Jeremy Brown e Matthew D. Johnson (a cura di), Maoism at the grassroots. Everyday life in China’s era of high socialism (Cambridge: Harvard University Press, 2015).

[11] Sul piano metodologico, nondimeno, si vedano le osservazioni di Elizabeth J. Perry, “The promise of PRC history”, Journal of Modern Chinese History 10 (2016) 1: 113–117.

[12] Felix Wemheuer, A social history of maoist China 1949-1976 (Cambridge: Cambridge University Press, 2019), 279.

[13] Per una valutazione recente, anche in termini di equità, si veda, nondimeno Roser Alvarez-Klee, “China: the development of the health system during the maoist period (1949–76)”, Business History, 61 (2019) 3: 518-537.

[14] Si vedano: Gail Hershatter, The gender of  memory: rural women and China’s collective past (Berkeley e Los Angeles: University of California Press, 2011); Xin Huang, The gender legacy of the Mao era. Women’s life stories in contemporary China (New York: SUNY Press, 2018).

[15] Si veda: Christian Sorace, Ivan Franceschini e Nicholas Loubere (a cura di), Afterlives of Chinese communism (Canberra: Australian National University Press – New York: Verso, 2019).

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