1989: le due anime operaie di Tian’anmen

La classe operaia gioca un ruolo centrale nella legittimazione del sistema politico della Repubblica popolare cinese. Sin dal 1945, lo statuto del Partito comunista cinese (Pcc) si apre con la seguente dichiarazione: “Il Partito comunista cinese è l’avanguardia della classe operaia cinese, del popolo cinese e della nazione cinese”. A questo fa eco la Costituzione del 1982, che all’articolo 42 recita: “Il lavoro è un compito glorioso per tutti i cittadini che ne abbiano le capacità. I lavoratori delle imprese statali e delle organizzazioni economiche collettive in città e campagna dovranno comportarsi verso il proprio lavoro con l’atteggiamento di padroni dello Stato”.[1] In un sistema che prevede una formale divisione tra Partito e Stato, la classe operaia trascende una simile separazione e assume una funzione fondamentale nel garantire l’egemonia del Pcc: se il Partito incarna l’“avanguardia” (xiānfēngduì, 先锋队) della classe operaia e i lavoratori statali e collettivi sono tenuti a relazionarsi allo Stato con un atteggiamento di “padroni” (zhǔrénwēng, 主人翁), ne deriva infatti che il Partito stesso occupa una posizione dominante nei confronti dello Stato.

Nel periodo maoista, il ruolo prominente della classe operaia è stato consolidato attraverso un patto sociale tra il Partito-Stato e i lavoratori urbani. All’epoca, in Cina la manodopera era allocata centralmente dallo Stato e la vita dei lavoratori urbani ruotava attorno alle “unità di lavoro” (dānwèi, 单位), strutture che svolgevano non solo funzioni produttive in relazione ai piani economici statali, ma che si occupavano anche della riproduzione del lavoro, mettendo a disposizione dei propri dipendenti servizi fondamentali quali alloggi, scuole, ambulatori e mense. In assenza di un mercato del lavoro, i lavoratori occupavano una stessa posizione per tutta la vita, un modello occupazionale conosciuto come “ciotola di riso ferrea” (tiěfànwǎn, 铁饭碗). Questo patto andava a vantaggio tanto del lavoratore, che riceveva sì salari bassi ma aveva accesso a servizi di ogni tipo, quanto delle autorità che in questo modo rafforzavano il proprio controllo sulla classe operaia, un regime che Andrew Walder ha definito di “dipendenza organizzata”.[2] Essere esclusi dall’unità di lavoro significava perdere accesso a cure mediche, alloggi, istruzione per i figli, il che costituiva un forte incentivo all’obbedienza.[3]

Questo consenso venne progressivamente meno negli anni Ottanta, quando le politiche di riforma e apertura iniziarono a intaccare la posizione privilegiata dei lavoratori urbani. Quattro decisioni in particolare ebbero conseguenze pesanti per la classe operaia urbana cinese: l’apertura delle Zone Economiche Speciali, veri e propri laboratori di sperimentazione capitalistica in concorrenza con il settore statale; l’allentamento dei controlli sulle migrazioni interne, con la conseguente liberazione di un massiccio surplus di forza lavoro rurale a basso costo; il rafforzamento delle prerogative manageriali all’interno delle unità di lavoro; e l’introduzione di un sistema contrattualistico del lavoro. In particolare, la decisione di rendere obbligatoria la stipula di contratti di lavoro per tutti i nuovi assunti nelle imprese statali a partire dal 1986, seppur di limitate conseguenze pratiche, ebbe conseguenze psicologiche devastanti per la classe operaia cinese: il lavoro cessava di essere un diritto a vita e diventava un semplice bene di scambio, vendibile sul mercato.

I moti della primavera del 1989 si situano in questo contesto. Sebbene siano conosciute ai più come un movimento esclusivamente studentesco, le proteste di quei mesi videro una significativa partecipazione da parte dei lavoratori, i quali non solo scesero in piazza a sostegno degli studenti, ma proclamarono la nascita di una varietà di sindacati indipendenti. In questo breve saggio, descriverò la natura binaria del coinvolgimento dei lavoratori negli eventi del 1989, mettendo in luce come alla mobilitazione “dal basso” dei lavoratori si contrapponesse l’attivismo “dall’alto” della burocrazia della Federazione nazionale dei sindacati cinesi (FNSC, Zhōnghuá quánguó zōnggōnghuì, 中华全国总工会), l’unica organizzazione sindacale legalmente riconosciuta nella Repubblica popolare cinese. Queste due anime operaie del movimento del 1989 rappresentavano concezioni di sindacalismo diverse e largamente inconciliabili, ma solo un esame di entrambe permette di avere un quadro completo del ruolo dei lavoratori in un movimento che ha rappresentato il canto del cigno per un’intera generazione di lavoratori e per un certo modo di intendere il lavoro in Cina.

 

Sindacalismo leninista

Sin dalla fondazione della Repubblica popolare, il Partito-Stato ha assegnato il monopolio sulla rappresentanza della classe operaia cinese alla FNSC, un’organizzazione di massa strutturata secondo il principio leninista del centralismo democratico, con funzioni ugualmente legate alla teoria di Lenin. Dopo la Rivoluzione d’ottobre, Lenin aveva descritto i sindacati come “un’indispensabile «scuola di comunismo» e un centro di addestramento che prepara i proletari nell’esercizio della loro dittatura, un’organizzazione operaia indispensabile per il graduale trasferimento della gestione dell’intera vita economica del Paese alla classe operaia (e non a diverse organizzazioni settoriali), e più tardi a tutti i lavoratori”.[4] In aggiunta, aveva spiegato come la dittatura del proletariato “non potesse funzionare senza un certo numero di «cinghie di trasmissione» che vadano dall’avanguardia alla massa della classe avanzata, e da quest’ultima alla massa dei lavoratori”.[5] In linea con questi principi, la FNSC fu chiamata a svolgere un ruolo di collegamento tra Partito-Stato e lavoratori, trasmettendo alla base le direttive delle autorità e riportando ai vertici le opinioni e i problemi sollevati dai membri. Tuttavia, la transizione dal pluralismo sindacale del periodo repubblicano al regime del sindacato unico non fu indolore. Negli anni successivi alla Liberazione, in più occasioni la FNSC tentò di rivendicare un minimo d’indipendenza dal Partito: una prima volta nel 1951, sotto la guida del leader carismatico Li Lisan, e una seconda volta nel 1956, in occasione del Movimento dei Cento fiori, quando Mao aveva invitato i cittadini ad esprimere liberamente le proprie opinioni sull’operato del nuovo governo.[6] In entrambi i casi, la reazione del Partito-Stato fu così violenta che il sindacato si trovò progressivamente svuotato di funzioni, venendo ridotto a poco a poco a un semplice erogatore di welfare e organizzatore di attività culturali, un declino che culminò con il completo smantellamento nelle prime fasi della Rivoluzione culturale.

La FNSC fu ricostituita nel 1978 con la funzione di organizzare i lavoratori perché prendessero parte al processo di modernizzazione del paese. Per rafforzare la legittimità dell’organizzazione sindacale agli occhi della classe operaia, le autorità cinesi riconobbero la necessità di garantire un certo livello d’indipendenza al sindacato.[7] Similmente, il governo cinese cercò di rafforzare il ruolo della FNSC sul posto di lavoro attraverso lo stabilimento di centinaia di migliaia di “congressi dei rappresentanti dei lavoratori” (zhígōng dàibiǎo dàhuì, 职工代表大会), ma l’esperimento fu un fallimento, in quanto queste organizzazioni si rivelarono sin da subito delle tigri di carta. Nel mezzo dei cambiamenti epocali causati dalle riforme, l’impotenza del sindacato creò scontento tanto ai vertici quanto tra i membri. A più riprese, i lavoratori scesero in strada a rivendicare il diritto a stabilire proprie organizzazioni indipendenti, in particolare nei primi anni Ottanta, incoraggiati dalle notizie che giungevano dalla Polonia.[8] Nel frattempo, approfittando della relativa apertura da parte del Partito-Stato, la burocrazia sindacale cercava di riformare il sistema dall’interno. Questo processo culminò all’XI Congresso nazionale della FNSC nel 1988, quando la leadership del Pcc riconobbe per la prima volta come il ruolo primario dei sindacati consistesse nel proteggere gli interessi dei lavoratori. In quell’occasione, i dirigenti sindacali discussero un piano di riforma che, se attuato, avrebbe trasformato il sindacato in un’organizzazione democratica in cui sindacati di livello più basso avrebbero formato associazioni di livello più alto e in cui i sindacati di livello più elevato sarebbero stati formati da delegati dalle organizzazioni di livello più basso.[9] Simili passi erano probabilmente una scelta obbligata al fine di evitare una rivolta interna alla FNSC, se si pensa che, in una dimostrazione di dissenso senza precedenti, i partecipanti all’XI Congresso osteggiarono l’elezione di tutti e tre i candidati per le posizioni più elevate proposti dal Partito e uno dei tre finì addirittura per perdere l’elezione.[10]

 

Movimenti dal basso

Questi tentativi di riforma intrapresi dalla FNSC arrivarono troppo tardi. Nella tarda serata del 15 aprile 1989, i primi capannelli di cittadini che si raccolsero in Piazza Tian’anmen per commemorare Hu Yaobang, il beneamato ex-Segretario generale del Pcc deceduto quel giorno, includevano già diversi lavoratori.[11] Nelle sere successive, una ventina di lavoratori tra i venti e trent’anni presero a incontrarsi regolarmente ai piedi del Monumento ai Martiri della Rivoluzione per discutere dei problemi comuni con cui si trovavano a confrontarsi sul posto di lavoro e della corruzione e incompetenza dei leader del Partito. Dopo il 17 aprile, quando gli studenti cominciarono le loro marce per le strade della capitale, il numero di lavoratori continuò a crescere e il 19 aprile alcuni di essi decisero di creare il primo embrione di quella che sarebbe passata alla storia come la Federazione autonoma dei lavoratori di Pechino (Běijīng gōngzìlián, 北京工自联). Pur nel silenzio dei media, la Federazione giocò un ruolo fondamentale nell’animare le mobilitazioni di quelle settimane, in particolare dopo la proclamazione della legge marziale il 20 maggio, quando continuò a organizzare manifestazioni pur di fronte a un calo generale nella partecipazione degli studenti. Nella settimana precedente il 4 giugno, la Federazione arrivò a contare su una mobilitazione costante di non meno di 150 lavoratori, impegnati a lanciare proclami al megafono o a raccogliere iscrizioni nelle tende dell’organizzazione sul lato nord-occidentale della piazza. Sebbene fosse stata fondata formalmente solo il 18 maggio, alla vigilia della repressione la Federazione dichiarava di aver raccolto le adesioni di circa 20.000 membri. Nel frattempo, sindacati indipendenti erano emersi in una dozzina di altre città cinesi, tra cui Shanghai, Changsha, Tianjin, Hangzhou, Hefei, Hohhot, Guijzhou, Jinan, Nanchang, Lanzhou, Nanjing, Xi’an e Zhengzhou.

La comunità accademica internazionale si è interrogata a lungo sulle motivazioni che spinsero i lavoratori a scendere in strada in massa a sostegno degli studenti nel 1989, una marcata differenza rispetto allo scarso entusiasmo dimostrato in occasione di dimostrazioni studentesche avvenute negli anni precedenti. In molti hanno messo in luce le ragioni economiche dello scontento, spiegando come, sebbene la qualità della vita dei lavoratori fosse migliorata nel decennio successivo all’avvio delle riforme, il morale della forza lavoro cinese alla fine degli anni Ottanta fosse molto basso.[12] Jackie Sheehan ha evidenziato quattro ragioni fondamentali per questo disagio: la rottura della “ciotola di riso ferrea”, vale a dire il già menzionato modello occupazionale dalla culla alla tomba che aveva caratterizzato le imprese statali nel periodo maoista; la nuova enfasi ufficiale sull’autorità dei direttori di fabbrica e sulla necessità di adottare uno stile manageriale “scientifico” all’interno delle imprese, esacerbata dalla rapida diffusione dei modelli capitalisti di relazioni industriali sperimentati nelle Zone Economiche Speciali; un diffuso senso d’insicurezza legato allo smantellamento del sistema previdenziale e di welfare in concomitanza con una rapida crescita del costo della vita e in assenza di un adeguato aumento dei salari; e la corruzione manageriale e il crescente divario tra i salari e le condizioni lavorative di lavoratori e manager.[13] Dopo il 1986, a questo si aggiunse un’inflazione galoppante, che cominciò a erodere i salari reali e fomentò lo scontento nei confronti del Partito-Stato, sulla base di una teoria popolare che considerava il fenomeno inflazionario una conseguenza della corruzione della classe dirigente.[14]

Eppure, l’idea secondo cui i lavoratori sarebbero stati mossi da motivazioni puramente economiche non è niente più che un pregiudizio diffuso inizialmente dagli studenti stessi. Sin dall’inizio della mobilitazione, gli studenti – convinti di rappresentare l’“anima” della Cina e decisi a prevenire ogni contaminazione della propria presunta “purezza” – avevano trattato i lavoratori con ostilità. I leader studenteschi non solo avevano costretto i lavoratori a stabilire la propria base sull’angolo nord-occidentale di Piazza Tian’anmen, in una posizione esposta ad attacchi, ma in diverse occasioni avevano ignorato le richieste dei lavoratori di proclamare uno sciopero generale, salvo cambiare idea nei primi giorni di giugno, quando ormai era troppo tardi, di fronte all’imminente attacco da parte dell’esercito.[15] Questo trattamento rifletteva sostanziali divergenze d’opinione. A differenza degli studenti, che avevano esplicitamente espresso il proprio sostegno per la fazione riformista guidata da Zhao Ziyang e in più occasioni avevano insistito per un’accelerazione delle riforme, i lavoratori infatti non prendevano le parti di una o dell’altra fazione del Pcc, ma avanzavano una critica più radicale che riguardava l’intero sistema politico e la direzione presa dalle riforme. Inchieste condotte nella seconda metà degli anni Ottanta dimostrano come i lavoratori cinesi all’epoca avessero un’elevata consapevolezza politica e apprezzassero i diritti democratici almeno quanto gli intellettuali.[16] Tuttavia, come Zhang Yueran ha spiegato in maniera eloquente in un recente articolo, la “democrazia” immaginata dai lavoratori cinesi negli anni Ottanta era molto diversa dall’idea liberale promossa da studenti e individuali. Si trattava piuttosto di una visione distinta di democrazia fondata sulla centralità della classe operaia, che prendeva alla lettera i proclami del Partito-Stato sul ruolo dei lavoratori come “padroni dello Stato” e insisteva sull’importanza dell’auto-organizzazione dei lavoratori, della democrazia sul posto di lavoro, del diritto allo sciopero e alla contrattazione collettiva.[17] Una simile critica non poteva non coinvolgere la FNSC.

 

Movimenti dall’alto

In quelle concitate settimane, la FNSC non era rimasta immobile. La prima occasione in cui il sindacato ufficiale giocò un ruolo attivo nelle proteste fu il 14 maggio, quando una delegazione della FNSC organizzò un corteo sulla Piazza per esprimere il proprio sostegno alla lotta degli studenti.[18] Il 16 maggio, alcune centinaia di studenti dell’Istituto per il Movimento dei Lavoratori (gōngyùn xuéyuàn, 工运学院), un centro di ricerca affiliato al sindacato, marciarono sulla sede centrale della FNSC e consegnarono a Zhu Houze, Primo segretario del sindacato, una petizione firmata da oltre 500 persone in cui si chiedeva che la FNSC, in quanto rappresentante dei lavoratori e impiegati, chiedesse all’Assemblea nazionale del popolo (ANP), al Consiglio per gli affari di Stato e al Comitato centrale del Pcc di: riconoscere la natura patriottica del movimento studentesco; garantire la libertà di stampa, pubblicazione e associazione; lottare contro la corruzione; adottare una nuova legislazione sui sindacati; e accettare che il sindacato parlasse e agisse per conto dei lavoratori.[19] Il 17 maggio, lo staff e gli studenti dell’Istituto parteciparono a diverse dimostrazioni, mentre circa diecimila lavoratori da una fabbrica di cavi elettrici di Pechino firmarono una petizione in cui si chiedeva alla FNSC di mediare con le autorità perché aprissero un vero dialogo con gli studenti e promettessero che non ci sarebbe stata alcuna rappresaglia, una richiesta che fu accolta con favore dal vicepresidente della FNSC, Wang Houde.[20] Il 18 maggio, la FNSC donò 100.000 yuan alla Croce Rossa perché aiutasse gli studenti impegnati nello sciopero della fame.[21] Quello stesso giorno, la FNSC presentò al governo tre nuove richieste: che iniziasse un vero dialogo con gli studenti; che aprisse una sessione anticipata del Comitato permanente dell’ANP; e che avviasse un dialogo con i lavoratori sotto l’egida del sindacato.[22]

Come ha evidenziato Anita Chan, queste posizioni erano coerenti con la natura corporativa del sindacato cinese che, pur pendendo dalla parte del movimento di protesta, cercava di fungere da mediatore tra Stato e società.[23] Un funzionario della FNSC, intervistato a Hong Kong nel periodo successivo alla fine delle proteste, stimava che metà della burocrazia sindacale avesse appoggiato il movimento e raccontava come funzionari del sindacato fossero scesi in strada a sostegno prima degli studenti e poi della Federazione autonoma e, rimanendo in frequente contatto con questi ultimi, avessero pure offerto propri scritti da leggere al megafono sulla piazza.[24] Eppure, a differenza delle molteplici dichiarazioni di solidarietà nei confronti degli studenti, non vi è traccia di alcuna dichiarazione pubblica in cui la FNSC abbia preso le parti dei sindacati indipendenti. Al contrario, quando nella settimana tra il 13 e 20 maggio una delegazione della Federazione autonoma si recò alla FNSC per chiedere aiuto nel registrare legalmente l’organizzazione, il sindacato rifiutò categoricamente ogni assistenza. Questo atteggiamento di chiusura probabilmente era dovuto al fatto che l’emergere di forme di sindacalismo indipendente rappresentava una minaccia esistenziale per la FNSC, senza contare le radicali divergenze tra la visione di sindacalismo militante promossa dai sindacati autonomi e il modello corporativo del sindacato ufficiale. Eppure, ci sono dei segnali che la spaccatura tra le due anime operaie del 1989 fosse sul punto di rinsaldarsi. Mentre i tentativi della Federazione autonoma dei Lavoratori di Pechino di proclamare uno sciopero generale stentavano a decollare a causa dello scarso radicamento dell’organizzazione all’interno delle unità di lavoro, stando ad alcune fonti la FNSC avrebbe deciso di proclamare uno sciopero generale per il 20 maggio.[25] Proprio questo passo senza precedenti avrebbe spinto le autorità a proclamare la legge marziale, precipitando gli eventi che avrebbero portato alla repressione armata del 4 giugno.

 

Il canto del cigno della classe operaia cinese

Dopo l’entrata in vigore della legge marziale, la fazione più conservatrice della FNSC ebbe il sopravvento. Il 2 giugno, il presidente della FNSC tenne un discorso in cui affermò la necessità di ristabilire l’ordine, sottolineando l’importanza della guida del Partito sul sindacato e criticando duramente le federazioni autonome dei lavoratori.[26] Il 12 giugno, la dirigenza della FNSC pubblicò una lettera indirizzata ai lavoratori e ai quadri sindacali in tutto il paese in cui si reiterava il dovere collettivo di smascherare le cospirazioni dei “pochi” istigatori e di lottare contro i sindacati autonomi affinché la produzione riprendesse senza ulteriori problemi.[27] Nei mesi successivi una purga interna privò il sindacato dei suoi quadri e dirigenti più riformisti, tra cui il primo segretario, Zhu Houze, arrestato in agosto.[28] Allo stesso tempo, il Partito-Stato lanciò una violentissima campagna di repressione che colpì in maniera sproporzionata i lavoratori, molti dei quali furono arrestati, torturati e condannati a morte.

Si potrebbe obiettare che la FNSC non rappresentasse un’autentica anima “operaia” delle proteste del 1989; che la burocrazia sindacale fosse composta da intellettuali che avevano più in comune con gli studenti che con i lavoratori in piazza. Oppure, si può mettere in luce la natura artificiale di questa divisione tra il sindacalismo corporativo della FNSC e quello militante dei sindacati indipendenti, argomentando come questa separazione fosse niente più che la conseguenza di decenni di politiche sul lavoro mirate a depotenziare la classe operaia e spiegando come sia stato proprio il rischio di un’imminente convergenza tra queste due visioni a causare la tragedia che tutti conosciamo. Ciò che è certo è che i movimenti del 1989 hanno rappresentato il canto del cigno della classe operaia dell’epoca maoista e di un certo modo di intendere il lavoro. Negli anni immediatamente successivi, mentre gli studenti venivano rapidamente reintegrati nella società cinese e intraprendevano brillanti carriere nelle istituzioni o nel settore privato, il Partito-Stato avviò una drastica ristrutturazione del settore statale e collettivo che portò alla rottura definitiva della ciotola di riso ferrea. Mentre un esercito di lavoratori migranti disposti a lavorare per salari bassissimi inondava le città, decine di milioni di lavoratori statali venivano “lasciati andare” in nome degli imperativi di produttività ed efficienza imposti dal nuovo paradigma neoliberale adottato dalle autorità cinesi con l’obiettivo di integrare la Cina nell’ordine commerciale globale. Se parte della vecchia classe operaia uscì vittoriosa dalle riforme, ad esempio ritenendo la proprietà degli alloggi loro assegnati dalle unità di lavoro, e andò ad aggiungersi alla nuova classe media urbana, un’altra significativa porzione finì sul lastrico. Sebbene ancora oggi il Partito si vanti di rappresentare l’avanguardia della classe operaia e la Costituzione cinese continui a esaltare i lavoratori come padroni dello Stato, simili formule non sono mai suonate così vuote.

[1] Per questa traduzione si veda Giorgio Melis (a cura di), “Costituzioni cinesi comparate (parte III)”, Mondo Cinese (1984) 46, disponibile all’Url https://www.tuttocina.it/Mondo_cinese/046/046_cost.htm.

[2] Andrew G. Walder, Communist neo-traditionalism: work and authority in Chinese industry (Berkeley, Los Angeles e Londra: University of California Press, 1986).

[3] Questo non significa che i lavoratori cinesi in epoca maoista fossero quiescenti – anche allora scioperi e proteste operaie erano relativamente frequenti –, ma ha assicurato che lo scontento rimanesse circoscritto a richieste specifiche e non si trasformasse in una critica sistemica di natura politica (con alcune importanti eccezioni, specialmente durante la Rivoluzione culturale). Per una storia dei movimenti operai nella Cina popolare, si veda Jackie Sheehan, Chinese workers: a new history (Londra e New York: Routledge, 1998).

[4] Vladimir Lenin, “«Left-wing Communism»: an Infantile Disorder”, in Lenin’s Collected Works, Vol. 31 (Mosca: Progress Publishers, 1964), 17-118.

[5] Paul Harper, “The party and the unions in communist China”, The China Quarterly (1969) 37: 84–119.

[6] Per una storia dei conflitti tra Partito-Stato e Sindacato nella Cina Popolare, si veda Ivan Franceschini, “The Broken Belt: the All-China Federation of Trade Unions and the Communist Party in the People’s Republic of China”, Contemporanea (2015) 1: 67–90.

[7] Il riconoscimento formale avvenne al Decimo congresso della FNSC tenutosi a Pechino nel 1983.

[8] Sull’impatto di Solidarność sul movimento dei lavoratori cinesi, si veda Jeanne Wilson, “«The Polish Lesson»: China and Poland 1980–1990”, Studies in Comparative Communism 23 (1990) 3-4: 259–279.

[9] Bill Taylor, Chang Kai e Li Qi, Industrial relations in China (Cheltenham: Edward Elgar, 2003), 111–112.

[10] Wang Shaoguang, “Deng Xiaoping reform and the Chinese workers participation in the protest movement of 1989”, Research in Political Economy (1992) 13: 163–197.

[11] La ricostruzione degli eventi del 1989 riportata in questo paragrafo si basa largamente su Andrew G. Walder e Gong Xiaoxia, “Workers in the Tiananmen protests: the politics of the Beijing Workers’ Autonomous Federation”, The Australian Journal of Chinese Affairs (1993) 29: 1–29.

[12] Andrew G. Walder, “Workers, managers and the state: the reform era and the political crisis of 1989”, The China Quarterly (1992) 127: 467–492.

[13] Jackie Sheehan, Chinese workers: a new history (Londra e New York: Routledge, 1998), 195–209.

[14] Andrew G. Walder e Gong Xiaoxia, “Workers in the Tiananmen protests: the politics of the Beijing Workers’ Autonomous Federation”, The Australian Journal of Chinese Affairs (1993) 29: 20.

[15] Ibid., 24.

[16] Wang Shaoguang, “Deng Xiaoping reform and the Chinese workers participation in the protest movement of 1989”, Research in Political Economy (1992) 13: 163–197.

[17] Zhang Yueran, “The Forgotten Socialists of Tiananmen Square”, Jacobin, 4 giugno 2019, disponibile all’Url https://www.jacobinmag.com/2019/06/tiananmen-square-worker-organization-socialist-democracy.

[18] Li Yun (a cura di), Diānkuáng de shé nián zhī xià [La tumultuosa estate dell’anno del serpente](Pechino: Defence Science University Press, 1989), 114.

[19] “400 yú míng gōnghuì gōngzuòzhě yóuxíng qǐngyuan” [Oltre quattrocento dipendenti del sindacato scendono in strada per presentare una petizione], Quotidiano dei Lavoratori, 17 maggio 1989, 1.

[20] “Běijīng diànzi gōngchang wàn míng zhígōng fāchū hūyù” [Diecimila dipendenti di una fabbrica elettronica di Pechino lanciano un appello], Quotidiano dei Lavoratori, 18 maggio 1989, 1; “Quánzōng fùzhǔxí Wàng Hòudé duì běnbào jìzhě fābiǎo tánhuà” [Wang Houde, vice-presidente della FNSC parla con uno dei nostri giornalisti], Quotidiano dei Lavoratori, 18 maggio 1989, 1.

[21] La notizia della donazione è riportata sia sul Quotidiano dei Lavoratori (18 maggio 1989, 1) che sul Quotidiano del Popolo (19 maggio 1989, 2).

[22] “Guānyú dāngqián shítài de wǔ diǎn shēngmíng” [Cinque dichiarazioni sulla presente situazione], Quotidiano dei lavoratori,  19 maggio 1989, p. 1.

[23] Anita Chan, “Revolution or Corporatism? Workers and Trade Unions in Post-Mao China”, The Australian Journal of Chinese Affairs, (1993) 29: 31–61.

[24] Andrew G. Walder e Gong Xiaoxia, “Workers in the Tiananmen protests: the politics of the Beijing Workers’ Autonomous Federation”, The Australian Journal of Chinese Affairs (1993) 29: 12.

[25] Wang Shaoguang, “Deng Xiaoping reform and the Chinese workers participation in the protest movement of 1989”, Research in Political Economy (1992) 13: 163–197.

[26] Ni Zhifu, “Zài quánguó chǎnyè gōnghuì zhǔxí zuòtán huìyì Ní Zhìfú tóngzhì de jiǎnɡhuà” [Discorso del compagno Ni Zhifu al Forum nazionale dei presidenti dei sindacati industriali], Quotidiano dei Lavoratori, 2 giugno 1989, 1.

[27] “Quánzōng zhìxìn quánguó zhígōng hé gōnghuì gānbù” [La FNSC manda una lettera ai lavoratori e ai quadri sindacali di tutto il Paese], Quotidiano dei Lavoratori, 12 giugno 1989, 1.

[28] Chiang Chen-Chang, “The role of trade unions in Mainland China”, Issues and Studies (1990) 26: 75–98.

Published in:

Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved

  • Privacy Policy
  • Cookie Policy