A un anno di distanza dalla 3a Sessione Plenaria del XVIII Comitato Centrale del Pcc molto è stato detto sui presunti passi avanti compiuti dal governo cinese lungo la strada delle riforme. Ma quali sono stati gli ambiti in cui si è proceduto a rilento, o addirittura a ritroso? Per comprendere le dinamiche dell’attuale ciclo politico cinese è molto importante analizzare ciò che la leadership ha promesso ma non realizzato, e cogliere così i limiti concreti e le difficoltà contro cui le riforme – non solo in Cina – si scontrano.
Tra le varie tematiche affrontate nella Plenaria del 2013, una delle più importanti riguarda il ribilanciamento dell’economia cinese, indicato come un obiettivo primario della leadership. Ebbene, questo fondamentale indirizzo di politica economica è contraddetto da due fatti recenti: il taglio dei tassi d’interesse avvenuto nel novembre 2014 e una più o meno conclamata politica monetaria espansiva, accelerata dal recente taglio del coefficiente di riserva obbligatoria imposto alle banche. Un ulteriore taglio dei tassi a marzo, inoltre, resta una possibilità reale. La contraddizione deriva dal fatto che una politica monetaria espansiva può sì favorire la crescita economica, ma, allo stesso tempo, tende a rendere la struttura dell’economia cinese ancor più sbilanciata. Specie nel caso di un’economia come quella cinese, crescita economica sostenuta e ribilanciamento non possono essere perseguiti in contemporanea. In altri termini, alle buone intenzioni – parole – nella direzione di un ribilanciamento dell’economia, il governo cinese ha fatto seguire scelte – fatti – che vanno in direzione opposta.
Naturalmente, è opportuno domandarsi se vi siano, invece, altre aree in cui il governo ha fatto concreti passi avanti. La risposta è solo parzialmente affermativa. Ad esempio, la recente riforma del sistema hukou – il meccanismo di registrazione della residenza ufficiale – è opportuna, ma risulta già superata dalla realtà dei fatti. Ratificando semplicemente una pratica già in corso da tempo, le nuove disposizioni probabilmente non porteranno reali vantaggi ai residenti delle zone rurali che volessero trasferirsi in città.
Per tornare all’ambito finanziario, non sono pochi i problemi rispetto ai quali il governo di Pechino si mostra timido: il mercato obbligazionario è praticamente inesistente, caratterizzato com’è da una curva dei tassi che non rispecchia il rischio; il settore bancario ombra continua a proliferare in risposta a una politica finanziaria repressiva che mantiene tassi d’interesse ingiustificatamente bassi; l’istituzione dei cosiddetti centri off-shore per l’operatività in renminbi (Rmb), al netto della fanfara mediatica, si rivela spesso un escamotage per permettere a individui o imprese cinesi di convertire Rmb in valuta straniera, aggirando il regime di controllo del flusso di capitali imposto dal governo; infine, cresce il numero di imprese che dichiara default sulle proprie obbligazioni, a partire dallo storico caso della Shanghai Chaori – primo default in assoluto in Cina nel marzo 2013 –, fino alla recentissima vicenda del Kaisa Group, primo default di obbligazioni in valuta estera, quindi con perdite anche per investitori stranieri.
Nel complesso, la dirigenza della Rpc si dibatte in una profonda contraddizione, consapevole com’è della necessità di un’ulteriore modernizzazione del sistema economico, ma timorosa di fare il passo troppo lungo, o troppo presto. Il settore bancario e finanziario è quello in cui si percepisce con maggior evidenza questa tensione: le scelte delle autorità stanno dimostrando che il Partito non è ancora pronto ad attuare vere riforme, che portino a un ribilanciamento effettivo dell’economia. L’obiettivo primario è ancora la crescita del Pil, un parametro economico che nasconde distorsioni ed inefficienze non più ignorabili. Ad aggravare il quadro è il modo in cui il governo cinese tenta di sostenere la dinamica di crescita dell’economia: la politica monetaria espansiva è uno strumento che non denota grande lungimiranza. Al contrario, è una politica “tappabuchi” che ha richiesto e richiederà, anno dopo anno, toppe sempre più grandi.
Secondo le ben note regole del meccanismo di trasmissione del sistema monetario, per stimolare l’economia un paese può adottare una politica monetaria espansiva che porti ad aumentare la massa di moneta circolante. Tale politica può essere realizzata attraverso vari strumenti, ma quelli usati più di frequente in Cina sono: a) i tassi d’interesse e b) il coefficiente di riserva obbligatoria. L’efficacia di tali politiche resta ancora oggetto di acceso dibattito ed è stata approfondita in alcuni studi recenti. Nel novembre 2014, la Rpc non solo ha tagliato i tassi d’interesse, ma ha effettuato il taglio in modo asimmetrico. I tassi d’interesse attivi (sui prestiti) sono passati dal 6% al 5,6% (taglio pari allo 0,4%), mentre i tassi d’interesse passivi (sui depositi bancari ad un anno) sono stati abbassati dello 0,25%, dal precedente 3,0% all’attuale 2,75%.
Al contempo, però, è stato anche innalzato il moltiplicatore dei tassi di interesse praticati sui depositi – che determina il tasso massimo di interesse che le banche possono offrire ai propri clienti – dal precedente 1.1x all’attuale 1.2x. Di conseguenza le banche possono oggi offrire un tasso di interesse massimo per i depositi pari a 2,75% * 1,2 = 3,3%, che è esattamente identico a quello massimo precedente (3,0% * 1,1 = 3,3%). In pratica, il nuovo taglio dei tassi ha abbassato il costo dei prestiti dello 0,4%, lasciando però invariato il tasso di interesse percepito dai detentori di depositi.
Qual è l’effetto netto di questa operazione? Come reagiscono cittadini ed imprese? Esiste una letteratura molto ampia che analizza come la propensione al risparmio dei cittadini possa mutare al variare del tasso d’interesse sui depositi. Nel caso particolare della Cina, ci si chiede come sia possibile che a fronte di tassi di interesse sui depositi così bassi (in passato anche negativi in termini reali), la propensione al risparmio rimanga tanto elevata. Diversi studi hanno approfondito il tema analizzando il risparmio come surrogato di un welfare statale carente; altri ne danno una lettura concorde con la teoria del ciclo vitale del consumo. Nel caso attuale della Cina è ragionevole supporre che, dal momento che i tassi d’interesse percepiti dai detentori di depositi non sono effettivamente cambiati, anche la propensione al risparmio degli individui resti invariata. Il che implica, matematicamente, che il tasso di consumo dei cittadini resti anch’esso invariato (tasso di consumo = 1 – tasso di risparmio). Sappiamo che il Pil di un paese è composto dalla somma di 1) consumi + 2) investimenti + 3) esportazioni nette. Tralasciando l’impatto delle esportazioni nette, che in Cina, al contrario di quanto si crede, conta per appena il 2% del Pil, l’impatto dell’abbassamento dei tassi d’interesse attivi (sui prestiti) dovrebbe comportare un minor costo del denaro per le imprese che volessero investire capitali. A conti fatti, quindi, l’ultimo taglio dei tassi dovrebbe avere come effetto: a) zero impatto sui consumi e sui risparmi dei cittadini; b) l’aumento degli investimenti. Il risultato è che nella composizione del Pil cinese, il peso relativo degli investimenti tenderà ad aumentare, mentre il peso relativo dei consumi a diminuire. Ebbene, “ribilanciare” l’economia significa, invece, esattamente l’opposto: aumentare il peso relativo dei consumi ed abbassare il peso relativo degli investimenti.
Se la politica economica del governo cinese dovesse continuare su questa direttrice, come sembra probabile, il quadro che si delineerà è quello di una crescita economica drogata da spinte keynesiane nel breve periodo, a fronte di una crescente dipendenza dagli investimenti. Questo non sarebbe di per sé un problema se tali investimenti producessero ritorni accettabili, in modo che la “toppa” necessaria a garantire la crescita economica potesse ridursi con l’andare del tempo. Il problema è che in Cina ciò non avviene. In un mercato in cui gli operatori sono divisi in due categorie – imprese di Stato da una parte, piccole e medie imprese private dall’altra –, il ritorno sugli investimenti delle prime è inferiore rispetto a quello ottenibile dalle seconde. Il paradosso è che l’abbassamento dei tassi di interesse attivi favorisce l’accesso al credito da parte delle grandi imprese di Stato, ma – altro mito da fugare – questo non vale per le piccole e medie imprese cinesi private, per le quali esso diviene ancora più impervio, se non addirittura impossibile. In pratica, si facilita l’accesso ai capitali a chi non dovrebbe potersene avvantaggiare e lo si nega, invece, a quanti potrebbero farne l’uso migliore. Proprio l’opposto di ciò che occorrerebbe: economia drogata al quadrato.
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