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Tra il 9 e il 12 novembre scorso si è svolta a Pechino la terza sessione plenaria del XVIII Comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc). È stato un evento “storico” anche a causa dei numerosi accostamenti con il terzo plenum del 1978, l’anno in cui Deng Xiaoping lanciò la sua riforma economica. Alla vigilia del plenum la maggior parte degli osservatori indicava come imminente un ridimensionamento del ruolo dello Stato per favorire quella liberalizzazione dell’economia e della società cinesi da molti indicata – specialmente in Occidente – come unico rimedio per correggere le distorsioni e gli squilibri creati dallo sviluppo economico degli ultimi anni.
Ciò è avvenuto al momento solo a parole: il documento finale segnala un orientamento in questo senso, ma – com’è d’altronde usuale per le decisioni assunte dal Comitato centrale del Pcc, cui spettano atti di indirizzo strategico più che politiche specifiche – non articola le tappe del percorso. Nel frattempo, i risultati più evidenti del plenum secondo gli esperti sono invece la conferma del ruolo centrale del Partito-Stato e l’accentramento dei poteri nelle mani di Xi Jinping, collocatosi al vertice di due nuovi organi, il primo dedicato all’approfondimento delle riforme e il secondo alla tutela della sicurezza dello Stato. Il progressivo emergere del Segretario generale del partito quale figura politica focale del sistema, ben al di là del ruolo di primus inter pares interpretato dal predecessore Hu Jintao, è funzionale alle ambizioni che la nuova dirigenza coltiva in campo economico e sociale: l’ascesa al potere di Xi è stata segnata fin dall’inizio dall’affaire Bo Xilai e più recentemente dalla lotta contro il gruppo di potere di Zhou Yongkang, già deus ex machina del sistema di sicurezza interna cinese e delle società statali del settore petrolifero, un monopolio che dovrebbe essere smantellato proprio attraverso i due nuovi organi presieduti da Xi. Questo fenomeno accentramento di poteri si riflette, però, anche sulla postura della Rpc in ambito internazionale, dove trovano espressione le ambizioni globali della quinta generazione di leader cui appartiene Xi. Su questo tema è intervenuto a ThinkINChina il prof. Wang Yizhou, Vice-direttore della School of International Studies della Peking University.
La Cina di oggi, sottolinea Wang nel suo ultimo saggio, deve sostenere il proprio ruolo in campo internazionale e perseguire una leadership nel continente asiatico attraverso un intervento più “creativo” (chuangzaoxing jieru, 创造性介入) che superi il tradizionale principio di non-interferenza negli affari interni degli altri paesi (bu ganshe neizheng yuance, 不干涉内政原测) e la politica del basso profilo (tao guang yang hui, 韬光养晦) di matrice denghista. Secondo Wang, per continuare a garantire lo sviluppo all’interno del paese la nuova leadership deve saper rafforzare la sicurezza nazionale attraverso una politica più attiva, che sappia tutelare gli interessi cinesi e rafforzare il ruolo di Pechino come leader della regione asiatica e grande protagonista a livello globale. Il ruolo di negoziazione giocato dalla Cina all’interno dei colloqui esapartiti sul problema nordcoreano o, più recentemente, nella delicata fase di disgelo tra Stati Uniti e Iran, gli accordi con i paesi dell’Asia centrale e sudorientale, ma anche l’assertività cinese nelle dispute territoriali con Giappone e Filippine, sono segnali di un ruolo più deciso che la Cina ambisce a giocare a livello regionale. Così come, secondo Wang, gli investimenti in infrastrutture, le missioni di peacekeeping, la mediazione diplomatica e la public diplomacy in Africa sembrano essere un buon esempio del modo in cui Pechino dovrebbe operare per tutelare i propri interessi al di fuori della regione. Almeno per il momento – si dovrebbe aggiungere. La crescente dipendenza energetica cinese dagli idrocarburi mediorientali, ad esempio, se minacciata dalle turbolenze regionali potrebbe stimolare anche il sorgere di una presenza più hard di Pechino in queste aree, o quantomeno incentivare sempre più la cooperazione nel settore della sicurezza tra la Cina e paesi come l’Iraq, dove gli investimenti delle compagnie petrolifere cinesi sono ormai da tempo in costante crescita.
Come hanno fatto notare diversi analisti (link in cinese) l’internazionalizzazione della presenza cinese ha progressivamente indebolito il confine tra minacce esterne e interne alla sicurezza del paese, creando sovrapposizioni burocratiche e frizioni tra le competenze dei diversi apparati istituzionali all’interno e estendendo all’esterno l’origine delle minacce alla sicurezza nazionale. La creazione di una Commissione per la sicurezza dello Stato tenta quindi di affrontare questo problema attraverso una ulteriore verticalizzazione dei poteri decisionali nell’ambito di un sistema di analisi complessivo top-to-bottom (il cosiddetto top-level design: dingceng sheji, 顶层设计), che possa integrare in un sistema organico le diverse aree – tradizionali e non – della sicurezza.
Ciò dovrebbe consentire una gestione più attenta dei rapporti regionali e delle dispute territoriali. Come scrive in un suo articolo Chen Xiangyang, esperto del China Institutes of Contemporary International Relations, fino al 2016 la Cina si concentrerà sul rafforzamento interno del paese e cercherà di gestire le dispute territoriali senza necessariamente puntare a risolverle, per poi affrontarle nel quinquennio successivo da una posizione di maggior forza garantita anche dal rafforzamento di quella “comunità di interessi” (gongtong liyi, 共同利益) costruita da Pechino attraverso una benefica cooperazione economica con i paesi limitrofi.
Problemi potranno dunque sorgere più facilmente nel periodo successivo, quello che Chen indica nel trentennio tra il 2020 e 2050, quando la Cina realizzerà la completa unificazione del paese (ossia integrando Taiwan e i territori contesi) risorgendo nuovamente come difensore dell’ “armonia dell’Asia-Pacifico”. Dalla fine della Guerra fredda, pace e sviluppo hanno regnato sovrani in Asia grazie all’egemonia americana sui mari e a quella cinese sul continente. Il ribilanciamento americano in Asia-Pacifico garantisce e conferma questo equilibrio e comprende in sé anche una logica stringente, che considera il rapporto strategico con una Cina sicura e aperta al mercato come prioritario rispetto al suo contenimento. Sul breve periodo, dunque, l’attivismo cinese in politica estera non rappresenta una minaccia per gli equilibri tradizionali e anzi, come rivela il caso iraniano, può diventare un’opportunità per il loro rafforzamento. Cosa accadrà dopo è assai meno facile da prevedere.
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