Banche cinesi in bilico

Come è noto, il sistema finanziario cinese ruota attorno a cinque grandi banche commerciali controllate dallo stato, le “big four” create agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso (Bank of China, People’s Construction Bank of China, Agriculture Bank of China, Industrial and Commercial Bank of China) più la recente Bank of Communications, oggi tutte quotate alle borse di Hong Kong e/o di Shanghai.

Queste banche, che nel 2010 rappresentavano il 63% degli asset bancari del paese, tendono a erogare prestiti soprattutto in favore delle aziende di stato, di fatto trascurando il settore “ibrido” dell’economia comprendente le imprese private e le imprese miste pubblico-private che coinvolgono spesso le amministrazioni locali. In tempi di stretta creditizia questo settore si è rivolto al mercato nero finanziario, accettando talvolta di pagare interessi molto elevati se non usurari. Il sistema informale del credito è stato a lungo tollerato dalle autorità, come strumento a sostegno dell’imprenditorialità talentuosa di alcuni individui che altrimenti non sarebbero mai riusciti a trasformare le proprie idee in beni e servizi da offrire sul mercato. Il clamore suscitato dal recente caso dell’imprenditrice Wu Ying, accusata di avere raccolto illegalmente 750 milioni di yuan dal 2005 al 2007, e condannata alla pena di morte (anche se in aprile la Corte suprema ha annullato il verdetto e ha chiesto che si tenga un nuovo processo nella natia provincia dell’imputata, lo Zhejiang), ha però costretto il regime a correre ai ripari.

Proprio nello Zhejiang il fenomeno ha acquisito rilevanza soprattutto dopo la crisi dello scorso anno, in cui molte aziende private di questa dinamica provincia furono costrette a dichiarare fallimento. Perciò in marzo il primo ministro Wen Jiabao ha dichiarato che sarebbe stato necessario permettere al capitale privato di entrare nel sistema finanziario in maniera “standardizzata e aperta”. Il diffuso ricorso al mercato nero dimostra infatti, ha sottolineato Wen, come il capitale privato non sia oggi in grado di venire incontro alle esigenze dello sviluppo economico e sociale. Due settimane dopo le parole di Wen hanno trovato attuazione nella decisione governativa di costituire nella città di Wenzhou (un’icona storica del capitalismo privato in Cina) una “zona finanziaria speciale”.

L’esperimento può essere riassunto in due provvedimenti cruciali: i prestatori di denaro privati sono stati autorizzati a registrarsi come istituzioni bancarie, regolarizzando così la propria attività informale; a ciascun cittadino di Wenzhou è stato concesso di investire direttamente fino a tre milioni di dollari all’estero in entità finanziarie non bancarie, senza dovere ricorrere all’intermediazione di strutture statali. Qualche giorno dopo l’approvazione della zona finanziaria speciale, Wen è tornato all’attacco, dichiarando che il “monopolio” delle banche di stato deve essere smantellato e affidando al capitale privato nel settore finanziario il compito di realizzare questo obiettivo. Wen ha lasciato allo stesso tempo intendere che, seguendo un copione già noto, la riforma, se di successo, potrebbe essere estesa ad altre parti del territorio nazionale.

La riforma di Wenzhou e le parole del primo ministro (che evidentemente, dopo la pubblicazione del rapporto China 2030, di cui abbiamo già parlato su OrizzonteCina dello scorso mese di marzo, vuole passare alla storia come il primo riformista cinese del XXI secolo) hanno ad oggetto un elemento cruciale dell’intero progetto di rebalancing dell’economia: la struttura del sistema finanziario. Giustamente o ingiustamente, le grandi banche sono viste dall’opinione pubblica come strumento di una politica finanziaria che negli ultimi anni, attraverso il controllo del tasso di interesse, ha sostenuto la crescita economica attraverso una scarsa remunerazione del risparmio e un’eccessiva remunerazione del capitale. Ciò è anche all’origine della bolla immobiliare, che, qualora scoppiasse, potrebbe causare seri danni al sistema bancario: nel 2010, più del 12% dei prestiti erogati era riconducibile ai mutui per la casa.

Se da un lato oggi le cinque grandi banche presentano bilanci migliori di quelli degli anni ’90 (i prestiti inesigibili sono oggi pari al 16% di tutti i prestiti erogati in Cina), grazie all’attività delle Asset Management Corporations (Amc), di proprietà statale, che hanno rilevato i loro prestiti inesigibili, l’attività di erogazione del credito è ancora oggi fortemente condizionata da motivazioni politiche, piuttosto che commerciali. Il rischio di un comportamento non virtuoso, giustificato dall’idea che le grandi banche siano “troppo grandi per fallire” e che quindi lo stato interverrà comunque in caso di difficoltà (azzardo morale), è chiaramente presente. Soprattutto dopo lo stimolo fiscale del 2008, non è chiaro, anche per la scarsa trasparenza dei dati, quale sia il grado di solidità del sistema, come sottolineato dal Fondo monetario internazionale in un recente rapporto che pure dà atto alla Cina degli sforzi di riforma anche in questo settore. Il Fondo perciò propone una serie di misure di riforma della governance delle banche, che rendano gli istituti sempre più separati dalle dinamiche di controllo politico del territorio cinese. In particolare, al sistema bancario commerciale non dovrebbe essere più affidato il ruolo di esecutore delle politiche macroeconomiche: queste ultime dovrebbero in misura più ampia fare ricorso alla leva fiscale e istituire programmi di prestito per progetti di sviluppo direttamente e specificatamente finanziati dalle policy banks, come avviene nei paesi occidentali e non solo. Se non si affronta questo peculiare aspetto del contesto finanziario cinese, anche la preannunciata piena convertibilità dello yuan, prevista per il 2015, potrebbe poggiare su fondamenta assai fragili.

Mentre, infatti, gli stress test effettuati sulle principali banche fanno ritenere che i singoli istituti siano in grado di resistere a shock limitati, difficilmente il sistema sarebbe in grado di reggere l’urto provocato da una concomitante serie di eventi negativi, quali ad esempio uno scoppio della bolla immobiliare, una crisi della bilancia dei pagamenti, una crescita esponenziale dei prestiti inesigibili o un crollo borsistico. In un recente rapporto della britannica Trusted Sources, viene ad esempio sottolineato come il pericolo più grave e incombente non risieda nel settore bancario in quanto tale ma nel fatto che, a causa della repressione finanziaria, molte industrie manifatturiere della costa abbiano investito i propri capitali nel settore immobiliare: in altre parole, la caduta improvvisa dei prezzi delle case (della cui possibilità si parla peraltro da anni) avrebbe una ricaduta diretta sull’industria, sul settore del credito e sull’occupazione. L’esperimento di Wenzhou potrebbe così essere un segnale nella giusta direzione, ma in realtà anche in assenza di riforme più strutturali la stretta connessione finanziaria pubblico-privato cui la Cina ci ha abituati potrebbe – sorprendentemente – funzionare se è vero che le “quattro grandi”, date da molti come spacciate alla fine degli anni ’90, sono state negli ultimi anni quotate sul mercato con offerte pubbliche iniziali (Ipo) che hanno bruciato tutti i record di collocamento.

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