[ITALIA-ASEAN] Beni strumentali, beni di consumo e infrastrutture: le grandi opportunità per l’Italia nel Sud-est asiatico

ITALIA-ASEAN

A cura dell’Associazione Italia-ASEAN

Secondo una ricerca svolta nel 2015, nell’ASEAN si registrano 421 presenze aziendali italiane. In tutti i casi esaminati, la casa madre italiana ha effettuato un trasferimento di risorse imprenditoriali in uno dei dieci Paesi dell’Associazione. Il numero è variamente interpretabile. Sembra ridotto: in valore assoluto, in relazione alle dimensioni dell’ASEAN e rispetto alle sue dinamiche. Sembra al contrario adeguato o positivo se paragonato ad altri Paesi, in relazione alle attese, in o considerazione della crisi.

Di fronte alla vastissima platea di imprese italiane, il numero di 421 è appena visibile. Per un Paese a forte vocazione esportativa, le destinazioni estere sono parte essenziale delle gestioni aziendali. Se le esportazioni sono il primo passo verso la decisione di investire nello stesso mercato, verosimilmente il numero di aziende riflette lo scarso peso dell’area come destinazione dell’export. L’ASEAN rappresenta un blocco in crescita, con conti economici sostanzialmente in ordine e dove l’immagine dell’Italia è molto positiva. Il nostro Paese ha eccellenti relazioni bilaterali, non inquinate da rancori post-coloniali. Non esistono tensioni politiche, tanto meno militari o legate alla sicurezza. Anche tra i consumatori è forte l’immagine dell’Italia come Paese che esprime arte e cultura, dove la qualità della vita è alta e si producono prestigiosi beni di consumo. Se ne apprezzano lo stile di vita, la cucina, le manifestazioni sportive. Tale prestigio tuttavia non trova riscontri coerenti negli investimenti e nelle esportazioni. Sarebbe dunque auspicabile un maggiore dinamismo verso i Paesi cosiddetti emergenti, in modo particolare l’Asia orientale e in questa l’ASEAN.

Al contrario, 421 presenze possono essere valutate positivamente. Se messe in relazione con altri Paesi e con le aspettative esse appaiono sorprendenti. Secondo valutazioni di Osservatorio Asia (che ha pubblicato due libri sulle presenze italiane in Cina e in India) sono attive circa 1.950 aziende in Cina e circa 380 in India. La distanza con la prima non è grande, se si tiene in considerazione la differenza di popolazione (più di due volte superiore a quella dell’intero raggruppamento ASEAN). La Cina è inoltre tuttora per antonomasia “la fabbrica del mondo”, il Paese che da decenni riceve il maggior numero di investimenti diretti esteri a fini produttivi. Oltre la Grande Muraglia si è registrato uno dei fenomeni probabilmente più importanti della globalizzazione: la congiunzione degli interessi del Paese con quello delle multinazionali.  Le imprese italiane hanno contribuito all’industrializzazione della Cina, inizialmente con una massiccia fornitura di macchinari e successivamente stabilendo unità produttive in loco. Una terza fase ha riguardato investimenti per i beni di consumo, le parti e i componenti. Rispetto alla Cina dunque e alle sue grandi potenzialità, il numero di presenze in ASEAN è soltanto relativamente minore. Esso è inoltre superiore a quello dell’intera India, la cui popolazione è pressoché doppia. Si tratta in questo caso di una supremazia più simbolica che reale, perché i ritardi dell’India – e dell’intero subcontinente – sono così radicati da essere con rassegnazione considerati cronici.

La destinazione preferita degli investimenti italiani in ASEAN è Singapore, con 118 presenze. Vietnam (76), Indonesia (73), Malaysia (72) registrano comunque valori importanti e tra loro comparabili. Sono seguite da Thailandia (57) e Filippine (18). Sono quasi assenti gli investimenti in Myanmar (3), Laos (3) e Cambogia (1), inesistenti quelli in Brunei.

La ricerca ha evidenziato, nella composizione merceologica, la prevalenza di tre settori importanti:

  • la meccanica e i beni strumentali (23% del totale);
  • la chimica-petrolchimica, la farmaceutica e l’energia (19%);
  • l’elettrotecnica elettronica ICT (11%).

La grande maggioranza degli investimenti (301, pari al 71%) si concretizza nei servizi: uffici di rappresentanza, distribuzione e consulenza, studi legali, presenze istituzionali, banche, assicurazioni, società della logistica. La parte rimanente (120, pari al 29%) è attiva nella produzione di manufatti e, in misura minore, nell’estrazione di prodotti energetici.

Anche se la ricerca non consente conclusioni inequivocabili, è possibile trarre alcune indicazioni sia per le aziende sia per il Sistema Paese nel suo complesso.

La più importante osservazione è la concreta possibilità di incremento nelle relazioni economiche – sia commerciali sia di investimento – con l’intero blocco dell’ASEAN e con le singole nazioni che lo compongono. Non si tratta di concetti usuali o di aspirazioni senza fondamento. Le prospettive si fondano su una serie di fattori oggettivi che impongono scelte innovative. Il trasferimento di capacità produttive in Estremo Oriente è incontestabile, presentando al tempo stesso diversificazioni che vanno esplorate; la maturità e la stabilità dei Paesi ASEAN sono asset consolidati; la crescita economica – diffusa e consistente – sostiene un riscatto socio-culturale di dimensioni epocali; la capacità di generare valore nei processi economici è ormai solida nel Sud-est asiatico.

In questo quadro, la presenza delle aziende italiane non è marginale, ma appare suscettibile di incrementi.  Sono tre i macrosettori che presentano opportunità concrete. A essi ovviamente sono legati gli investimenti dei comparti collegati:

  • i beni strumentali. I buoni risultati raggiunti non hanno esaurito la domanda interna. I processi di industrializzazione di tutti i Paesi ASEAN (con la parziale eccezione di Singapore e Brunei) hanno un passaggio obbligato: la trasformazione delle materie prime. La secolare ambizione a non doverle esportare ha trovato una leva potente nella delocalizzazione produttiva dei Paesi industrializzati. L’ASEAN può ora più facilmente trattenere il valore aggiunto derivante dalla trasformazione delle proprie risorse: legno, minerali, fossili, marmo, metalli preziosi, gomma, prodotti dell’agricoltura. Le ripercussioni sulla meccanica leggera italiana sono evidenti e immediate;
  • La costruzione di infrastrutture. La dotazione dell’intero gruppo dei Paesi ASEAN non è insufficiente come quella di altre aree in via di sviluppo (è noto al riguardo il ritardo del sub-continente indiano). Inoltre il ruolo centrale di Singapore compensa in qualche misura la mancanza dei singoli Stati. Essa è invece insufficiente in relazione alle prospettive di crescita.  La recente decisione collettiva di aderire all’iniziativa di Pechino per la creazione di una banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali conferma l’urgenza di questo aspetto. In ogni documento dei governi viene ribadito l’impegno a costruire strade, aeroporti, porti, dighe, centrali elettriche. Soprattutto l’Indonesia – il Paese di gran lunga più esteso, frastagliato e popoloso –  ha espresso questa volontà come cardine della politica economica del nuovo presidente Joko Widodo (si veda l’articolo di Ray Hervandi su RISE Vol. 2 No. 1, d.R.). Le motivazioni non si discostano da quelle classiche: produrre senza poter distribuire è un’operazione incompleta; la libera circolazione di merci e persone offre vitalità all’intero sistema economico. Anche in questo caso la tradizione delle aziende italiane di costruzione, progettazione e gestione potrebbe trovare riscontri superiori a quelli finora registrati;
  • I beni di consumo. La produzione italiana – con il traino delle grandi firme, ma non limitata a esse – è conosciuta per prestigio, qualità, status sociale che trasmette. La crescita di una classe media è un fenomeno economico e demografico di dimensioni impressionanti nel Sud-est asiatico. Affrancata da condizioni di sussistenza ed esposta al marketing internazionale, la regione rappresenta un approdo insostituibile per il Made in Italy. Le sue tre articolazioni – Sistema Moda, Sistema Persona, Agroalimentare – rappresentano le ambizioni di un ceto medio urbano, sensibile a nuovi gusti, dotato di una capacità di spesa ormai rilevante.

Esiste infine un’altra opportunità per il futuro immediato, che rappresenta una conseguenza generale del progresso dell’area e interessa l’intera sfera degli affari. Si sono affermate nell’ASEAN moltissime imprese medio-piccole, spesso di derivazione dei grandi gruppi o di investimenti a base familiare. Si tratta di aziende giovani, private, nate dalla globalizzazione, che non risentono dei condizionamenti politici. I retaggi del passato e le vicinanze con i governi avevano favorito, nella prima fase di industrializzazione, le multinazionali che avevano maggiori risorse e tempo dilatato a disposizione. Il loro vantaggio sulle piccole e medie imprese (PMI) era incontestabile. Ora questa distanza si è notevolmente ridotta; lo certifica un dato statistico inequivocabile: nell’ASEAN, il 96% delle aziende è di dimensioni medio-piccole.  L’apertura progressiva dei mercati e la garanzia del rule of the law consentono dunque alle aziende italiane di affrontare i mercati con meno apprensione, con partner della loro stessa dimensione e dunque con scelte più lungimiranti e redditizie.

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