Le frizioni tra Pechino e Washington sulla vendita di armamenti Usa a Taiwan non sono certo una novità. Si sono verificate a più riprese sin dagli anni ’80 del secolo scorso. Ciò che è cambiato è il tenore di queste periodiche dispute, che stanno diventando man mano più acute e dannose per le relazioni bilaterali.
Le autorità di Pechino mostrano di tollerare sempre meno quella che considerano un’indebita intromissione statunitense nelle relazioni con una provincia ribelle. Quando l’amministrazione Obama annunciò la sua prima vendita di armamenti a Taiwan nel gennaio 2010, la Repubblica popolare cinese (Rpc) minacciò di imporre sanzioni alle società americane coinvolte in questo genere di esportazione, oltre a sospendere ogni contatto con le forze armate Usa.
Lo scorso 21 settembre, la Casa Bianca ha informato il Congresso dell’intenzione di vendere al governo di Taipei armamenti per un ammontare complessivo di 5,8 miliardi di dollari, compreso il restyling della flotta di F-16 A/B in possesso dell’aeronautica taiwanese. La reazione cinese ha sin qui seguito il solito copione: Pechino ha condannato la scelta dell’amministrazione Obama, ammonendo sul rischio di nuovi gravi ostacoli nelle relazioni militari bilaterali. Il Ministro degli Esteri Yang Jiechi a New York ha pubblicamente chiesto che la decisione sia sospesa per non danneggiare le relazioni sino-statunitensi.
Nonostante le vigorose proteste cinesi, la maggior parte degli analisti statunitensi ritiene che si tratti più di retorica che di sostanza. Essi tendono a minimizzare la gravità di questi episodi, sottolineando invece i tangibili benefici che derivano dalla vendita di armamenti a Taiwan. Alcuni settori dell’opinione pubblica statunitense ritengono inaccettabile ogni interferenza della Rpc sulla questione delle forniture di armamenti a Taiwan. Questi ultimi sono considerati necessari per mantenere l’equilibrio strategico nello Stretto che separa Taiwan dalla Cina continentale, secondo quanto previsto dal Taiwan Relations Act varato dal Congresso Usa nel 1979.
Le divergenze tra Stati Uniti e Cina non possono, però, essere sottovalutate perché rischiano di mettere a repentaglio una relazione bilaterale che non ha eguali al mondo per importanza specifica e conseguenze globali. Gli armamenti a Taiwan sono un bastione della presenza statunitense nello Stretto di Taiwan e, più in generale, nella regione dell’Asia-Pacifico. In una fase in cui l’equilibro strategico tra Rpc e Taiwan è rimesso in discussione dal rapido ammodernamento delle forze armate cinesi, gli Stati Uniti mostrano di voler tener fermo l’impegno per una soluzione pacifica del futuro status di Taiwan.
Ogni nuovo trasferimento di armamenti costituisce un’umiliazione per i cinesi, che considerano Taiwan parte inseparabile dell’unica Cina e non ritengono di dover addurre giustificazioni legali della loro rivendicazione sull’isola. Gli Stati Uniti, dal canto loro, pur prendendo atto del fatto che esiste una sola Cina (“One China Policy”), non entrano nel merito dello “status indefinito” di Taiwan, limitandosi a specificare che tale condizione non dovrà mutare per vie violente (giustificando così la vendita di armi a Taipei con l’obiettivo di prevenire colpi di mano militari da parte cinese). Questa politica, varata nel 1979, da allora non né mai stata cambiata.
La Cina, però, è cambiata enormemente, come pure l’assetto complessivo dell’ordine internazionale. Stati Uniti e Cina non solo sono diventati partner cruciali gli uni per l’altra, ma la loro relazione bilaterale è fondamentale per il mondo intero. I leader statunitensi vogliono tutelare la democrazia taiwanese e la pace nello Stretto ma la vendita degli armamenti a Taiwan è una grave offesa per lo spirito patriottico cinese. Non c’è questione di politica internazionale che infiammi di più l’opinione pubblica cinese. Casa Bianca e Congresso possono anche ignorare le reazioni dei vertici della Rpc, ma ad essere danneggiata è anche l’immagine degli Stati Uniti presso le masse cinesi. La diffusione di sentimenti antiamericani può ridurre gli spazi di manovra di cui Pechino dispone per raggiungere intese con Washington su una serie di dossier critici come Corea del Nord, Iran, Myanmar e Medio Oriente.
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