Campi di rieducazione attraverso il lavoro: chiusura o riforma?

Le notizie circolate in Cina e all’estero su un’imminente riforma dei campi di rieducazione attraverso il lavoro, detti laojiao 劳教 (laodong jiaoyang guanli suo, 劳动教养管理所), hanno generato molto interesse ma sono tuttora alquanto approssimative, soprattutto se messe in relazione a un fenomeno ampio e complesso come quello in questione. I campi saranno chiusi, o si pensa a una modifica del loro funzionamento?

È sufficiente dare al laojiao un altro nome per fare risaltare la rilevanza storica e giuridica del tema. Il laojiao, infatti, non è altro che la versione cinese del Gulag sovietico. Per questa ragione, e perché potremmo essere di fronte a un poderoso cambiamento del sistema giudiziario ed extra-giudiziario cinese, è opportuno cercare di capire la direzione che questa riforma prenderà e quale impatto essa possa avere sul fenomeno più ampio della detenzione amministrativa in Cina.

Prima però è necessario specificare cosa si intende per laojiao al fine di evitare di confonderlo con altre forme di detenzione praticate nel paese. Il sistema dei laojiao fu creato nel 1957 come supporto alla campagna contro la destra del Pcc e i nemici di classe: nei campi venivano confinati soggetti politicamente pericolosi che non avevano, però, commesso reati perseguibili a norma di legge. Dopo la fine della Rivoluzione culturale, però, il laojiao viene ad essere utilizzato per punire un ben più ampio spettro di soggetti, da coloro che con eccessiva insistenza presentano petizioni contro organi statali, agli appartenenti a sette o religioni non ammesse, passando per prostitute, tossicodipendenti e chi paia minacciare la sicurezza dello Stato. Nei trecentoventi campi di lavoro operanti sotto la supervisione del Ministero della Giustizia i detenuti sono adibiti, per un periodo che può andare da sei mesi a quattro anni, a lavoro forzato accompagnato da lezioni finalizzate alla rieducazione. La caratteristica fondamentale che contraddistingue il laojiao è che l’ordine di arresto e internamento è emesso per via amministrativa da organi di polizia senza l’indispensabile intervento dell’autorità giudiziaria e le garanzie prestate da un difensore.

Tre considerazioni aiutano a comprendere non solo perché una chiusura tout court dei campi sia oggi da escludersi, ma anche perché il fenomeno più ampio della detenzione amministrativa in Cina sia lontano da una conclusione.

In primo luogo, il laojiao non è l’unica forma di detenzione amministrativa a cui i cittadini cinesi possono essere sottoposti. Infatti, oltre ai campi di rieducazione attraverso il lavoro esistono molteplici altre istituzioni detentive non sottoposte al preventivo vaglio dell’autorità giudiziaria fra cui i Centri di riabilitazione e trattamento forzato (qiangzhi jiedusuo, 强制戒毒所). Di conseguenza né una eventuale chiusura dei campi né una loro riforma porterebbero ad un’abolizione della detenzione in via amministrativa, perché altre istituzioni continuerebbero a operare non essendo incluse nella riforma in atto.

In secondo luogo, la riforma del laojiao era già stata precedentemente annunciata ma senza che essa prevedesse cambiamenti di rilievo. Progetti di legge sono stati inseriti più di una volta nei piani legislativi annuali dell’Assemblea nazionale del popolo per essere poi accantonati a causa dei disaccordi fra i vari enti governativi interessati e in primo luogo fra il Ministero della Giustizia e il Ministero della Pubblica sicurezza. A seguito dell’entrata in vigore, il primo giugno 2008, della prima legge organica anti-droga nella storia della Repubblica popolare cinese si parlò di una fusione dei campi di rieducazione attraverso il lavoro con i centri di riabilitazione e trattamento forzato in una nuova struttura detentiva chiamata “Centri per la riabilitazione forzata in isolamento” (qiangzhi geli jiedu changsuo, 强制隔离戒毒场所). Anche questo esperimento però non ebbe seguito, probabilmente perché, se da un lato sembrava risolvere la situazione dei detenuti tossicodipendenti (questi non erano più destinati a rieducazione attraverso il lavoro, ma ai nuovi campi di isolamento e a comunità terapeutiche), dall’altro lasciava le autorità di polizia senza una “soluzione” per le altre categorie di detenuti.

Un’ultima ragione che induce a non sperare in una rapida abolizione della detenzione nei campi di rieducazione (così come delle altre forme di detenzione amministrativa) è che una tale procedura di detenzione extra-giudiziaria costituisce una misura preventiva e repressiva diretta al mantenimento dell’ordine pubblico molto flessibile e quindi utile al governo per garantire la stabilità sociale.

Cosa è dunque legittimo aspettarsi nel 2013 e oltre? Una riforma, seppure limitata al sistema dei laojiao, sarà molto probabilmente portata avanti, giacché il laojiao getta cattiva luce su un governo che cerca di far seguire agli straordinari successi economici anche progressi nel campo dei diritti politici e civili. In aggiunta, il governo è al corrente che se da una parte i campi rimangono uno strumento efficace di controllo sociale, dall’altra costituiscono un fallimento nella loro funzione di rieducazione e un enorme dispendio di risorse pubbliche: basti pensare che il tasso dei tossicodipendenti rilasciati e poi nuovamente riammessi ai campi può arrivare al 90%. Ultimamente poi, i cittadini cinesi hanno iniziato a fare ricorso contro questa forma di detenzione, aumentando così la pressione sul governo.

È probabile che nel processo di riforma lo Yunnan e il Guangdong serviranno da terreno di prova. In queste province, infatti, già oggi le autorità di polizia si preparano a una eventuale abolizione dei campi e in alcuni casi ricorrono alla sospensione temporanea della punizione. Questa sperimentazione fornirà elementi utili alle autorità centrali per preparare una bozza di legge da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea nazionale del popolo.

Affinché però la riforma annunciata non si traduca in un mero intervento cosmetico, il governo dovrebbe innanzitutto rendere legali alcuni comportamenti che oggi, pur non essendo previsti come reato dal Codice penale cinese, sono comunque considerati una violazione dei regolamenti di pubblica sicurezza. In particolare, tutti i tossicodipendenti ancora soggetti alla rieducazione attraverso il lavoro – la grande maggioranza dei detenuti nei campi – dovrebbero essere ammessi ai programmi di riabilitazione volontaria in comunità terapeutiche. Allo stesso tempo, è auspicabile che il governo potenzi le risorse dedicate a quei programmi oggi embrionali volti alla riabilitazione in comunità dei detenuti cosiddetti “a basso rischio” e ampli il piano di edilizia penitenziaria affinché moderne istituzioni carcerarie possano ospitare quella parte di detenuti nei campi (e in altre simili istituzioni) che domani potrebbero essere condannati a pene detentive emesse da un tribunale regolare.

Nell’attuare un tale piano di riforma il governo dovrà vincere la resistenza dei quadri della polizia locale che spesso considerano i campi come una fonte di reddito addizionale, potendone sfruttare il lavoro forzato quasi gratuito. Il governo dovrà altresì confrontarsi con il cambiamento nei rapporti di forza che interverrebbe fra gli organi giudiziari e quelli di pubblica sicurezza. Una riforma sostanziale del sistema dei laojiao in senso garantista incrementerebbe infatti il potere dei primi per la prima volta dalla fondazione della Repubblica popolare cinese.

In un periodo storico in cui importanti riforme politiche sono da escludersi, è difficile pensare a un’altra riforma che possa più di questa accrescere il profilo della Cina a livello internazionale, soprattutto se essa porterà col tempo a una revisione e modifica dell’intero sistema di giustizia penale. L’abolizione dei campi, o comunque una solida riforma in senso garantista, accorcerebbe anche la strada verso la ratifica del Patto internazionale sui diritti civili e politici (International covenant on civil and political rights) che la Cina ha firmato nel 1998 (e mai ratificato) e le permetterebbe contestualmente di uscire dalla lista dei paesi che ancora usano questa forma di detenzione, lasciandone – dopo la fine dell’Urss – il triste primato alla Corea del Nord.

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