Anche la Cina, come tutti i paesi industrializzati, si trova a dover affrontare le sfide poste dalla cosiddetta “Industry 4.0” che include lo sviluppo e integrazione di nuovi materiali e di tecnologie come la robotica, l’Internet delle cose, l’added manufacturing, la cybersecurity. Anzi, per la Cina si tratta di una sfida forse ancora più complessa.
In primo luogo, il prodotto interno lordo (Pil) cinese dipende ancora moltissimo dal settore manifatturiero e l’accelerazione della transizione tecnologica che ha investito questo settore avviene proprio in un momento in cui la crescita del paese va rallentando. In un recente rapporto pubblicato dalla European Chamber of Commerce in China (Ccec), si ricorda come il 25% del valore aggiunto prodotto in manifattura a livello globale è “made in China”. La Cina produce il 28% delle automobili, il 41% delle navi, più dell’80% dei computer, più del 90% dei telefoni cellulari, il 60% delle tv a colori e metà dell’acciaio globale. Per la Cina si tratta, inoltre, di affrontare un salto d’innovazione molto più complesso rispetto a quello che stanno sperimentando i paesi più avanzati, poiché ha ancora in attività molte filiere produttive strutturate per sfruttare il basso costo della manodopera cinese. Si tratta quindi spesso di passare da un’industria 2.0, efficiente nella minimizzazione dei costi ma poco innovativa, direttamente all’industria 4.0.
D’altra parte non vi sono alternative. Il costo del lavoro in Cina è aumentato negli ultimi anni al ritmo del 10% annuo e l’invecchiamento della popolazione proiettato nei prossimi decenni non potrà che aumentare la tendenza all’esaurimento del bacino di manodopera a basso costo il cui sfruttamento ha permesso il decollo economico cinese.
La Cina deve quindi cambiare modello di sviluppo per rimanere competitiva e anche per riuscire a intercettare una quota maggiore del valore aggiunto creato dalle sue imprese manifatturiere. Questo è possibile solo se queste ultime controllano gli snodi cruciali delle catene del valore, entrando a valle nella distribuzione, ma anche diventando a monte più innovative.
China manufacturing 2025 (Cm2025) è parte delle risposte a questi problemi. Ed è una parte delle strategie che il paese sta mettendo in atto per diventare nel 2049, a cent’anni dalla presa del potere da parte del Partito comunista cinese, un vero leader manifatturiero globale.
Cm2025 non può essere e non è una semplice riproposizione dei progetti di Industry 4.0 sviluppati in Europa o negli Stati Uniti. Se le tecnologie prese in considerazione sono invero le medesime, diversa è la politica industriale che le sostiene, le sviluppa e le applica. Così come accade per tutte le politiche economiche cinesi, anche China 2025 ha un approccio prevalentemente top down. Il governo indica nel dettaglio non solo le tecnologie, ma anche i settori principali d’intervento: l’information technology di prossima generazione, macchine di controllo numerico ad alta tecnologia, robotica, aerospazio e aviazione, attrezzature avanzate per l’ingegneria marittima e ferroviaria, produzione di navi hi-tech, veicoli a basso consumo energetico ed elettrici, macchinari e attrezzature agricole, nuovi materiali, biofarmaceutica e strumenti medicali ad alta performance. Il piano definisce anche quali siano gli obiettivi: dalla riduzione dei costi, all’aumento di qualità e affidabilità, all’istituzione di nuovi centri d’innovazione, alle percentuali di componenti che devono essere prodotti nel paese. Infine, definisce gli strumenti necessari al raggiungimento degli obiettivi indicati. Il già citato rapporto della Ccec ne indica dieci: trasferimenti forzati di tecnologia in cambio di accesso al mercato, restrizioni all’accesso al mercato e agli appalti pubblici per le imprese con capitale straniero, adozione di standard specifici, elargizione di sussidi, politica finanziaria, fondi di investimento garantiti dal governo, sostegno dai governi locali, investimenti all’estero in cerca di tecnologia, fusione e politicizzazione delle imprese di Stato, partnership pubblico-privato.
Cm2025 non vuol quindi solo promuovere l’adozione di nuove tecnologie ma anche e soprattutto la capacità di sviluppo delle stesse. In una prima versione dei documenti relativi a Cm2025 si era arrivati a indicare la percentuale di componenti per ciascun settore produttivo che si sarebbe dovuta produrre nel paese. Successivamente il governo ha smentito che i target indicati fossero stati definiti dal governo, lasciando intendere che fossero frutto del lavoro di think tank e centri di ricerca. Tuttavia l’idea che vi siano degli obiettivi precisi non può essere messa in discussione. Il fatto che il governo abbia smentito la fissazione di target specifici non deve stupire. Questi target, tra l’altro molto elevati, sono difficilmente compatibili con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Sono in effetti gli strumenti utilizzati per l’attuazione di queste politiche a creare diverse preoccupazioni alle imprese europee. A ben vedere non si tratta di strumenti nuovi. Ognuno di essi è utilizzato da moltissimi anni formalmente o informalmente. Le imprese straniere lamentano da sempre le richieste più o meno esplicite che vengono dal governo cinese – centrale o locale a seconda dell’importanza delle imprese – affinché si trasferiscano nel paese produzioni più sofisticate e si vendano i prodotti più avanzati. Analogamente, da sempre le imprese locali hanno un accesso privilegiato al settore degli appalti pubblici. Né sono nuovi i sussidi alle imprese che vogliono innovare ma anche semplicemente esportare. Tuttavia vedere formalizzati tutti questi strumenti insieme non può che preoccupare, tanto più che la speranza – fino almeno a qualche tempo fa – era semmai quella di una riduzione dell’intervento dello Stato in economia.
Va peraltro sottolineato come questo piano presenti alcune opportunità per le imprese italiane. Per raggiungere gli obiettivi che si è dato, il governo non potrà solo basarsi sull’innovazione sviluppata dalle imprese e dai centri di ricerca cinesi, ma si dovrà rivolgere anche alle imprese straniere che sono, ad oggi, più avanzate in diversi settori. Molti paesi europei stanno sviluppando progetti di cooperazione con la Cina che mettano insieme Industry 4.0 e Cm2025. Tutto questo viene in genere fatto rientrare nell’ambito della Belt and Road Initiative (Bri), il progetto di proiezione internazionale della Cina su cui più si è esposto il Presidente Xi (Orizzonte Cina vi ha dedicato il numero 6 del 2016).
Vi sono spazi per collaborazione, ma anche per acquisizioni. Negli ultimi mesi ne abbiamo avuto diversi esempi: da Syngenta, multinazionale svizzera, uno dei leader mondiali nella produzione di sementi e prodotti chimici per l’agricoltura in via di acquisizione da parte di ChemChina, alla tedesca Kuka, leader europeo nella produzione di robot industriali, acquisita da Midea, produttore cinese di elettrodomestici, per 4,5 miliardi di euro. L’inclusione della meccanica agricola nei settori da potenziare è sicuramente un’opportunità per leimprese italiane nel breve/medio periodo. Ovviamente è anche una sfida, perché nel medio/lungo nasceranno concorrenti cinesi molto forti e presumibilmente di grandi dimensioni. Questo vale per tutti i settori elencati in precedenza ed è un ulteriore elemento di preoccupazione. Le imprese cinesi avranno, nei fatti, un appoggio dal proprio governo sconosciuto ai concorrenti di altri paesi. Già oggi la Cina investe in ricerca e sviluppo il 2% del proprio Pil, leggermente di più della media europea e ben più dell’1,3% dell’Italia. Preoccupa, nel caso dell’Italia, la scarsità di risorse dedicate alla ricerca e sviluppo. Ci si dovrebbe concentrare su questo problema piuttosto che sulle possibili distorsioni del mercato che potranno derivare da Cm2025.
Non va poi dimenticato che vi sono ancora molti settori produttivi in Cina che sono chiusi alle imprese straniere o dove queste ultime possono operare solo in joint venture con imprese locali, mentre per le imprese cinesi vi sono pochissimi limiti alle acquisizioni in Europa. Un discorso leggermente diverso vale per gli Stati Uniti dove il Cfius (Committee on Foreign Investment in the United States) – organismo governativo in cui sono rappresentate diverse agenzie – ha negli ultimi anni bloccato diverse acquisizioni cinesi per motivi di sicurezza nazionale, in alcuni casi comprensibili, in altri meno. Inoltre, un’impresa come Huawei, che ha costruito e gestisce in Europa moltissime reti di telecomunicazioni, negli Stati Uniti ha pochissimi margini di manovra perché ritenuta un’impresa troppo vicina al governo cinese.
Proprio sull’esperienza americana comincia a farsi largo anche in Europa l’idea che una qualche riflessione sulle acquisizioni cinesi vada compiuta. Qualcosa sembra muoversi. L’acquisizione di Kuka è avvenuta senza particolari problemi nonostante si trattasse di un’impresa altamente strategica sia per le tecnologie che ha sviluppato sia perché chi la controlla ha, nei fatti, accesso ai dati relativi alle produzioni che i suoi robot svolgono nel mondo, essendo questi sempre più monitorati a distanza. Oggi sta invece incontrando molte più difficoltà da parte del governo tedesco la vendita di Aixtron, un produttore di chip non particolarmente sofisticato, ad alcuni investitori cinesi. Può essere un caso ma può essere anche il segnale di un diverso orientamento politico. Nel febbraio 2017 i ministri dell’Industria italiano, francese e tedesco hanno scritto una lettera alla Commissione europea evidenziando come un numero crescente di imprese europee tecnologicamente avanzate siano state acquistate da imprese non europee e come, in molti casi, queste ultime abbiano potuto sfruttare l’aiuto dei propri governi. Bisogna evitare che questa iniziativa si trasformi in una difesa della proprietà europea in quanto tale, ma può essere utile per garantire che le nostre imprese si trovino a giocare con le stesse regole dei concorrenti stranieri, cinesi in primis.
Ma non sono solo gli investimenti cinesi a preoccupare. Cm2025 è destinata a influire direttamente anche sui rapporti commerciali. La regola secondo cui che la produzione cinese deve avere una percentuale minima (come detto elevata) di componenti prodotte localmente mette le imprese straniere in una posizione di svantaggio. O si decide di produrre in Cina o si perdono quote di mercato. Discorso analogo può essere fatto per il public procurement, mentre un altro elemento di grande preoccupazione sono i sussidi di cui le imprese cinesi potranno godere. Certo appare difficile poter sostenere che la Cina si stia comportando pienamente come un’economia di mercato, e i vantaggi per le imprese cinesi non si limitano solo al mercato interno, poiché sussidi e accesso al credito facilitato costituiscono un vantaggio competitivo anche sui mercati terzi.
La questione del riconoscimento dello status di economia di mercato alla Repubblica popolare cinese è in effetti l’elemento che collega la politica industriale (presente e futura) con la politica commerciale. Secondo Pechino, già nel dicembre 2016 – quindici anni dopo l’ingresso della Cina nell’Omc – i trattati di adesione alla stessa organizzazione avrebbero dovuto automaticamente garantire alla Cina la concessione dello status di “economia di mercato”, che renderebbe più difficile l’adozione di misure anti-dumping contro le merci cinesi. Gli Stati Uniti (esplicitamente) e l’Unione europea (implicitamente) propendono invece per una diversa interpretazione dell’accordo del 2001, ritenendo che la Cina – a causa dell’eccessivo intervento pubblico nell’economia – non possa automaticamente ritenersi un’economia di mercato. Le posizioni inconciliabili hanno spinto Pechino a denunciare Washington e Bruxelles per violazione degli obblighi assunti e ad aprire un caso presso l’Omc, sfruttandone il meccanismo di risoluzione delle controversie. Mentre Washington continua a sostenere la propria tesi (si è costituita nel procedimento, insieme a Messico e Giappone, come parte interessata), l’Ue ha adottato un approccio più sfumato (astenendosi dal costituirsi nel separato caso aperto contro gli Stati Uniti). Da un lato, ha dichiarato di volere difendere le proprie ragioni all’interno del panel che discute la controversia, ma dall’altro – come se desiderasse voltar pagina sull’argomento – ha dato vita a un complesso e articolato esercizio di ridefinizione dei regolamenti anti-dumping europei, che, una volta approvati ed entrati in vigore, saranno validi per i partner commerciali dell’Ue, indipendentemente dalla loro condizione di economia di mercato o meno. La Cina ha già fatto presente (scrivendolo addirittura in via preventiva nella denuncia all’Omc) che la proposta dei nuovi regolamenti non è soddisfacente. Questa divergenza di vedute ha impedito l’emanazione di una dichiarazione congiunta al termine del summit Ue-Cina dello scorso 2 giugno.
L’incontro non è stato un fallimento, ma si può misurare la distanza tra le due parti dalle parole della Commissaria al Commercio Cecilia Malmström nel suo discorso ufficiale: “Uno sviluppo economico, un commercio e degli investimenti che siano sani richiedono il rispetto dello Stato di diritto, con avvocati e giudici indipendenti che possano operare liberamente e in maniera indipendente. Per fare business – e per la propria vita quotidiana – la gente ha bisogno di essere in grado di accedere a un’informazione indipendente, di comunicare e di discutere. Questo è un diritto umano fondamentale che si applica anche nell’età di internet. I limiti alla libertà online colpiscono anche le vite delle persone e il clima di business”. Si tratta di dichiarazioni che vanno al di là delle discordanze sui dettagli tecnici riguardanti i metodi di calcolo dei dazi anti-dumping per toccare il tema – quello dei diritti umani e dello stato di diritto – su cui Bruxelles e Pechino negli ultimi anni, invece che ravvicinarsi, si sono allontanati.
All’uscita degli Stati Uniti dal trattato di Parigi sul cambiamento climatico – comunicata dal presidente Trump proprio lo stesso giorno del vertice di Bruxelles – Jean-Claude Juncker e Li Keqiang hanno reagito riaffermando all’unisono l’impegno all’attuazione del trattato, e presentando Ue e Cina come le vere potenze che hanno a cuore l’interesse dell’umanità. Tuttavia, non sarà sempre facile conciliare l’offerta (vera o presunta) di beni pubblici comuni – tutti ricordano il discorso di Xi Jinping a Davos lo scorso inverno – con la difesa dell’interesse nazionale. Soltanto qualche mese fa – nel tentativo di risuscitare i negoziati per la liberalizzazione commerciale in sede Omc – i colloqui sulla riduzione dei dazi per una serie di prodotti “verdi” (enviromental products) si sono conclusi con un nulla di fatto, a causa del rifiuto unanime dell’Ue (quindi di tutti i 28 Stati membri, in un raro afflato di ritrovata unità) di accogliere la richiesta last-minute di aprire completamente il mercato comunitario all’importazione delle biciclette cinesi, e del successivo rifiuto cinese della contro-proposta europea di concedere facilitazioni all’importazione della componentistica nello stesso settore.
La riduzione dei tassi di crescita in Cina e la crisi in Europa rendono comprensibile l’irrigidimento delle posizioni. Secondo un sito di professionisti del settore, ad esempio, un produttore di biciclette cinese vedeva nel 2015 il proprio nuovo impianto produttivo – inaugurato nel 2013 – operare solo al 20% della capacità. L’azienda ha quindi deciso di spostare la produzione a Taiwan, poiché – sfruttando il complicato intreccio tra catene globali del valore e accordi commerciali – le biciclette assemblate a Taiwan con componenti provenienti dalla stessa Taiwan, dalla Cambogia e dal Bangladesh possono entrare nel mercato Ue esenti da dazio, grazie all’utilizzo del Sistema generalizzato delle preferenze riconosciuto dall’Ue ai paesi in via di sviluppo. In assenza di un consolidato sviluppo del mercato interno cinese, e di un trattamento meno discriminatorio degli investimenti esteri, le tensioni tra promozione del libero commercio come bene pubblico e difesa dell’industria nazionale metteranno a dura prova la tenuta dell’ordine liberale multilaterale.
Siamo di fronte ad un evidente paradosso: la cooperazione tra Cina e paesi industrializzati nel commercio e nell’innovazione industriale appare più che mai necessaria, ma le asimmetrie di potere economico e la sfiducia dell’Occidente nel sistema politico cinese creano una serie di ostacoli difficili da superare. Non solo: in assenza di regole comuni condivise, e di quel level-playing field che le imprese europee chiedono da anni in nome della reciprocità, anche la retorica cinese sulla collaborazione mutualmente benefica (win-win) rischia di suonare vuota, nonostante le dichiarate intenzioni di una leadership che si sforza di apparire più globale del tradizionale alleato dell’Europa al di là dell’Atlantico. Oggi ci sono indubbiamente opportunità inedite di collaborazione, ma le si potrà cogliere solo se ciascuna parte farà uno sforzo serio in direzione dell’altra.
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