Come “guardare un leopardo attraverso un tubo” (guan zhong kui bao, 管中窥豹): così Qiu Jiongjiong rispose alla mia domanda su cosa significasse per lui girare documentari, interpretando il detto non come una visione limitata della realtà quanto piuttosto come l’attenzione profonda al particolare. Nato nel Sichuan nel 1977, Qiu è un pittore affermato, un regista autodidatta e curioso ma soprattutto un uomo che ha fatto dell’arte un modo di vivere, denso di vitalità e umorismo. Nella Chatterbox trilogy, un’ordinaria saga epica di poesia in bianco e nero dove i protagonisti giocano a interpretare se stessi, ha raccontato la storia della sua famiglia. La trilogia di documentari si apre con The moon palace (2006- 2007), ambientato nel ristorante di suo padre: Mr. Qiu e i suoi clienti, amici più che avventori, formano una compagnia unita dal vino e dai suoi piaceri, dalla poesia di Li Bai e dai classici dell’opera del Sichuan. L’atmosfera del documentario inebria con i racconti dei protagonisti, nel flusso di vita e morte tra ironia e nostalgia. Segue il breve documentario Ode to joy (2008), “dedicato alla felicità del vivere”: un’ode alla musica della vita in nome del nonno dell’autore. Chiude il ciclo My mother’s rhapsody (2011): la demolizione della casa di famiglia e l’avviso di rilocazione recapitato all’ottantenne nonna di Qiu conducono allo scontro con il padre sessantenne, portando alla luce contraddizioni e complessità della vita familiare nella Cina odierna. Nella ricerca di un luogo dove mantenere la propria autonomia e vitalità, l’anziana si confronta con le profonde differenze che separano la sua generazione da quella dei figli e dei nipoti, e nel far questo ricostruisce le vicende dell’intera famiglia e contestualmente di un secolo di storia cinese.
Qiu Jiongjiong è stato tra i protagonisti del Festival di Locarno 2015, partecipando alla sezione Signs of life con il suo primo fiction film, Chi 痴 – Mr. Zhang believes. La storia della Cina non è qui ripercorsa dai racconti dei familiari ma attraverso la vita di Zhang Xianchi – dall’accusa di “tendenze reazionarie” nel 1957 durante la “Campagna dei cento fiori” (presto sfociata nella “Campagna contro la destra”), passando per i lavori forzati fino alla sua riabilitazione nel 1980, in una problematizzazione del recente passato e di una questione sensibile come la libertà di parola. Le storie dei personaggi ricompongono il più ampio quadro della commedia della vita, restituito tra autenticità e surrealismo nel montaggio dal regista. L’opera filmica di Qiu, dai documentari alla nuova esperienza di fiction, è unica nella ricerca estetica ma può essere letta come una delle articolazioni contemporanee di quello che è stato definito non senza controversie il Nuovo movimento documentaristico cinese (Zhongguo xin jilupian yundong, 中国新纪录片运动).
Sulla scena per lasciare traccia
A partire dalla fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, il documentario indipendente ha voluto registrare le esperienze quotidiane della trasformazione sociale in contesto urbano e rurale, nell’intento di lasciar traccia. “Essere sulla scena” (xianchang, 现场) è stato l’imperativo che ha mosso le produzioni degli anni Novanta e dei primi anni Duemila. Gli entusiasmi degli inizi tuttavia si scontrarono con l’estetica spesso rozza dei video digitali: anche se si riconosceva la portata rivoluzionaria della possibilità di raccontare il quotidiano e la vita al di là dell’usuale ribalta mediatica, ancora non si poteva parlare di prodotti artistici fruibili. Fu con West of the tracks (tiexi qu, 铁西区) di Wang Bing (2003) che il video digitale tornò a essere al centro del dibattito.
Rimanendo un cinema di nicchia in patria, per via delle tematiche lontane dall’intrattenimento e dell’estraneità ai circuiti ufficiali, le opere non ufficiali hanno raggiunto fama internazionale partecipando ai film festival, ottenendo menzioni e premi prestigiosi e quindi coproduzioni e distribuzioni finanziate da capitali stranieri, pur avvalendosi di attori non professionisti e mostrando la Cina della gente comune. Tuttavia gli stessi registi che, proprio a causa della loro ricerca di autonomia, nel 1993 furono diffidati dal produrre film e documentari, oggi sono riconosciuti in patria dai media di diffusione popolare, a conferma della graduale legittimazione e popolarizzazione del documentario e delle produzioni indipendenti che spesso ibridano i generi. Un fenomeno attestato da un lungo approfondimento della rivista Dianying shijie, 电影世界 (Il mondo del cinema): “La Cina nell’obiettivo di 10 documentaristi: questi sono nomi che suoneranno assolutamente estranei ai media di intrattenimento, ma ciò che restituiscono sono le immagini più toccanti della Cina contemporanea. Con pazienza e dedizione, portano alla luce i luoghi più oscuri della società cinese, riscoprendo le emozioni nascoste della vita […]”.
Dagli anni Novanta a oggi il documentario e le produzioni indipendenti più in generale sono andate diversificandosi: da un lato l’interesse quasi giornalistico per le ingiustizie e le sofferenze sociali ha ricreato un sistema cinematografico periferico al cinema ufficiale ma ancora di stampo intellettualistico ed elitario (rivolto principalmente a un mercato occidentale e ai circuiti galleristici), dall’altro la popolarizzazione della pratica filmica ha ampliato le tematiche di ricerca e i panorami espressivi oltre l’accademia, affrancandosi dalla dimensione autoescludente di underground, lungo uno spettro di sfumature d’immagine contraddistinto dalla polivocalità, dall’eterogeneità e sempre più da un avvicinamento al linguaggio del cinema mainstream, in una reciproca influenza.
Oltre lo schermo
La nascita del cinema indipendente è stata una delle conseguenze dello sviluppo dell’economia di mercato, che ha aumentato la libertà professionale e di vita alla fine degli anni Ottanta del Novecento, offrendosi come possibilità e luogo di espressione e riflessione alternative alla narrativa ufficiale. Il documentario si è dapprima avvicinato al cinema vérité, con una ripetuta attenzione alla responsabilità etnografica e alla ricerca sociale, spesso giocando un astuto flavour of anthropologism con registi come informatori nativi investiti del compito di svelare la Cina nascosta e problematica all’Occidente. Il dibattito intorno allo stretto legame tra il cinema non ufficiale – in particolare il documentario – e la vita quotidiana si è concentrato sulla cosiddetta “etica documentaria” (jilupian de lunli, 纪录片的伦理). In particolare, viene messa in discussione l’etica della relazione tra filmanti e filmati, dato che la maggior parte dei documentari e di molte delle opere di fiction ritrae gli “strati bassi della società” (shehui diceng, 社会底 层), i soggetti “ai margini” (migranti, clandestini, ladruncoli, prostitute), spesso ignari protagonisti.
Solo in anni recenti è stata sollevata la problematicità dell’uso di telecamere nascoste, dell’estetizzazione della sofferenza e di una consapevole orientalizzazione delle opere a favore dello sguardo occidentale, una critica che evoca il rischio della ricaduta della svolta etnografica dell’artista dalla collaborazione all’autocelebrazione, da un decentramento dell’artista come autorità culturale a una ri-costruzione dell’altro (e in questo caso anche del sé) in una foggia neo-primitivista. È significativo che quella che viene posta nei termini di una questione etica sia oggi affrontata e sentita dai registi che diedero vita al movimento e dagli studiosi cinesi di settore, mentre le giovani generazioni che firmano e guardano prodotti video nel circuito del cinema non ufficiale ne prendono le distanze, come accaduto nel corso del simposio tenutosi al China Independent Film Festival (Ciff) 2011 di Nanchino.
Oggi il documentario e il cinema non ufficiale nel più ampio senso del termine rivendicano una propria estetica, affrancata dall’etichetta di indipendente. Il processo di cambiamento di produttori e fruitori di immagini non ufficiali, alla luce di una prospettiva che guardi ai soggetti e alla loro (auto)rappresentazione nel mezzo video, riflette cambiamenti in atto a livello delle pratiche oltre l’immagine, parallelamente a una sempre più diffusa pratica video a livello amatoriale. Si conferma l’importanza artistica e soprattutto politica di lavori come la produzione franco-cinese Behemoth (Beixi moshou, 悲兮魔兽, Zhao Liang, 2015) in concorso alla LXXII Biennale del cinema di Venezia, insieme con l’affermazione di opere che rileggono la storia e raccontano la contemporaneità attraverso il quotidiano della gente comune (putong ren, 普通人), come nei documentari di Qiu Jiongjiong, sulla scia del cinema popolare (minjian dianying, 民间电影) promosso dal regista Jia Zhangke, tra realismo post socialista e fiction.
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