Il China Policy Lab è un’iniziativa di condivisione delle agende di ricerca sulla Cina contemporanea, organizzata e ospitata dal Center for Italian Studies della Zhejiang University
I campus delle università cinesi sono frequentati da un numero ogni anno più consistente di studenti stranieri. Allo stesso tempo le università americane, europee, australiane, giapponesi e coreane accolgono comunità in continua espansione di studenti provenienti dalla Repubblica popolare cinese (Rpc). I progetti di scambio e di cooperazione si moltiplicano, così come le conseguenze e le sfaccettature di questo processo. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale della Rpc, nel 2013 la Cina è diventata il primo paese per numero di studenti universitari all’estero. A questo imponente fenomeno è stato dedicato il sesto appuntamento del China Policy Lab, con un ospite d’eccezione: Gu Jianxin, docente di storia presso l’Institute of African Studies e l’Institute of International and Comparative Education della Zhejiang Normal University, membro della Chinese Society of African Historical Studies e attualmente vice direttore del Dipartimento degli Affari esteri della Provincia dello Zhejiang.
Per mettere a fuoco lo sfondo su cui l’internazionalizzazione universitaria è stata concepita in Cina, è necessario partire dal cambiamento del discorso pubblico, catalizzatore di tali istanze di cambiamento. Gu Jianxin ha individuato tre diverse fasi, identificabili nel lungo decennio di riforme che va dagli ultimi anni Settanta alla fine degli Ottanta, negli anni Novanta e negli anni Duemila fino a oggi. Prima di queste tre fasi, dalla fondazione della Rpc fino all’inizio delle riforme economiche, ragioni diplomatiche e di politica estera erano l’unica ed esclusiva ratio dietro ai pochi scambi internazionali (280 mila in totale nel periodo 1949-1978, contro i quasi 3 milioni dal 1978 a oggi). In seguito, chiusa la buia parentesi della Rivoluzione culturale e parallelamente alle politiche di riforma e apertura del sistema economico promosse da Deng Xiaoping (già studente in Francia, insieme a Zhou Enlai, negli anni Venti), le università accelerarono la loro apertura, attuando veri e propri progetti di scambio internazionale. L’obiettivo era colmare l’enorme gap di competenze, soprattutto nelle scienze naturali e tecnologiche, che le distanziava dalle università americane ed europee, con effetti evidenti sulle capacità produttive nazionali.
Negli anni Novanta si aprì una nuova fase che, nell’arco di un decennio, portò il numero di studenti cinesi all’estero a raggiungere la simbolica soglia delle 200 mila iscrizioni. Secondo Gu Jianxin, l’obiettivo di questa nuova accelerazione non era più soltanto quello di acquisire competenze da impiegare nei processi produttivi, ma anche quello di modernizzare i dipartimenti e l’offerta formativa, adeguandoli agli standard occidentali.
La fase cominciata negli anni Duemila e attualmente in corso si contraddistingue invece per la sistematicità e le dimensioni del fenomeno. L’obiettivo è quello d’instaurare veri e propri rapporti di cooperazione con le università del resto del mondo, creare curricula di respiro internazionale, per portare la Cina a essere a tutti gli effetti un serio interlocutore della comunità accademica globale. In quest’ottica si collocano anche gli adeguamenti agli standard educativi incoraggiati da Unesco, Ocse e Omc.
Nel 2012 gli studenti cinesi all’estero avevano raggiunto le 400 mila unità, doppiando il numero raggiunto alla fine degli anni Novanta. Inoltre nel 2010 il Ministero dell’istruzione ha formulato un Piano nazionale a medio e lungo termine per la riforma e lo sviluppo dell’istruzione (2010-2020), identificando tra le priorità nazionali l’esigenza di continuare a sostenere il processo d’internazionalizzazione universitaria. Al piano nazionale sono stati affiancati, negli ultimi anni, una serie di accordi bilaterali con i maggiori destinatari del flusso di studenti cinesi oltremare (Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia ecc.). Accanto alle luci, non mancano una serie di aspetti controversi: un esempio riguarda il ruolo degli istituti Confucio e la loro influenza nei paesi ospitanti, oggetto di critiche particolarmente acute e diffuse negli ultimi mesi.
A oggi vi sono 443 istituti Confucio nel mondo: gli istituti sono di frequente integrati nelle università straniere come erogatori di corsi introduttivi di lingua e cultura cinese, ma non di rado la loro apertura è osteggiata o addirittura respinta, specialmente nei campus del Nord America. Le voci critiche additano i massicci finanziamenti del governo cinese dietro la diffusione degli istituti, e da ciò i dubbi in merito alla programmazione didattica, sovente denunciata come propagandistica.
Altra tematica delicata sono le iniziative di cooperazione sinoafricana, che si contraddistinguono per la particolare enfasi data all’assegnazione di borse di studio e alle politiche di attrazione degli studenti africani in Cina, dinamica che molti studiosi di soft power cinese osservano con particolare interesse. Infine, sempre più pressante è la necessità di approfondire le dinamiche legate ai returnees, gli studenti cinesi che tornano in patria alla ricerca di un lavoro dopo il completamento del percorso accademico all’estero – in cinese gli haigui (海龟), “tartarughe di mare” –.
Il contributo delle “tartarughe di mare” al sistema economico e sociale della Rpc è di rilevanza assoluta, essendo uno dei principali facilitatori del trasferimento di tecnologie e competenze dai paesi avanzati alla Cina, e mettendo in moto, inoltre, un fenomeno di reverse brain drain, ovvero un’inversione della consueta direzione in cui si manifesta la fuga dei cervelli.
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