[CHINA POLICY LAB] Luci e ombre del soft power cinese

Lo scorso giovedì 28 novembre si è tenuto il primo seminario del China Policy Lab (Cpl), un’iniziativa di condivisione delle agende di ricerca sulle politiche di sviluppo e proiezione internazionale della Cina contemporanea, organizzata e ospitata dal Center for Italian Studies (Cis) della Zhejiang University. Il Centro, aperto ufficialmente il 6 aprile 2013, costituisce il punto più avanzato nel partenariato tra il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino e la Faculty of Arts and Humanities della Zhejiang University di Hangzhou. Nell’ambito delle mission del Centro – ricerca di frontiera, didattica avanzata e smart networking – il China Policy Lab prevede una serie d’incontri a cadenza mensile con docenti, ricercatori e professionisti, soprattutto cinesi, impegnati nello studio e nell’approfondimento delle dinamiche che caratterizzano la Repubblica popolare cinese oggi, secondo approcci disciplinari e competenze molteplici.

Ospite inaugurale del Cpl è stato Zhang Tiejun, professore aggiunto di relazioni internazionali presso il Council on International Education Exchanges (sede di Shanghai) e direttore del Sinovision Center for Cultural Exchange (Shanghai). Nella sua lezione, Zhang – impegnato nella redazione di un nuovo testo internazionale sul tema – ha riesaminato i punti fondamentali dell’attuale dibattito accademico sulla declinazione cinese del soft power, concetto coniato da Joseph Nye negli anni novanta per meglio decifrare e articolare le diverse sfaccettature dell’egemonia statunitense.

Citando Sun Tzu, il filosofo de L’arte della guerra la cui popolarità è massima in Cina (“sconfiggere il nemico senza combattere”: bu zhan er qu ren zhi bing, 不战而屈人之兵), Zhang, in linea con Nye, presenta il soft power come l’abilità d’influenzare, attrarre e cooptare gli attori del sistema internazionale, senza ricorrere all’uso della forza o ad altri strumenti coercitivi. Tuttavia, il consensus accademico attuale tende a soffermarsi più sui deficit che sulle risorse che Pechino ha accumulato nel promuovere e consolidare la propria forza attrattiva. Le opinioni più comuni vedono il soft power cinese ancora lontano dalla grandezza di quello americano, soprattutto alla luce di temi quali il rispetto dei diritti umani e la scarsa influenza sui trend culturali globali.

Ciò nonostante, sostiene Zhang, gli obiettivi di Pechino e Washington nello scenario internazionale sono strutturalmente diversi e un’interpretazione puramente competitiva tra il soft power delle due potenze non è pienamente soddisfacente. Per gli Stati Uniti, obiettivi primari sono conquistare culturalmente le altre popolazioni e promuovere una visione liberale e democratica come garanzia della sicurezza globale sotto la propria leadership. Per la Cina, almeno nella retorica, l’interesse primario è promuovere una cooperazione tra governi per assicurare mutui benefici. Non vi è interesse nel diffondere la “cinesità” altrove, nel conquistare culturalmente altre società o nel formare una coalizione di paesi autoritari.

È in ambito regionale, specialmente nei confronti del Sud-est asiatico, che il soft power di Pechino ha ottenuto i maggiori successi. In particolare è necessario ricordare la promessa (mantenuta) di non svalutare il renminbi durante la crisi finanziaria asiatica (1997), la creazione della China-Asean Free Trade Area (1999), il “Codice di condotta nel Mar cinese meridionale” (2002), gli aiuti post-tsunami (2004, mentre l’attenzione di Washington era rivolta altrove) e la partecipazione ai fora multilaterali regionali (ASEAN +1, +3, +6). La maggior parte degli stati del Sud-est asiatico, verso cui la Cina registra deficit commerciali, vede l’ascesa di Pechino come un’opportunità, soprattutto economica. Tutto ciò serve gli obiettivi cinesi di limitare l’influenza di Tokyo e di Washington nella regione, mantenere Taiwan formalmente fuori dalle dinamiche multilaterali regionali e rassicurare i paesi vicini rispetto alla bontà della propria ascesa.

L’Africa e l’America latina sono altre due regioni in cui il soft power di Pechino ha guadagnato terreno in misura sostanziale. In Africa, la presenza cinese è particolarmente favorita dal non dover scontare un passato coloniale e dal presentarsi ancora come un paese in via di sviluppo, solidale con i paesi più poveri. Gli interessi cinesi si concentrano soprattutto nel settore estrattivo e nello sviluppo di infrastrutture come strade, centrali idroelettriche, ferrovie, aeroporti e ospedali. L’aiuto finanziario di Pechino ha raggiunto dimensioni ragguardevoli, e l’unico vero vincolo posto ai governi africani è l’adesione alla “one-China policy” (ovvero il non riconoscimento di Taiwan come entità statuale separata). In America latina, la Cina è uno dei primi partner commerciali, specialmente nel settore delle commodities alimentari; tuttavia, il suo peso è bilanciato dall’influenza statunitense nel continente.

In tutti questi rapporti, gli elementi-cardine che guidano la posizione di Pechino sono la coesistenza pacifica, il rispetto per la reciproca integrità territoriale e soprattutto la mutua non-interferenza negli affari interni. Il modello di promozione del soft power messo qui in luce presenta però una doppia faccia. Se da una parte la noninterferenza suscita le simpatie e l’approvazione di quei paesi poveri e in via di sviluppo i cui governi sono autoritari e repressivi, dall’altra apre una profonda linea di rottura con l’Europa e gli Stati Uniti, dove, almeno formalmente, libertà politica e diritti umani sono tra le prime discriminanti per intrattenere rapporti diplomatici distesi.

Argomento trascurato nell’analisi di Zhang, ed emerso nel dibattito conclusivo, è la complessa e articolata questione ambientale. Se da una parte la posizione cinese preoccupa la comunità internazionale ed erode il soft power di Pechino in Occidente, dall’altra produce consensi e adesioni da parte di molti paesi in via di sviluppo. Nell’ambito dei negoziati sul clima, infatti, la Cina ha assunto il ruolo di guida e portavoce di quei paesi che negli ultimi anni stanno sperimentando una robusta crescita economica, invocando il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate” e reclamando aiuti tecnologici e finanziari dai paesi occidentali. Discorso diverso vale per i paesi confinanti, che subiscono direttamente l’insostenibilità della crescita cinese e del suo potere estrattivo. In ogni caso, a causa dell’enorme impatto regionale e globale, la questione ambientale cinese è un tema che d’ora in avanti condizionerà inesorabilmente il rapporto di Pechino con il resto del mondo.

Sembra infine legittimo interrogarsi riguardo alla reale possibilità che la Cina, acquistando progressivamente fiducia nel proprio ruolo di grande potenza e continuando un processo di raffinato apprendimento delle regole del gioco, possa rivedere la propria “ascesa pacifica” in una direzione sempre meno cooperativa.

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