La crisi in atto tra Cina e Giappone in merito alla sovranità sulle isole Diaoyu/ Senkaku, di cui Peng Jingchao ha scritto sul numero di OrizzonteCina dello scorso settembre (pag.4), non accenna a diminuire d’intensità, anzi si arricchisce di nuovi episodi. Il ministro degli esteri cinese, Yang Jiechi, alzando i toni in occasione della recente Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, ha dichiarato che le Diaoyu sono “territorio sacro”. A parte il continuo incrociare al largo di queste isole di naviglio di vario tipo battente bandiera cinese, giapponese o taiwanese (con occasionali avvertimenti a base di cannonate), la reazione dell’opinione pubblica e del governo in Cina ha ormai colpito direttamente gli interessi economici di Tokyo. Alla domanda se la Cina e il Giappone possano entrare in guerra per il possesso di poche, piccole isole, molti commentatori hanno risposto con le parole della tartaruga sulla copertina del settimanale britannico The Economist: “Tristemente, sì”. Perché la controversia attorno a questi scogli (e alla “Zona economica esclusiva” che li circonda) è così preoccupante? Le isole Senkaku/Diaoyu sono diventate il simbolo delle tensioni e delle incomprensioni sino-giapponesi, che alla lunga potrebbero causare un conflitto su larga scala (anche Taiwan, peraltro, avanza rivendicazioni sulle isole).
Le ricadute economiche della controversia sono già significative. Anche se non si è registrato un boicottaggio su larga scala dei prodotti giapponesi, si prevede un crollo del 20-30% delle vendite in Cina di autovetture del Sol Levante. Per ovviare al crescente accumularsi di invenduto, grandi case costruttrici come Toyota e Nissan hanno sospeso la produzione nelle loro fabbriche cinesi, approfittando anche della festa nazionale del 1° ottobre. Gli esportatori giapponesi registrano inoltre anomali ritardi burocratici nel disbrigo delle procedure di sdoganamento.
Come ha osservato Hu Shuli, in un articolo pubblicato su una rivista del gruppo indipendente Caixin e riprodotto nel quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, la relazione economica sino-giapponese è talmente importante che dovrebbe essere nell’interesse nazionale cinese tenere separata l’economia dalla politica, ed evitare che una minoranza furiosamente anti-nipponica tenga in ostaggio la politica estera del paese. Nel 2011 il commercio con il Giappone ha rappresentato l’8,5% del commercio totale cinese. La Rpc costituisce il primo mercato per le esportazioni giapponesi, e il primo paese fornitore. Nei primi mesi del 2012, gli investimenti giapponesi in Cina sono cresciuti del 16%. Perciò Hu Shuli ritiene controproducente “premere il grilletto economico” contro il Giappone: l’assemblaggio dei prodotti per cui la Cina è divenuta la fabbrica del mondo dipende troppo dalle forniture o dagli investimenti giapponesi. Assecondando questi istinti nazionalistici, si rischia di mettere in ginocchio gran parte dell’industria cinese, con evidenti risvolti occupazionali e sociali. Inoltre, significherebbe mandare il segnale sbagliato agli investitori internazionali: Tomohiko Taniguchi, già portavoce del Ministero degli Esteri giapponese, ora docente alla Keio University, ha ammonito che molti businessmen giapponesi potrebbero accelerare lo spostamento degli investimenti (in parte già in atto) verso altri paesi nella regione, come la Birmania. Hu Shuli invece è ottimista, anche se ricorda come la cooperazione economica non necessariamente crei fiducia (l’alto grado di interdipendenza tra Germania e Gran Bretagna nella seconda parte del XIX secolo non impedì, come sappiamo, lo scoppio in Europa della Prima guerra mondiale).
aspetto messo in luce dalla crisi, che si è manifestato in almeno due occasioni: la sospensione delle celebrazioni per il quarantennale della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Pechino e Tokyo, e il ritiro dalle librerie di testi di autori giapponesi (e di libri sul Giappone). Le manifestazioni ufficiali per celebrare lo stabilimento delle relazioni diplomatiche si dovevano tenere proprio in questo mese di ottobre, ma evidentemente quarant’anni di rapporti – sovente tesi a motivo di una memoria storica riguardo al periodo di occupazione giapponese negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso – non sono bastati a costruire un clima di fiducia che permetta alle diplomazie di affrontare il nodo delle Senkaku/Diayou senza sbattersi la porta in faccia. La retorica dell’amicizia tra i popoli non sempre è esercizio di efficace diplomazia. Quanto al ritiro delle librerie di testi giapponesi, autori come il candidato al premio Nobel per la letteratura Haruki Murakami, citato nello stesso articolo del Guardian, hanno evidenziato quanto ormai tra Cina e Giappone si sia raggiunta “un’isteria” simile a quella delle ubriacature con alcoolici di bassa qualità, che “ti lasciano solo con un tremendo mal di testa il giorno dopo”. Il fatto che il Nobel 2012 sia infine stato attribuito a un autore cinese – Mo Yan, nom de plum di Guan Moye – rischia di essere ulteriormente metabolizzato come munizione per l’arsenale dei nazionalisti cinesi, in certa misura coltivati da una leadership bisognosa di questo genere di fiancheggiamento.
A sua volta il governo di Tokyo, ha probabilmente sottovalutato la reazione cinese all’acquisto delle Senkaku/Diaoyu da parte dello Stato giapponese. La fondazione del nuovo Partito di restaurazione del Giappone, guidato dal nazionalista sindaco di Osaka Toru Hashimoto, e il ritorno dell’ex primo ministro Shinzo Abe (negazionista sulle comfort women) alla guida del Partito liberaldemocratico gettano sale sulle ferite (mai rimarginate in Asia) della storia del XX secolo. Quel che appare chiaro è che, in questo clima di sfiducia reciproca e con entrambi i paesi impegnati in una difficile transizione politica, la situazione può sfuggire di mano in qualsiasi momento: come in un celebre titolo di un romanzo di Wang Shuo, la Cina e il Giappone stanno “scherzando col fuoco”.
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