Nell’ultimo biennio i media cinesi hanno scritto molto sul “revival maoista” in Cina, soprattutto sulle varie campagne politiche promosse dalle autorità di Chongqing, in particolare dall’ex-segretario del Partito comunista cinese (Pcc) di questa municipalità autonoma, Bo Xilai. Dai “messaggi rossi” inviati ai cellulari della popolazione di Chongqing nel 2009 per festeggiare il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica alla campagna sulle “canzoni rosse” del 2011, la figura di Mao, con tutto l’immaginario che vi ruota attorno, è tornata con prepotenza sulla scena pubblica cinese, scatenando una serie di speculazioni sul futuro politico del Paese una volta che la quinta generazione di leader sarà salita al potere. Ma siamo sicuri che si tratti di un ritorno? O forse l’ombra di Mao non ha mai abbandonato la scena cinese?
Negli ultimi anni si è assistito a un diffuso fenomeno di riappropriazione popolare dell’immaginario legato al “Grande Timoniere”. Vicende diverse ma egualmente rivelatrici: dal “turismo rosso” agli attori specializzati nell’interpretare il ruolo di Mao, da un villaggio dove ancora si vive come negli anni Sessanta alle avventure di un fotografo che da quindici anni gira il paese alla ricerca delle ultime statue di Mao, dall’eredità storica del “grande balzo in avanti” in un ex-campo di lavoro nel Gansu alla manipolazione del discorso maoista nelle proteste operaie. Di fatto, l’immagine di Mao, ancora prima che tra le autorità, rimane ben presente tra la gente comune, non solo tra le persone più anziane che hanno avuto modo di sperimentare in prima persona la vita nella “vecchia società” – un termine che sempre più spesso viene utilizzato in riferimento al periodo precedente il 1978, non più il 1949 – ma anche tra i giovani delle nuove generazioni.
Eppure, a guardare bene, il revival maoista non è certo una novità di questi ultimi anni. Come Geremie Barmé scriveva nel lontano 1996 nell’introduzione al volume “Shades of Mao”, il primo recupero dell’immagine di Mao Zedong ebbe luogo già alla fine degli anni Ottanta, dopo un decennio di semi-oblio in cui il culto della personalità ereditato dai decenni precedenti era stato sistematicamente smantellato. Il rinnovato interesse della popolazione cinese nei confronti della figura del vecchio presidente si era tradotto in una vera e propria “ricerca di Mao Zedong” (xunzhao Mao Zedong), un fenomeno che era stato ribattezzato dai media ufficiali “febbre maoista” (Maore). E di una vera e propria febbre si trattò, se si pensa al fatto che a fronte delle appena 370.000 copie del ritratto di Mao stampate nel 1989, nel 1990 il numero era salito a 22,95 milioni di copie, di cui 19,93 poi vendute.
Nelle pagine di Barmé si riconoscono chiaramente le radici di fenomeni che hanno poi avuto seguito negli anni successivi. Non si tratta solamente di rielaborazioni dell’immagine di Mao da parte di élite artistiche e culturali, quanto piuttosto di un processo di progressiva penetrazione nell’immaginario popolare. Come, ad esempio, quando tra gli autisti cinesi si affermò per la prima volta l’abitudine di appendere un “santino” di Mao allo specchietto retrovisore delle proprie automobili in seguito al diffondersi di una leggenda metropolitana che voleva che a Shenzhen una persona coinvolta in un gravissimo incidente stradale fosse sopravvissuta grazie ad un immagine di Mao sul cruscotto. O, ancora, con la riscoperta delle “canzoni rosse” nei primi anni Novanta, quando una serie di inni fondanti del partito – da “Il socialismo è grande” all’“Internazionale” – furono rielaborati in chiave rock. Si parla diffusamente di canzoni rosse oggi, ma non sono in molti coloro che ricordano come nell’inverno del 1991-92 un album pop intitolato “Il sole rosso – Odi a Mao Zedong cantate in un nuovo ritmo” abbia ottenuto un successo strepitoso, vendendo quattordici milioni di copie nel giro di pochi mesi.
Quali furono le ragioni alla base di questo ritorno di fiamma per il vecchio presidente? L’interpretazione più semplice ed immediata vuole che dopo gli eventi del 4 giugno 1989 le autorità fossero alla ricerca di una nuova legittimazione. Il recupero dell’immagine di Mao sarebbe stato, quindi, una strategia orchestrata dall’alto. Eppure, questa spiegazione non appare esauriente. Come scrive Barmé, è discutibile attribuire questo fenomeno ad una strategia politica elaborata a tavolino dalle autorità oppure al consumismo derivante dal “socialismo di mercato”. La chiave di lettura più appropriata va individuata nell’abitudine umana di aggrapparsi a pratiche e discorsi familiari in un periodo di crisi. In un momento di grandi incertezze economiche, sociali e politiche qual era la Cina dei tardi anni Ottanta, vecchi simboli culturali, culti, pratiche e credi sarebbero stati spontaneamente riscoperti dalla popolazione per dare coesione e significato ad un mondo sempre più minaccioso.
Come interpretare invece la “febbre maoista” di questi ultimi anni? La sensazione è che in Cina oggi siamo di fronte a due fenomeni molto differenti. Da un lato, vi è la manipolazione politica della figura di Mao da parte delle autorità. Questo avviene non solo attraverso campagne “rosse” come quelle di Chongqing, ma anche attraverso messaggi velati come il recente richiamo del presidente Hu Jintao alla necessità di far sì che “cento fiori sboccino e cento scuole di pensiero dibattano”, pronunciato di fronte all’ultimo congresso nazionale dell’Associazione degli scrittori cinesi. Dall’altro invece vi è una riappropriazione popolare dell’immagine del vecchio presidente, un discorso che, fenomeni di costume a parte, spesso si articola in tutt’altri termini rispetto all’interpretazione ufficiale. Per citare le parole conclusive del documentario “Morning Sun” (2003, prodotto e diretto da Carma Hinton, Geremie Barmé, Richard Gordon), che offre uno straordinario sguardo sulla Rivoluzione culturale: “Per molti la Rivoluzione è morta. Le promesse utopistiche ora si presentano sotto diverse spoglie, ma lo spettro di Mao non è mai lontano. Quando le persone si sentono represse e impotenti, quando il sistema non permette forme legittime di protesta o difesa, Mao emerge come una possibilità, un campione del diritto a ribellarsi.”
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