Stando a notizie apparse sui media locali (sito in cinese), lo scorso 29 marzo oltre cinquecento lavoratori dello stabilimento di Longgang (Shenzhen) della giapponese Ohms Electronics, una sussidiaria della Panasonic, sarebbero scesi in sciopero avanzando una serie di richieste riguardanti servizi sociali e salari. Singolarmente, nel documento che elencava le rivendicazioni, oltre alle varie questioni economiche i lavoratori lamentavano anche la mancanza di rappresentatività del sindacato aziendale, un problema che sarebbe emerso con forza durante le trattative per gli aumenti salariali. Anche se non si conosce l’esito della vicenda, stando a testimonianze raccolte dai giornalisti del “Nanfang Dushibao” (sito in cinese), l’azienda avrebbe alla fine annunciato che verrà convocato al più presto un congresso dei lavoratori per scegliere “un sindacato che rappresenti veramente gli interessi dei dipendenti”.
Scioperi come questo sembrerebbero confermare il “risveglio” dei lavoratori cinesi, di cui si parla da un paio d’anni, sulla scia dello sciopero dei lavoratori della Honda di Nanhai della primavera del 2010. Per decenni i lavoratori cinesi sono stati descritti come vittime passive del capitale globale. Dal 2010 giornalisti, accademici ed attivisti hanno cominciato a descrivere i lavoratori migranti cinesi come portatori di una nuova coscienza dei propri diritti: le loro proteste non mirano più soltanto ad ottenere benefici in linea con gli standard minimi stabiliti dalla legislazione in vigore, ma anche a strappare altre concessioni che vanno oltre quanto previsto dalla legge.
Un perno di questa nuova retorica sono i cosiddetti “lavoratori migranti di nuova generazione” (xinshengdai nongmingong), un termine relativamente nuovo con cui in genere si designano i migranti nati negli anni ‘80 e ‘90. Stando a quanto riportato in un’indagine (sito in cinese) del sindacato ufficiale ampiamente ripresa dai media cinesi, a differenza della generazione precedente, questi giovani non chiederebbero semplicemente il rispetto degli standard lavorativi minimi, quanto piuttosto un lavoro dignitoso e delle opportunità di sviluppo professionale e avrebbero una maggiore consapevolezza dei propri diritti, oltre che un atteggiamento più attivo nel perseguirli.
Eppure, sorvolando su quella che è una palese esagerazione della frattura generazionale tra migranti nati prima e dopo gli anni ‘80, scioperi come quello della Honda o della Ohms, con le loro rivendicazioni in campo sindacale, rimangono un’eccezione nel panorama industriale cinese. La stessa idea che negli ultimi anni la Cina sia stata soggetta a “ondate di scioperi” dovuti a una crescente coscienza dei lavoratori, per quanto affascinante, è controversa. Sembra, infatti, che esista una generale propensione nei media, tra gli attivisti e in parte del mondo accademico a trasformare fatti particolari e ben circostanziati, come ad esempio lo sciopero della Honda, in tendenze generali, come se si trattasse di punti di svolta nell’evoluzione della società cinese.
Che grazie ad un’incessante opera di propaganda da parte sia dello Stato che della società civile la consapevolezza del diritto si stia diffondendo tra i lavoratori cinesi è innegabile, ma da qui all’idea del “risveglio” dei lavoratori migranti cinesi il passo è lungo. Il punto è che i dati in merito scarseggiano e, in alcuni casi, si dimostrano notevolmente ambigui.
Per citare un esempio, stando ad uno studio di Linda Wong pubblicato di recente sul “China Quarterly”, circa il 70% dei 2.617 lavoratori intervistati dall’autrice sarebbe stato a conoscenza della legislazione sul lavoro, mentre il 55% avrebbe affermato lo stesso per quanto riguarda la Costituzione. Il problema in questo caso è cosa si intende con l’“essere a conoscenza”: significa essere al corrente dell’esistenza di una legislazione sul lavoro oppure conoscerne i meccanismi e i contenuti? Non è raro intervistare lavoratori i quali sostengono di essere a conoscenza della legge, ma che poi, si scopre, confondono normative nazionali con i regolamenti interni dell’azienda.
Secondo lo stesso studio, di fronte ad una violazione dei loro diritti, nel 34,8% dei casi i lavoratori migranti sceglierebbero di cercare assistenza legale, contro un 34,8% che cercherebbe aiuto da parenti, amici o compaesani, un 19,1% che ricorrerebbe alla mediazione e all’arbitrato delle autorità, a un 8% che tollererebbe la situazione e a un 4,3% che chiederebbe aiuto al sindacato ufficiale. Se la sfiducia nei confronti del sindacato non è una grande novità, ci sono diverse ragioni per prendere questi dati con cautela. Innanzitutto, nella lista delle risposte mancano almeno due opzioni fondamentali: in primo luogo, la possibilità di “votare con i piedi” (yijiao toupiao), cioè dare le dimissioni e cercare un nuovo posto di lavoro, sfruttando l’attuale “penuria di migranti”; in secondo luogo, la possibilità di rivolgersi ai manager dell’azienda per una mediazione. Poi, anche in questo caso esiste un problema terminologico: che cosa si intende con “cercare assistenza legale”? Si tratta del ricorso ad attori statali, come gli appositi centri di assistenza legale, oppure ad attori privati come avvocati professionisti, o ancora ad attori informali, come i cosiddetti “avvocati scalzi”?
Domande come queste, lungi dall’essere fini a se stesse, sono fondamentali per comprendere il rapporto tra i lavoratori migranti, la legge e lo Stato e, di conseguenza, per valutare quanto siano davvero coscienti dei loro diritti e pronti a farli valere. Al di là di ogni retorica e di ogni pio desiderio.
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