Zhang Lin è un lavoratore migrante come tanti altri. Dopo aver seguito un corso di addestramento professionale, nel febbraio del 2009 è stato assunto da un’azienda privata a Shenzhen. Gli avevano promesso un salario mensile di base di 1.400 yuan (172€) per una giornata lavorativa di otto ore, cui si aggiungevano altre tre ore di straordinari, più un’ora “rubata” durante la pausa pranzo. In aprile, però, con la busta paga arriva una sorpresa: lo stipendio è di appena 2.000 yuan, molto meno delle attese. La prima reazione di Zhang Lin sarebbe stata quella di andarsene immediatamente, ma se si abbandona il posto di lavoro senza autorizzazione si rischia di perdere il salario degli ultimi due mesi. E così Zhang Lin ha dovuto piegare la testa.
In novembre la seconda sorpresa: quando, con nove mesi di ritardo, l’azienda gli consegna una copia del contratto di lavoro, il salario di base risulta di appena 900 yuan. In calce alla pagina una firma falsa. Questa volta Zhang Lin, invece di abbandonare il posto di lavoro seduta stante e rinunciare ai propri diritti, come tanti altri, ha deciso di rimanere e lottare. Ha iniziato a documentarsi sulla legislazione sul lavoro e per sette mesi, fino al giugno del 2010, è rimasto nell’azienda per raccogliere prove, arrivando persino a comprare un cellulare con macchina fotografica incorporata per documentare ogni giorno la timbratura del cartellino. Dopo aver raccolto cento pagine di foto e documenti, ha rassegnato le dimissioni.
Nell’ottobre del 2010, il comitato arbitrale locale ha rifiutato la sua istanza a causa dell’incompletezza della documentazione. Non solo Zhang Lin non aveva prodotto una costosissima perizia calligrafica giudiziaria per attestare che la firma sul contratto fosse falsa, ma aveva anche deciso di non consegnare tutti i documenti relativi alle presenze sul lavoro – le foto scattate al cellulare – per paura di “giocarsi tutte le carte in una sola volta”. Solamente nel novembre del 2011 Zhang Lin ha fatto ricorso al tribunale popolare, presentando la perizia calligrafica e la documentazione completa, e così ha finalmente ottenuto giustizia. Dal momento in cui aveva scoperto che il suo contratto era stato falsificato erano passati due anni.
Ciò che distingue la vicenda di Zhang Lin da quella di innumerevoli altri migranti è solamente il fatto che egli ha trovato un giornalista disposto a raccogliere la sua testimonianza. In genere, in Cina – come altrove – storie di salari non pagati, orari di lavoro eccessivi, rischi per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro passano sotto silenzio, tanto appaiono banali. Non sempre, però. Ogni anno nelle settimane che precedono il capodanno lunare le vicende dei lavoratori migranti tornano immancabilmente ad occupare le prime pagine dei giornali cinesi. Se da un lato a far discutere sono le difficoltà che essi incontrano a trovare un mezzo di trasporto per tornare alle proprie famiglie – un problema condiviso da centinaia di milioni di persone di tutte le estrazioni sociali – dall’altro c’è proprio la questione del mancato pagamento dei salari. Per dare un’idea della portata del fenomeno, basti pensare che nell’anno appena concluso le autorità avrebbero aiutato 1.292.000 migranti a recuperare quasi tre miliardi di yuan di arretrati. Peraltro, dallo scorso febbraio non pagare i salari è diventato un reato punibile con il carcere fino a sette anni.
Dal punto di vista delle autorità cinesi, ossessionate dal “mantenimento della stabilità” (weiwen), il problema dei salari non pagati diventa particolarmente allarmante a ridosso delle festività, quando i lavoratori necessitano di soldi per tornare dalle proprie famiglie e comprare i doni di rito. Ecco allora che in questo periodo dell’anno ministeri, organi di polizia e ispettorati del lavoro lanciano operazioni dimostrative, in genere ampliamente pubblicizzate dai media, in cui alcuni datori di lavoro vengono messi alla gogna. Di recente, a Hainan un immobiliarista è stato costretto a versare oltre tredici milioni di yuan di salari non pagati a circa 280 migranti e a Shenzhen nove imprenditori sono stati arrestati per non aver pagato oltre otto milioni di salari.
Con queste operazioni “mirate” le autorità vogliono rafforzare l’immagine paternalistica dello Stato centrale. In un video recentemente diffuso sul web cinese, diversi migranti, intervistati nella sala d’attesa di una stazione in procinto di rientrare a casa, si sono sentiti in dovere di ringraziare i propri datori di lavoro e lo Stato per aver ricevuto le proprie paghe in tempo.
Ma, in attesa che lo Stato manifesti le proprie “doti taumaturgiche”, cosa può fare un comune lavoratore migrante se non gli pagano il salario? Dai canali ufficiali è difficile ottenere giustizia e così il migrante non ha spesso altra scelta che escogitare strategie alternative di rivendicazione o rinunciare.
Negli ultimi mesi i media cinesi hanno raccontato vicende di lavoratori che hanno deciso di ricorrere a misure estreme per rivendicare i propri diritti, dall’arrampicarsi su gru e ponti allo spogliarsi in pubblico, dal farsi seppellire vivi al mendicare. E non mancano neppure le vicende di lavoratori che hanno cercato in tutti i modi di ingraziarsi i “padroni”, nella speranza di riscuotere i salari arretrati. Nei pressi di Xi’an, ad esempio, decine di dipendenti di un mercato ortofrutticolo hanno aspettato per quasi cinque ore il datore di lavoro all’aeroporto, con tanto di mazzi di fiori e uno striscione di accoglienza.
Di fatto, non sono poi tanti i lavoratori migranti che hanno la perseveranza di Zhang Lin. Nonostante negli ultimi anni ci siano stati non pochi miglioramenti nelle norme sulla risoluzione delle dispute sul lavoro, ancora oggi sono moltissimi i lavoratori che decidono di abdicare ai propri diritti o di lanciarsi in forme di protesta più o meno estreme. Non ci si deve dunque fare ingannare dalle cifre roboanti degli annuari ufficiali, che indicano in oltre 634.000 i casi di arbitrati sul lavoro risolti nel solo 2010: di fatto, non abbiamo la minima idea di quale sia il numero reale delle dispute che non sono formalmente oggetto di un’azione legale perché i lavoratori hanno rinunciato a far sentire la propria voce.
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