In Italia, si sa, l’immigrazione straniera non gode di buona stampa. Da più di trent’anni, se ne parla infatti in termini di “emergenza” e di “problema”, inevitabilmente affrontato all’insegna dell’allarme sociale, della commiserazione mista a indignazione, quando non della paura vera e propria. Ormai è una narrazione consolidata, che diversi esperti di media e di immigrazione hanno decostruito da tempo, evidenziandone gli elementi costitutivi e le ricadute sul piano culturale, sociale e politico. La rappresentazione mediatica dell’immigrazione cinese non fa eccezione, anzi: appare connotata da caratteristiche distintive, che differenziano l’immagine sociale di questa minoranza dalle altre in vari modi. Si pensi ad esempio alla facilità con cui si ricorre, nel nostro contesto mediatico, all’espressione “occhi a mandorla” come attributo atto a qualificare ogni genere di azione o situazione in qualche modo riconducibile a persone cinesi o in generale est-asiatiche. Stampa, tv e web impiegano quest’espressione per riferirsi all’acquisizione di squadre di calcio di serie A da parte di finanzieri “dagli occhi a mandorla”, oppure per raccontare l’aumento dei turisti “dagli occhi a mandorla”, dello sblocco di finanziamenti “dagli occhi a mandorla” da parte del governo cinese per avviare partnership più robuste con l’Ue, ecc. Immaginiamo come ci suonerebbe un analogo riferimento a dettagli anatomici caratteristici di uno specifico fenotipo umano in notizie che coinvolgono soggetti africani, per esempio: “L’Unione africana interviene a sostegno del governo nigeriano: l’apporto delle forze armate dalle labbra carnose si rivela insufficiente per la repressione dei militanti islamisti di Boko Haram”. Tutto normale?
Va detto che all’attributo “dagli occhi a mandorla” tendenzialmente non sono associate connotazioni negative. Il ricorso a quest’espressione non è tanto teso a stigmatizzare una minoranza, quanto piuttosto a sottolinearne l’aspetto inconsueto: serve a demarcarne l’alterità in termini irriducibili, perché fisiologici. Questo tipo di dispositivo retorico è molto più “sorvegliato” quando lo si adotta nei confronti di altre minoranze il cui fenotipo fisico non è coerente con quello “europeo bianco mediterraneo” dominante in Italia, per cui generalmente il suo impiego relativo agli africani è piuttosto raro, circoscritto alla descrizione del corpo e dell’aspetto fisico, non generalizzato a situazioni diverse se non con riferimento al colore della pelle in relazione a manifestazioni culturali della minoranza afroamericana nelle Americhe o delle popolazioni subsahariane: “musica nera”, “arte nera”, ecc. Il caso degli “occhi a mandorla” è particolare, perché è considerato innocuo, mentre lo sarebbe assai meno l’uso di espressioni come “dalla pelle gialla”.
Al contrario, laddove una più forte presa di coscienza sulle latenze razziste del discorso quotidiano mette in allerta i parlanti, difficilmente si addurrebbe una caratterizzazione neutra a marche fenotipiche come “dai capelli crespi”, “dalle labbra carnose”, ecc. fuori da un contesto strettamente cosmetico, medico o estetico. Possiamo dirlo senza mezzi termini: questo tipo di caratterizzazioni, legittime forse quando si parla di chirurgia estetica o di trucco, sono del tutto fuori luogo in qualsiasi altro contesto, a meno che non si reputi rilevante la diversità fenotipica a tutto campo. Per citare l’ignominioso Manifesto della razza di mussoliniana memoria, sono espressioni “francamente razziste”, perché considerano utile rimarcare, nella descrizione di qualsiasi situazione che veda coinvolte persone di origine est-asiatica, che tali persone appartengono a un peculiare sottogruppo della specie umana, la cosiddetta “razza gialla”, con il suo corredo somatico tipico: “occhi a mandorla”, “capelli neri lisci”, “statura bassa”, ecc. Perché questo tipo di sotto-testo razzista è d’uso corrente e non problematizzato nella comunicazione italiana solo per quanto riguarda questo particolare gruppo di persone? Perché non è possibile prescindere da una sottolineatura degli elementi che lo distinguono dal tipo somatico prevalente nelle società europee? Vedremo che questo cliché di quasi obbligatorio rimando alle differenze somatiche accompagna spesso altre peculiari caratterizzazioni che connotano l’immagine sociale dei cinesi in modo singolare e quasi immutabile da oltre un secolo. È una storia che traccia le proprie origini nello slancio aggressivo verso l’oltremare delle potenze europee della prima modernità, quando si va progressivamente a comporre l’armamentario ideologico che consentirà agli europei di legittimare il loro assalto economico, politico e militare al mondo cinese.
La prima incorporazione della singolarità cinese in una retorica di rapporto asimmetrico con dominatori europei è avvenuta quando gli spagnoli alla fine del XVI secolo si sono insediati nelle Filippine. Per attirare a Manila i mercanti asiatici in grado di garantire un accesso al vasto mercato cinese, gli spagnoli promuovono l’insediamento, appena fuori dai bastioni che circondano la loro cittadella di Intramuros, di una enclave cinese denominata Parián. I rapporti con questo quartiere isolato e chiuso, a portata di tiro dalle artiglierie delle mura spagnole, ricalcano da vicino l’archetipo europeo delle relazioni asimmetriche con una middleman minority (“minoranza di intermediari”), ovvero la segregazione degli ebrei entro ghetti in cui poterli costringere all’esercizio di funzioni sociali ed economiche indispensabili ma “inappropriate” per i cristiani: dal credito alla medicina, fino alla intermediazione commerciale con i musulmani.
Gli spagnoli si serviranno dei cinesi per commerciare con l’Impero cinese e i suoi Stati tributari, convertendo in porcellane, seta e tè le montagne di reales de a ocho – i famosi “pezzi da otto” in argento delle miniere del Vicereame di Nuova Spagna che diverranno per i prossimi tre secoli la moneta globale per eccellenza – portate dal galeone che ogni anno salpa da Acapulco alla volta di Manila, per poi farvi ritorno con pregiate merci asiatiche da avviare ai mercati delle colonie e dell’Europa. Ma ne faranno anche il capro espiatorio sul quale dirottare la furia delle periodiche rivolte dei sudditi filippini, che a più riprese nel corso del XVII secolo sfoceranno in tremendi massacri di cinesi. In questo primo secolo di frequentazioni tra europei e cinesi, le relazioni dei primi viaggiatori portoghesi e spagnoli (Pereira, Da Cruz, Mendez Pinto, Juan Mendoza, ecc.) come pure quelle dei primi missionari gesuiti (Matteo Ricci, Martino Martini, Giulio Aleni, per citare solo gli italiani più famosi) contribuiranno a costruire uno stereotipo della Cina sostanzialmente positivo: un impero ideale, governato da saggi e ordinato da un’ortodossia etico-morale in grado di preservare l’armonia sociale in una società gerarchica, ricca e sostanzialmente in equilibrio sul piano dell’accesso alle risorse di cui dispone.
Nelle narrazioni che si diffondono tra le classi colte dell’Europa del tempo, prostrata da infiniti conflitti religiosi, i cinesi sono essenzialmente l’esempio cui tendere, se gli europei sapessero ricomporre una christianitas ormai in frantumi. Sono descritti come gente gentile, saggia e perfino “bella”. Come ricorda Walter Demel nel suo studio sulle origini delle teorie razziali, ancora nel Dictionnaire universel des Peuples des quatre Parties du Monde pubblicato a Parigi nel 1772 i cinesi sono descritti come un popolo “il cui colorito è bianco e la fisionomia gradevole e che ispira gioia di vivere”. Prima del 1770, di fatto, non si trova alcuna menzione di una marcata differenza somatica tra cinesi ed europei: niente “pelle gialla”, niente “occhi a mandorla”.
Questa visione idilliaca della Cina comincerà a incrinarsi già nel corso del XVIII secolo, e a scandirne la progressiva demolizione saranno soprattutto tre opere che ebbero vasta circolazione in Europa: il Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719); la relazione della spedizione militare compiuta dal commodoro George Anson nel Mar della Cina (1744); lo Spirito delle leggi di Montesquieu (1749). Defoe fa della descrizione della Cina, visitata dal suo eroe letterario al ritorno dal suo lungo esilio sull’isola, un controcanto alla sua celebrazione dell’intraprendenza britannica, mentre Anson e Montesquieu vedranno nell’Impero cinese l’epitome della decadenza di un regime dispotico e antiquato, refrattario alla modernità, incapace di scrollarsi di dosso l’inefficienza di una burocrazia corrotta e oscurantista. Questa visione decadente verrà ripresa anche da Johann Gottfried von Herder, che nella sua opera incompiuta Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1800) descriverà la nazione cinese come “una mummia imbalsamata, avvolta nella seta e ricoperta di geroglifici”, “governata da istituzioni inalterabilmente puerili”. Queste opinioni troveranno ulteriore eco nelle relazioni prodotte dalle fallimentari missioni diplomatiche britanniche presso gli imperatori della dinastia Qing guidate da Lord Macartney (1793) e da Lord Amherst (1816). Pochi decenni dopo, lo scoppio della prima guerra dell’oppio (1839-1842) inaugurerà la lunga stagione di conflitti, sorprusi diplomatici e atrocità che ridurrà l’impero cinese alla mercé degli imperialismi delle potenze occidentali e del Giappone trasformato dalla Restaurazione Meiji. I cinesi definiscono ancora oggi questo periodo come “i cent’anni della vergogna” (bainian chiru, 百年耻辱) oppure “il secolo dell’umiliazione nazionale” (bainian guochi, 百年国耻).
Negli stessi anni, la reazione romantica all’illuminismo settecentesco darà impulso all’articolazione di nuove interpretazioni della modernità, teorie che sosterranno l’impeto del nuovo capitalismo industriale e della sua aggressiva fase di espansione illimitata. Agli albori delle scienze sociali, il tentativo di una sintesi positiva con le scienze naturali – in particolare la storia naturale rivoluzionata da Charles Darwin (1809-1882) – in grado di rendere conto tanto della scala globale dello straordinario sviluppo dell’Occidente quanto del concomitante declino delle società non occidentali, attingerà ai filoni di pensiero più disparati. Tra le dottrine più influenti che contribuirono a costruire un consenso sempre più ampio attorno all’ineluttabilità dei processi storici che stavano conducendo gli europei al dominio su altri popoli, e alla legittimità morale, politica, economica e perfino biologica di questa supremazia, si possono ricordare: il liberalismo economico di Adam Smith (1723-1790) e John Stuart Mill (1806-1873), l’utilitarismo di Jeremy Bentham (1748-1832), il catastrofismo demografico di Thomas Robert Malthus (1766-1834), le teorie razziali di Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840) e Arthur de Gobineau (1816-1882), il darwinismo sociale di Herbert Spencer (1820-1903) e Thomas Henry Huxley (1825- 1895), l’eugenetica di Francis Galton (1822-1911) e infine le riflessioni sull’evoluzione e le diversità tra razze animali e umane del naturalista tedesco Ernst Haeckel (1834-1919). Man mano che la concezione di sé degli europei si fa più elevata, si compatta l’immagine sempre più negativa della civiltà cinese, ormai “giunta al proprio stadio terminale”. Una delle conseguenze più singolari di questo processo è che agli occhi degli europei i cinesi cambiano colore: già Linneo aveva proposto il luridus (“giallo sporco”) come colore della pelle degli asiatici, ma sarà Blumenbach, un fisiologo presso l’Università di Gottinga che sarà tra i fondatori dell’antropologia fisica tedesca, a concludere definitivamente che: a) i cinesi appartengono alla “razza mongolica” e che b) quest’ultima ha la pelle di colore “giallognolo”. Quest’operazione, che toglie ogni singolarità ai cinesi come gruppo umano e li accorpa “biologicamente” a una popolazione che è storicamente il loro principale antagonista culturale, oltre che l’invasore asiatico per eccellenza nella tradizione storiografica europea, marcia di pari passo con la progressiva attribuzione da parte di autori successivi (da de Gobineau a Haeckel) di caratteristiche attitudinali negative: scarsa creatività, indolenza, corruzione, immoralità, vizio, ecc.
Nell’ultimo quarto del XIX secolo queste nozioni si sono cementate in uno stereotipo che assume tratti sempre più articolati e stabili, in gran parte modellati sul più antico stereotipo antisemita, come si evince in modo persuasivo dalle operazioni di costruzione del “nemico razziale” per eccellenza nel primo contesto in cui europei e cinesi si contendono uno “spazio vitale” fuori dalla Cina, nella California del 1877-1882. Sbarcati a San Francisco in occasione della grande corsa all’oro del 1849, i primi cinesi vengono presto raggiunti da altri connazionali in cerca di fortuna nelle miniere o assunti in blocco come lavoratori a contratto nella costruzione della prima ferrovia transcontinentale americana (1862-1869). Nel 1870 sono circa 50.000, il 25% della forza lavoro complessiva, dove prevalgono americani bianchi nativi (40%) e immigrati europei, soprattutto irlandesi (15%), tedeschi (6%) e anglosassoni (6%). Fin dal 1850 i minatori bianchi decidono di coalizzarsi per estromettere i cinesi dai filoni auriferi più remunerativi, relegandoli a occupazioni subordinate e poco redditizie (lavandai, cuochi, ciabattini, sarti) o pesanti e pericolose (uso di esplosivi nelle miniere o nella costruzione delle ferrovie). Molti gravitano verso i centri abitati maggiori, dove sono impiegati massicciamente nelle occupazioni a più bassa qualifica, finché l’esaurimento dei giacimenti auriferi più superficiali smobilita un’ingente massa di lavoratori bianchi, ora costretti anch’essi a cercare lavoro nelle città. La competizione in campo occupazionale si fa intensa e assume da subito tinte fortemente sinofobiche, ed è attorno a questo nucleo razzista che si costruisce la solidarietà del partito dei lavoratori californiani (Workingmen’s Party of California).
Ad amplificare il radicamento del movimento anti-cinese nella società americana del tempo contribuiscono i nuovi mezzi di comunicazione di massa, soprattutto i settimanali illustrati a colori, dove una leva di giovani illustratori, molti di origine tedesca, attinge a piene mani ai cliché della tradizione satirica dell’Europa continentale. Un buon esempio è sicuramente George Frederick Keller, nato in Prussia e immigrato giovanissimo negli Stati Uniti, dove parteciperà alla Guerra di Secessione, un periodo in cui l’antisemitismo europeo trova ampio seguito in America nella polemica contro i profittatori di guerra. Diverse sue vignette, come quella qui riprodotta, si ispirano chiaramente agli stereotipi antisemiti del suo tempo per agevolare una sorta di “calco semiotico”, in cui la caratterizzazione del cinese come subdola e invasiva minaccia per le sorti del lavoratore bianco si lega facilmente a un’impalcatura ideologica già consolidata dalla retorica contro gli ebrei in Europa e negli Stati Uniti. È in questi anni, in cui i cinesi presenti nei contesti dominati dai “bianchi” sono soggetti a una crescente segregazione sociale, che lo stereotipo anticinese in Occidente assume caratteristiche stabili e ben delineate, tanto da mantenersi pressoché intatte fino ai giorni nostri. Ora non si limita più soltanto alla critica della civiltà cinese, ma si concentra sul cinese come perpetual stranger nel mondo dominato dagli europei.
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