A partire dall’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, con epicentro in quei contesti del mondo anglosassone (la California americana, alcune cittadine della frontiera e del Sud degli Stati Uniti, la metropoli newyorchese, i Caraibi, colonie e concessioni britanniche in Asia, ecc.) in cui minoranze cinesi si ritrovano esposte a una crescente segregazione sociale, si consolida e si diffonde uno stereotipo anticinese i cui connotati si mantengono relativamente stabili per tutto il Novecento, tanto da gettare una lunga ombra anche sulle narrazioni contemporanee della presenza di immigrati cinesi nelle nazioni d’Occidente.
Se, come abbiamo rapidamente delineato nello scorso numero di OrizzonteCina, le prime pulsioni sinofobiche occidentali si incentravano su di una critica della civiltà cinese, questa versione “coloniale” dello stereotipo anti-cinese verte più segnatamente sulla descrizione del cinese come perpetual stranger nel mondo dominato dagli europei. In linea con le teorie razziste che costituiscono il pensiero egemone dell’età dell’imperialismo, nei romanzi d’appendice, nella pubblicistica di carattere giornalistico, nella saggistica a tema sociale e perfino in certa letteratura giuridica del tempo, la “specificità cinese” è ora ricondotta ossessivamente a un fenotipo distintivo, i cui connotati ne demarcano l’inferiorità rispetto alla “razza bianca”: “pelle giallastra”, “occhi a mandorla”, “incisivi sporgenti”, “costituzione gracile” ecc.
Queste sarebbero però solo marche esteriori di una più radicata, netta e irriducibile differenza culturale, la cui inconciliabilità con la “tradizione europea” si manifesterebbe nella conclamata refrattarietà all’acculturazione o all’assimilazione dei cinesi che vivono nelle società “bianche”. Il greve, millenario retaggio culturale cinese (cui sono generalmente attribuiti valori e costumi negativi, perfino ripugnanti e crudeli, suscettibili di “contagiare e contaminare” la società ospite) costringerebbe dunque i cinesi a una profonda autoreferenzialità e allo stato di sojourner, di “soggiornante” perenne, la cui presenza all’estero sarebbe sempre temporanea, rendendo pertanto i “soggiornanti” cinesi poco inclini a investimenti significativi sul piano dell’integrazione culturale. Ne conseguirebbe una diffidenza profonda verso tutto ciò che è straniero, una facile tendenza alla xenofobia, perfino in un senso di superiorità… che vivendo in mezzo a non-cinesi va necessariamente dissimulato. Da ciò discenderebbero anche ulteriori caratteristiche negative: doppiezza, astuzia malevola, insolenza, infingardaggine, vigliaccheria. Tale senso di separatezza è spesso ricondotto anche alla quasi paradigmatica incomprensibilità di lingua, scrittura, usi e costumi, che configura un’identità culturale misteriosa ed esoterica, accessibile con fatica solo da parte di un limitato numero di non-cinesi esperti, ma del tutto preclusa ai “non-iniziati”, che ne sono pertanto prevalentemente respinti. Questa natura esoterica dell’identità culturale cinese ne facilita l’accostamento alla dimensione religiosa – peraltro anch’essa complessa e sfaccettata, irriducibile alle categorie del monoteismo cristiano – ovvero alla visione del retaggio cinese stesso come una forma di religione, di identità religiosa, cui si appartiene solo se ci si “converte”.
Date queste premesse, se ne deriva una marcata propensione a fare “gruppo a sé”, a isolarsi da altri gruppi sociali, fino all’autosegregazione in contesti abitativi e lavorativi separati fisicamente da quelli del gruppo sociale dominante (le Chinatown) e di altre minoranze, in cui far vigere meccanismi di autoregolamentazione informali e impenetrabili, spesso in contrasto con le leggi e i costumi vigenti, tanto da configurare vere e proprie “zone franche”, enclave percepite come “extraterritoriali”, in cui la vistosa connotazione cinese degli spazi, dei negozi e delle abitazioni rafforza l’impressione di uno spazio sottratto all’identità della maggioranza dominante. Questa segregazione spaziale si rispecchierebbe anche in pratiche di vita e di lavoro a loro volta concentrate in nicchie specifiche di attività, che vengono progressivamente occupate grazie alla disponibilità a lavorare per salari molto bassi o accettando profitti ridottissimi, scalzando così i lavoratori o gli imprenditori non-cinesi, fino ad essere gestite prevalentemente o in toto da cinesi disposti a lavorare in condizioni di forte sfruttamento perché assoggettati allo strapotere di società segrete.
Di conseguenza, la proliferazione di occupazioni ed imprese cinesi, seppure inizialmente apprezzata per la sua convenienza economica, viene gradualmente percepita come una minaccia dalla maggioranza dominante, che ne teme la concorrenza “sleale”, ed è vista con risentimento e invidia crescente da altre minoranze, specie perché si sospetta possa tradursi in forme sottili di corruzione e di graduale accrescimento del potere economico e di influenza politica dei cinesi: il cliché del “pericolo giallo”. Infatti, dietro alla proliferazione della diaspora cinese nel mondo si tende a vedere l’imperitura e potenzialmente minacciosa influenza della madrepatria cinese, quel luogo “altro” cui la lealtà dei cinesi residenti all’estero non verrebbe mai meno davvero, neppure dopo generazioni (tanta sarebbe infatti la forza e la cogenza del retaggio culturale cinese) giustificando pertanto la diffidenza che nei loro confronti nutre la maggioranza dominante: i cinesi, essendo tali, non possono essere cittadini leali di paesi che non siano la Cina stessa.
Con occasionali varianti e modifiche rispetto a questi connotati di base, il nucleo centrale dello stereotipo anticinese così riassunto si è prestato (e si presta tuttora) a essere agito culturalmente e politicamente con finalità diverse a seconda delle diverse epoche e dei differenti contesti storici, configurando spesso dinamiche di stigmatizzazione, di esclusione ed inferiorizzazione sociale, di riduzione della minoranza cinese a capro espiatorio, fino alla persecuzione vera e propria. Nel 1895, l’Imperatore Guglielmo II, scosso dal successo militare giapponese contro la Cina, fu così persuaso dell’inevitabilità di un futuro scontro finale tra la “razza bianca e quella gialla” da propagare attivamente l’allarme per il “pericolo giallo”, tanto da far realizzare dal pittore Hermann Knackfuss una litografia allegorica che divenne molto popolare, in cui invitava le nazioni europee a coalizzarsi a difesa dei propri “beni più sacri” contro la sacrilega avanzata dell’orda gialla, simboleggiata da un budda fiammeggiante.
Da allora questo spauracchio è stato rispolverato più e più volte, sia in riferimento alla Cina che ad altre nazioni est-asiatiche. Perfino alcuni paesi asiatici si serviranno dello stereotipo anticinese per rafforzare le proprie identità nazionali in costruzione: così per esempio re Rama VI di Thailandia nel 1914 pubblicherà un pamphlet anticinese dall’eloquente titolo “Gli ebrei dell’Oriente” allo scopo di rafforzare l’identità “siamese” in un paese in cui la stessa famiglia reale è in realtà di sangue misto (sino-thai), mentre in Malesia lo stesso stereotipo sarà usato per giustificare legislazioni volte a proteggere “l’etnia malese” e de-sinizzare una popolazione in cui un quarto dei cittadini si dichiara di origine cinese. In Indonesia, dove la minoranza di origine cinese si stima attorno al 2%, nel 1998 scoppiarono violenti tumulti anticinesi, che secondo alcune stime risultarono in un migliaio di morti e in 87 casi di stupro. Nel corso dell’intero XX secolo, lo stereotipo anticinese in Occidente colorerà a più riprese sia l’allarme nei confronti della Cina comunista, sia le narrazioni tese a descrivere “la Cina di casa nostra”, l’universo delle Chinatown, le criptiche usanze di comunità “incapsulate” in seno a corpi sociali con cui non comunicherebbero che sul piano dell’utilità economica. Un universo governato da organizzazioni illegali e omertose, che ha offerto innumerevoli variazioni sul tema al cinema di genere hollywoodiano e alle serie tv poliziesche americane.
E in Italia, a oltre un secolo di distanza dagli eventi che ne conclamarono le fortune, qual è l’impatto della sinofobia, in particolare rispetto alla percezione dell’immigrazione cinese nel nostro paese? Una risposta completa richiederebbe troppo spazio per poterne discutere in queste pagine, ma possiamo farcene un’idea a partire da alcuni dati recenti e di facile accesso. L’archivio storico digitale del quotidiano La Stampa di Torino, per esempio, permette di fare una rapida scansione dei titoli degli articoli che ha dedicato all’immigrazione cinese negli anni di maggiore intensità dei flussi migratori dalla Rpc (1992-2005). Depurando i titoli dalle etichette “cinese”/“cinesi”, si è utilizzato un semplice freeware di analisi testuale in grado di costruire una “nuvola di parole” che attribuisce maggiore evidenza alle parole più ricorrenti.
Il risultato non lascia adito a dubbi: la rappresentazione della minoranza cinese in Italia è tutta all’insegna della cronaca nera, e vi si rintracciano facilmente le categorie dello stereotipo sopra descritto. Con una specificità importante: il ruolo che in Italia si attribuisce alla “mafia cinese” nel gestire la “tratta” dei lavoratori cinesi “clandestini”, impiegati come “schiavi”, perfino se si tratta di “bambini”. Se qualcuno di questi operai “senza nome” muore, se ne occulta il cadavere per riciclarne i documenti, è per questo che i cinesi “non muoiono mai”. È questa l’immagine più diffusa anche nell’ambito della cultura popolare contemporanea italiana, cui attingono non soltanto autori di serie tv e di fumetti, ma anche alcuni dei più rappresentativi scrittori della nuova narrativa italiana per caratterizzare i propri villain o dare un tocco d’esotico inquietante alle proprie distopie: Giuseppe Genna (Non toccare la pelle del drago), Roberto Saviano (Gomorra), Tommaso Pincio (Cinacittà) e Antonio Scurati (La seconda mezzanotte) sono solo alcuni degli autori più famosi che si sono presi ampie libertà con questo materiale narrativo, senza eccessivi scrupoli rispetto agli effetti che un rinforzo simbolico di questo genere inevitabilmente genera sulla rappresentazione sociale di una minoranza.
Questa visione a tinte fosche, però, è mitigata dal ritratto che dei cinesi d’Italia si traccia in un recente studio della Fondazione Leone Moressa a partire da una survey condotta su un campione di 700 famiglie italiane, in cui traspare che i cinesi sono gli immigrati più “graditi agli italiani” dopo i filippini, e sono stimati come “onesti” e “bravi lavoratori”. Ma lo stesso studio, che ha monitorato 846 articoli apparsi nel 2014 nelle tre testate nazionali più diffuse, mostra anche come la stampa italiana restituisca un’immagine tendenzialmente negativa e minacciosa della minoranza cinese, soprattutto perché la mette in relazione con un’espansione economica letta in termini di concorrenza sleale e invasione di spazi considerati appannaggio del lavoratore o imprenditore italiano. Secoli di egemonia europea nella narrazione dell’altro fanno scivolare facilmente le interpretazioni di fenomeni complessi come l’immigrazione cinese nel comodo solco di retoriche ormai familiari, ma di cui sarebbe bene preoccuparsi maggiormente. Magari vergognandosene.
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