Il primo segnale di allarme vero arriva a metà gennaio, quando nelle conversazioni con amici sinoitaliani ritornano ossessivamente frasi come: “mai hai idea di cosa stia accadendo in Cina? Guarda che c’è da aver paura!”. Ai primi di gennaio, in effetti, i media italiani e internazionali comunicano che un “virus sconosciuto sta causando attacchi di polmonite fra Cina e Hong Kong”.[1] Ed alcuni miei studenti, borsisti in Cina da settembre 2019, sempre durante la prima settimana dell’anno segnalano ai compagni nelle loro chat di gruppo la necessità di indossare una mascherina nel caso prevedessero di transitare dal fondamentale snodo ferroviario di Wuhan. Il 31 di dicembre il governo cinese aveva allertato l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a proposito della comparsa di un nuovo tipo di polmonite estremamente aggressivo, ma la gravità dell’epidemia in corso si sarebbe compresa solo due settimane più tardi, quando pazienti affetti da questa nuova patologia cominciano ad accumularsi a ritmo serrato negli ospedali di Wuhan. Nel mondo strettamente interconnesso in cui viviamo, le voci corrono rapidamente, e si comincia a guardare alla Cina con una punta di apprensione. Ma virus nuovi in Cina – e in generale nel mondo – ne circolano parecchi, e con sempre maggiore frequenza si diffondono nelle sempre più dense, numerose e contigue popolazioni di animali d’allevamento e di esseri umani. A inizio anno, il pensiero è corso subito alle epidemie di SARS (SARS-CoV, 2003-2004), di influenza aviaria (H5N1, 2003-2005) e suina (H1N1, 2009-2010) degli anni Duemila: tutte epidemie relativamente circoscritte e il cui impatto – benché regionalmente o episodicamente importante – si è stemperato piuttosto rapidamente. Insomma, nulla di troppo preoccupante, in fondo.
Ma alla fine della terza settimana di gennaio le medesime conversazioni si arricchiscono di riferimenti ai post dei loro compagni di studi e di conoscenti, amici e parenti rimasti in Cina, da cui traspare un panico crescente. Tanto che perfino gli studenti universitari cinesi residenti in Italia, incalzati da genitori estremamente preoccupati, cominciano a fare scorta di viveri e d’acqua, per poi chiudersi in casa, limitando al minimo indispensabile le uscite. Pochi giorni dopo, il 23 gennaio, il governo cinese implementa misure senza precedenti per confinare in casa l’intera popolazione della città di Wuhan, principale epicentro del contagio. Si tratta di una megalopoli di undici milioni di abitanti, capoluogo di una regione, lo Hubei, che ha una popolazione comparabile per dimensioni a quella italiana. In città, come in tutto il resto del paese, fervono da settimane i preparativi per il Capodanno cinese, che quest’anno cade il 24 gennaio. Molti cittadini residenti a Wuhan vi fanno ritorno dal resto del paese, dalle città dove si sono trasferiti per studiare o lavorare. Ancora più numerosi sono i lavoratori e gli studenti che nelle settimane precedenti hanno cominciato a rientrare nelle loro città di origine, sparse per tutta la Cina. Le feste comandate interessano la settimana tra il 24 e il 30 di gennaio, ma, considerata la congestione dei trasporti tipica del Capodanno, moltissime persone hanno scelto di scaglionare le partenze con un certo anticipo. Nominalmente, l’arco delle festività tradizionali va dal 24 all’8 di febbraio, quando la festa delle lanterne funge da epifania e segna per molti il ritorno al lavoro. Il movimento delle persone da Wuhan verso il resto del paese ha contribuito a diffondere il virus e tale diffusione è verosimilmente iniziata già nel mese di dicembre, quando si sono cominciati a registrare i primi casi di polmonite atipica, come hanno ricostruito meticolosamente alcuni reporter del New York Times.[2] Come spiegano gli autori, questa diffusione difficilmente si sarebbe potuta arrestare, anche se le autorità sanitarie e governative cinesi si fossero mosse con maggiore celerità. Ma certamente ha prevalso, tanto a livello locale che centrale, il principio del chǔtū wéiwěn 处突维稳, “gestire le emergenze e preservare la stabilità sociale”. La matassa delle responsabilità dei funzionari locali è complessa,[3] ma negli amministratori politici questa è da tempo una sorta di reazione pavloviana: di fronte a qualunque emergenza, dare priorità immediata al damage control politico e mediatico. A ridosso del Capodanno, poi, con il suo strascico di banchetti e di intensa cura delle relazioni, l’imperativo di mantenere il controllo e di non generare panico è apparso ancora più stringente. Mentre il 31 dicembre il governo dichiarava all’Oms di essere in grado di prevenire e contenere l’espansione dell’epidemia, i primi leak al riguardo della “nuova SARS” sui social media cinesi cominciavano a essere postati e ripostati furiosamente.
In Italia, a Milano, negli stessi giorni la reazione di molti sinoitaliani alla chiusura totale di Wuhan è di sconcerto totale e di forte preoccupazione. Sulle chat condivise con cinesi della generazione dei propri genitori, o con cinesi che sono qui per studiare, la paura monta di giorno in giorno. Ufficialmente è chiusa solo Wuhan (anche se presto seguiranno le altre maggiori città della regione), ma i parenti rimasti nelle remote località montane dell’entroterra di Wenzhou raccontano di villaggi che si mettono in quarantena da soli, di barricate e posti di blocco all’entrata dei paesi, presidiati giorno e notte. E si tratta di comunità isolate nelle zone rurali e suburbane del Zhejiang meridionale, a oltre 700 km da Wuhan. Sui social cinesi imperversano gli yáoyán 谣言, le “dicerie” e le fake news che ingigantiscono la pericolosità del virus, denunciano l’inettitudine dei governanti e la disorganizzazione degli ospedali. Lungi dall’atteggiamento celebrativo e auto-assolutorio che prevarrà due mesi più tardi, sulla rete cinese imperversano deliranti teorie complottiste, struggenti “diari della quarantena”,[4] strazianti pornografie del dolore nelle corsie e nelle sale d’attesa degli ospedali, e denunce della brutalità di poliziotti e militari incaricati di vigilare sull’adesione alle strette disposizioni di sicurezza.[5] Gli studenti cinesi d’Italia, pur vivendo a Bologna, Milano, Torino, Roma, Perugia, sono travolti da questa improvvisa tempesta di messaggi, articoli, post, veicolati ventiquattrore su ventiquattro attraverso il cordone ombelicale digitale dei loro smartphone.
A fine gennaio si delinea una dicotomia sempre più profonda, che taglia in due i cinesi d’Italia. Da un lato, vi sono gli studenti cinesi e gli adulti cinesi di immigrazione relativamente recente, completamente assorbiti dal dramma dell’epidemia nella madrepatria, i cui interventi sui social media sono improntati a un forte allarme per l’inazione dei paesi occidentali, e in particolare dell’Italia. Non si capacitano del fatto che nessuno prenda provvedimenti, che per strada nessuno indossi la mascherina – e sì, questo avviene già a gennaio – e che il governo italiano sembri prendere così disinvoltamente sottogamba la nuova peste del millennio. Si organizzano per fare collette e acquistare interi container di mascherine e altri dispositivi di protezione individuale da spedire in Cina. Le associazioni di imprenditori cinesi fanno a gara a chi è più solidale con i compatrioti in difficoltà, raccogliendo ingenti somme e notevoli quantità di materiale. Dall’altro, vi sono gli “anziani” dell’immigrazione cinese, che ricordano quanto accadde in Italia durante la SARS (nel 2003 l’epidemia in Italia contò solo quattro contagiati probabili,[6] due italiani e due cinesi, tutti guariti) e mettono in guardia di fronte al probabile ritorno di un’ondata sinofoba con gravi conseguenze per le attività commerciali di famiglia. Diciotto anni fa, infatti, la “psicosi del virus” portò alla chiusura di molti ristoranti cinesi, e indusse moltissimi ristoratori a riorientare la propria offerta dirottandola sulla cucina italiana, giapponese o “etnica” (la seconda metà degli anni duemila fu il momento d’oro delle chifas, le trattorie di cucina sino-andina con clientela peruviana ed ecuadoriana). Le seconde generazioni tendono a condividere questi timori, anche perché fin da subito emergono le prime istanze di attacchi razzisti a cinesi, ma soprattutto perché vedono svuotarsi ristoranti e negozi… E i primi a sparire sono i loro clienti cinesi, come gli studenti universitari. Viceversa, i giovani sinoitaliani restano piuttosto perplessi davanti all’ansia montante del primo gruppo, anche perché i loro amici italiani (compreso il sottoscritto) – che si affrettano a citare articoli di importanti virologi nostrani e internazionali – li rassicurano rispetto alla solidità del sistema sanitario italiano ed europeo. A differenza di quanto era avvenuto diciotto anni prima, moltissimi italiani – studenti e docenti di cinese, ma anche compagni, amici, amanti e famigliari italiani di cittadini cinesi e di cittadini italiani di origine cinese – si stringono simbolicamente e fisicamente attorno ai cinesi d’Italia, i “nostri” cinesi. Da Torino a Milano, da Venezia a Bologna, da Firenze e Prato fino a Napoli, è tutto un pullulare di iniziative di solidarietà per la città di Wuhan, per la Cina e per i cinesi di casa nostra. Flash mob con tanto di striscioni e sventolìo di bandiere cinesi si mobilitano in molte città, eventi subito rilanciati sui social cinesi, che ne amplificano l’impatto in Cina.
Il 30 gennaio l’Italia impone il blocco dei voli diretti dalla Cina, una misura facilmente aggirata dai voli che fanno scalo in altri paesi, ma conduce solo a episodici controlli negli aeroporti e soprattutto non tiene traccia di chi arriva dalla Cina, se non in misura molto limitata (studenti e docenti che stanno rientrando dai loro soggiorni studio, per esempio, o gli italiani rimpatriati da Wuhan). Questo acuisce ulteriormente l’angoscia del primo gruppo, mentre il secondo, almeno fino al 21 di febbraio, è soprattutto animato da un attivismo comunicativo senza precedenti. I media italiani si riempiono di articoli, reportage e “ospitate” televisive e radiofoniche in cui a prendere parola sono giovani cinesi fotogenici, colti, competenti, che parlano fluentemente e spesso impeccabilmente l’italiano, e che occasionalmente sono addirittura più istrioni di chi li ha invitati. Perfino trasmissioni televisive certamente non tenere nei confronti degli “immigrati extracomunitari”, come Dritto e Rovescio (Rete 4), diventano palcoscenici in cui alcuni volti e voci emergenti della comunità cinese d’Italia, come Francesco Wu, Shi Yang Shi, Jerry Hu tengono testa agli altri ospiti e si fanno conoscere al grande pubblico. Il caso della ricercatrice e docente universitaria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Lala Hu, testimone di un brutto episodio di ordinario razzismo,[7] è rilanciato da vecchi e nuovi media per giorni. Politici e amministratori locali si fanno intervistare mentre mangiano nei locali cinesi delle rispettive città, lanciano chiari messaggi di solidarietà ai cinesi ingiustamente accusati di essere novelli untori. Il video di un giovane sinoitaliano[8] (Massimiliano Jiang, dell’Associazione Unione Giovani Italocinesi) che per le vie di Firenze dichiara “io non sono un virus” e chiede ai passanti di abbracciarlo commuove la Cina e viene rilanciato moltissimo anche dai social italiani. La sera del 20 febbraio, centinaia di italiani e cinesi cenano insieme in oltre cinquanta locali di Milano e hinterland per celebrare “la notte delle bacchette”,[9] una serata di solidarietà e beneficienza cui ha aderito un numero record di ristoratori cinesi.
Il giorno dopo, di colpo, la pandemia deflagra in Italia: prima la Bassa Lodigiana, poi il Veneto, poi la Bergamasca… dall’ultima settimana di febbraio a metà marzo è un crescendo impressionante e crudele di contagiati e di morti. Tanti, troppi morti. Il mostro è arrivato. Avevano dunque ragione gli studenti cinesi, quelli così ansiosi e “paranoici”. Avevano ragione i cinesi di recente immigrazione, molti dei quali – rientrati precipitosamente dai paesi d’origine dove si erano recati per celebrare il Capodanno assieme agli anziani genitori – si sono organizzati per auto-isolarsi, imponendosi quarantene assai più rigorose di quelle imposte dai primi confusi decreti del governo italiano. Quando il 10 marzo si decreta il lockdown nazionale, i ristoranti, i negozi e i laboratori cinesi di tutta Italia sono già chiusi da settimane. Decisi a non dare quartiere alle “dicerie dell’untore”, convinti che l’unica risposta efficace al COVID-19 sia l’approccio draconiano e intransigente del governo di Pechino, si ritirano nelle proprie case, o in alberghi e pensioni prenotati a questo scopo con il sostegno delle associazioni comunitarie. E funziona: a Prato, a metà aprile, il numero dei contagiati cinesi risulta ancora pari a zero. I cinesi che sono stati contagiati in Lombardia, sono stati contagiati da italiani. Forse non sapremo mai chi sia stato il “paziente zero” della pandemia in Italia, ma di certo non pare possibile imputare ai “nostri” cinesi un comportamento poco responsabile. Si sono isolati prima di tutti gli altri. Hanno chiuso tutte le loro attività con due settimane di anticipo per contribuire a limitare le occasioni di contagio. Si sono procurati guanti, disinfettante e mascherine con largo anticipo per tutta la famiglia, e anche per parenti, amici, colleghi ed operai, cinesi e non. Come si erano attivate fin da gennaio per aiutare il personale medico-sanitario di Wuhan, così, fin da metà marzo, le associazioni comunitarie cinesi di tutta Italia (e sono ormai centinaia) si sono mosse per donare mascherine e dispositivi di protezione individuale agli ospedali delle loro città, alle forze dell’ordine, agli uffici pubblici. In alcuni casi le hanno perfino distribuite per strada. Avremo tempo e modo di affrontare, su queste pagine, anche gli aspetti politico-culturali più complessi e controversi di questa drammatica vicenda, come l’emergere di fondamentali questioni relative alla governance delle emergenze in una società aperta, rese più apre ed urgenti dal confronto impietoso con l’efficacia (vera o presunta) del panopticon totalitario in una società innervata da capillari dispositivi di governo e di controllo come quella cinese; o come il rigurgito d’orgoglio nazionalista tra gli Italian Born Chinese, indignati dalla facilità con cui molti in Italia e in altri paesi occidentali, cercano ora nella Cina il capro espiatorio della propria colpevole impreparazione. Ma è certo ormai che alla prova del COVID-19 i cinesi d’Italia hanno saputo tenere testa egregiamente, dando prova di senso civico, solidarietà, capacità di mobilitazione e di presa di parola esemplari. Ricordiamocene.
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[1] Elena Dusi, “Misterioso virus in Cina, 59 colpiti da polmonite”, La Repubblica, 6 febbraio 2020, disponibile all’Url https://www.repubblica.it/salute/2020/01/06/news/misterioso_virus_in_cina_59_colpiti_da_polmonite-245096236/.
[2] Jin Wu, Weiyi Cai, Derek Watkins and James Glanz, “How the virus got out”, New York Times, 22 marzo 2020, disponibile all’Url https://www.nytimes.com/interactive/2020/03/22/world/coronavirus-spread.html.
[3] James Kynge, Sun Yu, Tom Hancock, “Coronavirus: the cost of China’s public health cover-up”, Financial Times, 6 febbraio 2020, disponibile all’Url https://www.ft.com/content/fa83463a-4737-11ea-aeb3-955839e06441.
[4] Il più celebre dei quali, quello della giovane blogger Fang Fang, conta già un’edizione in varie lingue europee. Si veda: Fang Fang, Wuhan Diary. Dispatches from a quarantined city, (New York: HarperVia, 2020), a presto disponibile anche in un’edizione italiana (Rizzoli).
[5] Una vistosa differenza rispetto alla esuberante produzione di meme comici, satirici o sarcastici che ha dominato invece i social media italiani lungo tutto il primo mese di quarantena. Per avere un’idea delle visioni post-apocalittiche che hanno invece tenuto banco sui social cinesi, si veda il surreale videocollage prodotto dal collettivo artistico WUXU di Bologna, un gruppo di artisti e studenti cinesi che si sta facendo conoscere per il proprio attivismo culturale sia in Italia che in Cina. Si veda: codiciricerche, “Curami – 治疗我”, 26 febbraio 2020, disponibile all’Url https://www.youtube.com/watch?v=Mkhxa3WbTzc.
[6] Giovanni Rezza, “La SARS in Italia”, Epicentro, ottobre 2013, disponibile all’Url https://www.epicentro.iss.it/ben/2003/ottobre%202003/1.
[7] Federica Cavadini, “Coronavirus Italia, la prof cinese derisa in treno e il tweet virale”, Corriere Milano – Cronaca, 18 febbraio 2020, disponibile all’Url https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/20_febbraio_18/coronavirus-italia-professoressa-cinese-lala-hu-derisa-treno-frecciarossa-tweet-virale-45a09b94-5279-11ea-ac26-d47429c3b2e0.shtml.
[8] Elisax xia, “Forza Cina forza Wuhan”, 4 febbraio 2020, disponibile all’Url https://www.youtube.com/watch?v=xwwjg-CVPzU.
[9] Finedining Lovers, “La Notte delle Bacchette: a Milano ristoranti uniti con un piatto solidale”, 20 febbraio 2020, disponibile all’Url https://www.finedininglovers.it/eventi/notte-bacchette-milano.
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