La rinegoziazione dell’identità e dell’appartenenza è un tema classico delle epopee migratorie umane. Anche limitando la discussione alle trasformazioni dell’identità cinese nella cosiddetta “Cina d’Oltremare”, la mole di studi cui fare riferimento è considerevole. A presidiare il dibattito, tuttavia, è stata a lungo la questione dell’identità dei “cinesi d’oltremare” (Haiwai Huaren 海外华人 o Huaqiao 华侨), persone di origine etnica e retaggio culturale cinesi, ma non necessariamente di nazionalità cinese.
Questo perché, fino agli anni Duemila, all’interno del variegato mondo della “diaspora cinese” la quota di migranti cinesi internazionali in possesso di un regolare passaporto della Rpc era minoritaria e poco incideva, tanto sul piano socio-culturale, quanto su quello politico-economico.
La riflessione portata avanti a livello transnazionale da studiosi ed esponenti della diaspora cinese internazionale ruotava attorno ad alcuni interrogativi fondamentali. In che modo era possibile essere cinesi, o sentirsi cinesi, quando si era nati e cresciuti negli Stati Uniti, in Francia, in Malesia, ecc.? In che modo si poteva chiedere alle società delle nazioni di cui si era cittadini di accettare questa identità ulteriore e composita?
Buona parte dell’attivismo “multiculturalista” espresso a partire dagli anni Settanta dalle minoranze etniche degli storici paesi d’immigrazione dell’Occidente si è concentrato su questa particolare declinazione del problema, ovvero sulla possibilità di costruire hyphenated identities (“identità col trattino”, nel nostro caso “sino-italiani”) e sugli aspetti sociali, culturali e politici del loro riconoscimento da parte della maggioranza dominante.
Oggi però la medesima questione pare porsi in maniera molto diversa, almeno per quanto riguarda l’Italia, il paese europeo in cui risiede il maggior numero di cittadini della Rpc: 223.367, secondo gli ultimi dati Istat (aggiornati al 1° gennaio 2013), con una popolazione regolarmente presente che supererebbe le 320.000 persone. Altri paesi europei di più antica tradizione migratoria possiedono oggi quote più ampie di cittadini che vantano “origini cinesi”, ma non hanno nazionalità cinese.
I “nostri” cinesi, invece, conservano quasi tutti il proprio passaporto cinese. La Rpc è uno dei numerosi stati asiatici che non riconosce ai propri cittadini il diritto a una doppia cittadinanza: chiedere la cittadinanza italiana, per un giovane cittadino cinese nato e cresciuto in Italia, significa perdere quella cinese. Una volta persa, è quasi impossibile riottenerla. Oltre un quarto dei nostri residenti cinesi è minorenne e di questi circa 60.000 giovani, il 70% circa, è nato e cresciuto in Italia. Sono almeno 35.000 persone che, se in Italia vigesse lo jus soli, ora sarebbero probabilmente cittadini italiani “di origine cinese”, sino-italiani pronti a declinare in senso ulteriore la propria italianità. Invece, questi giovani si trovano ora a dover motivare a se stessi, alla propria famiglia e – in ultima, pesantissima, istanza – alla propria nazione (la Cina!), per quale motivo dovrebbero “smettere di essere cinesi”.
A porsi in modo sempre più stringente la questione (perché è a partire dal diciottesimo anno d’età che è possibile presentare la domanda di naturalizzazione) sono persone che oggi hanno tra i 17 e i 18 anni. In questa fascia d’età, tuttavia, la percentuale di nati in Italia crolla sotto il 30%, e si riduce al 2% per gli over 19. Il 70% degli attuali adolescenti cinesi (giovani nella fascia d’età 13-19 anni) è in realtà nato – e cresciuto almeno in parte – in Cina4 . Il tasso di acquisizione della cittadinanza italiana tra i cittadini cinesi residenti in Italia è tra i più bassi, a Milano è inferiore allo 0,5%, contro per esempio il 2,4% dei marocchini. Si tratta di un dato certamente suscettibile di cambiamento nei prossimi anni, ma che fa riflettere, specie se si considera che i titolari di permessi di soggiorno di lungo periodo tra i cinesi residenti in Italia sono meno del 50%.
Molti cittadini cinesi residenti in Italia e in altri paesi dell’Europa meridionale infatti si sono preoccupati maggiormente di inseguire opportunità di lavoro e di impresa, anche in chiave transnazionale, che non di stabilizzare la propria presenza in determinati contesti a scapito della possibilità di garantirsi una migliore sussistenza o crescita economica altrove. Questo non ha consentito di sedimentare, nella generazione dei genitori, un reale radicamento nel contesto culturale locale, neppure in termini strettamente strumentali. Oggi i genitori immigrati in Europa negli anni Novanta e Duemila sono tra i più tenaci propugnatori di una lettura in chiave genealogica, di legame con un determinato clan famigliare e un determinato territorio d’origine, dell’identità propria e dei propri figli. Questa visione non è necessariamente condivisa dai loro figli, ma non perché questi ultimi vi preferiscano un’identità più “italiana”.
Per la maggioranza di coloro che si trovano oggi nella fascia d’età adolescenziale, infatti, a fungere da vero collante identitario è la condivisione con i propri coetanei, anche quelli di recente immigrazione, di una ricca sfera di senso e di segni, veicolata dall’adozione piena della lingua cinese moderna (a scapito dei dialetti parlati dai genitori) e dall’insieme di contenuti massmediatici che essa dischiude. Essi sono ormai un target ben individuato di consumi culturali e materiali che ne condizionano la personalità culturale e la separano tanto dalla società dei bambini quanto da quella degli adulti.
Così sono il web, il cinema, la musica in lingua cinese e la moda giovanile di matrice est-asiatica a dominare i loro immaginari, non il contesto giovanile italiano, che di fatto solo pochi tra loro conoscono e frequentano veramente.
A questo universo adolescenziale in Cina si rivolgono da almeno vent’anni in modo martellante e persuasivo retoriche pubbliche dell’appartenenza nazionale e dell’orgoglio patriottico che oggi sono parte integrante delle cultura giovanile. I giovani di origine migrante che in Italia tendono a rifiutare l’atavismo rurale dei genitori per sposare invece un’identità urbana e pancinese, considerano questo patriottismo militante e fiero una delle cifre della loro contemporaneità.
Si tratta di un sentimento nazionale che si distacca nettamente dall’identità cosmopolita e diasporica che fino agli anni Duemila veniva rivendicata apertamente tra i cinesi della diaspora come una forma di “cinesità” più consona alla globalizzazione. Oggi è l’ascesa della Repubblica popolare cinese come potenza globale a rendere più attraente il dichiararsi non soltanto “di origini cinesi” o “cinesi col trattino”, bensì cinesi che “riscoprono le proprie radici” o cinesi Tout Court.
I nostri giovani cinesi nati e cresciuti in Italia oggi non si pongono tanto il problema di come diventare più italiani, ma semmai di come gestire il senso di inadeguatezza e di colpa legato alla paura di “non essere abbastanza cinesi”. Vengono in soccorso dense ed emozionanti retoriche del ritorno alla terra degli avi, ma nessuno propone loro in modo efficace, immaginifico e seducente il modo in cui potersi scoprire – ed essere riconosciuti – pienamente cinesi e italiani al tempo stesso.
In Cina, un articolato processo di rimozione e manipolazione della memoria storica sta reificando sistematicamente l’identità nazionale, rafforzando la storica demarcazione tra un “dentro” e un “fuori” dall’ecumene cinese. In Italia, invece, perseguendo finalità di costruzione del consenso altrettanto strumentali, si è deliberatamente disinvestito dallo sviluppo di retoriche e di politiche di integrazione sociale capaci di legittimare e favorire lo sviluppo di un senso di appartenenza tra i giovani di origine migrante, preferendo insistere sul carattere eccezionale ed emergenziale della “questione immigrazione”.
Orientamenti poco lungimiranti, che oggi improvvidamente cospirano a rendere questi ragazzi estranei a se stessi e al loro mondo di vita, e ormai in buona misura perduti per il paese in cui sono nati e cresciuti.
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